Di ciliegi e ciliege il privilegio

26 Giugno 2022

Anche dei frutti si deve pur dire. Della loro bellezza, bontà, voluttà. Specie in estate quando abbondano i più golosi. Dal Gelsomino notturno di Pascoli («l’odore di fragole rosse») alla scena cult di Nove settimane e mezzo, nel nostro immaginario sono le fragole ad avere l’esclusiva di frutto (meglio falso frutto) sensuale. Perciò, mio odierno compito è riscattare le ciliege dal ruolo ancillare dove sono relegate e collocarle, in questa particolare graduatoria afrodisiaca, almeno alla pari di quelle nel sollecitar voglie e accendere i sensi.

Mi soccorre Hieronymus Bosch: nel pannello centrale del Giardino delle delizie, il misterioso trittico conservato al Museo del Prado, per la rappresentazione della lussuria le ciliege, come le fragole, hanno un posto di rilievo, molti personaggi se ne cibano e stanno persino sulla testa di una bionda donna ignuda. 

Vero è che il frutto ha plurimi e contrastanti significati simbolici: compare nelle mani del bambinello nella Madonna delle ciliege di Tiziano, sulla tavola dell’ultima cena nell’affresco del refettorio del Convento di San Marco a Firenze e, Gerardo, il patrono di Monza, è noto anche come il “santo delle ciliege” per uno dei suoi miracoli.

Ma rimaniamo in campo laico: rosse anch’esse, e anch’esse carnose, succulente, per giunta spesso in due, se non in tre, l’una a tirar l’altra, come vuole il motto proverbiale, e dunque tanto più versatili. Come resistervi? E poi qui abbiamo a che fare non con una piantina rizomatosa e strisciante, ma con un albero. Il che può offrire interessanti prospettive alle nostre strategie di avvicinamento o conquista. 

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Albero saldo, affidabile il ciliegio (Prunus avium, fam. Rosaceae), ci si sta sopra comodi e sicuri. E, come gli uccelli a cui è dedicato, lo si può persino abitare: questa la scelta di Gabriele Ghio che sul suo lustro trascorso su un ciliegio selvatico ci ha scritto un libro (La mia casa sul ciliegio TS editori, 2022). 

Pare venuto a noi dall’Asia occidentale, si è diffuso in tutta Europa per poi essere coltivato in molte varietà pregiate per i fiori, per i frutti e per il legno dal colore caldo e dalla grana fine. Ha bel portamento, ramificato nella parte medio alta del tronco dalla scorza liscia e rossiccia nei giovani esemplari, fasciata di grigio argento e poi rugosa nei più adulti, e chioma tondeggiante. È specie rustica, pioniera, facile nella crescita e nel colonizzare pascoli e prati abbandonati. Convive nei nostri boschi misti di latifoglie con aceri, olmi e querce in areali fino ai 1.500 metri di altitudine.

Le foglie caduche, alterne e inserite a spirale sui rametti di accrescimento, sono di tipo semplice e penninervie, con lamina obovata alla cui base si rilevano due ghiandole rossicce in funzione di nettari, l’apice è pronunciato, seghettato il margine. Il loro verde è scuro nelle pagine superiori, chiaro e pubescente nelle inferiori; ma in autunno si colorano di gialli dorati e rossi fiammeggianti. I fiori, peduncolati come le foglie, sono riuniti in corimbi di due o più elementi e son quelli tipici delle rosacee: cinque setosi petali bianchi con numerosi stami dalle antere gialle. Senza diffonderci sulle molte varietà ornamentali, anche a fioritura invernale (incantevole a novembre quella del Prunus subhirtella), e senza volare in Giappone per l’effimero miracolo dell’hanami (guardare i fiori) di sakura, basta raggiungere le colline cesenati, a Longiano e dintorni, per essere rapiti dal bianco nuvoloso della fiorita. Ma non possiamo troppo divagare, concentriamoci dunque sui frutti, che sono drupe tonde (ma anche a cuore) dalla polpa rossa, chiara o scura, morbida o croccante, dolce o acidula a seconda dei tipi. 

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Chi da bambino non è mai salito su un albero di ciliegio si è giocato una buona fetta di felicità, la ciliegina sulla torta per dirla nel modo più pertinente. C’è una scena del Barone rampante di Italo Calvino che ben rappresenta questa stagione della vita, quando il ragazzo con ghette e spadino si imbatte nella banda dei ladruncoli di frutta:

"Poi niente, un senso fatto di nulla, come d’un trascorrere, di qualcosa che c’era da aspettarsi non là ma da tutt’altra parte, e difatti riprendeva quell’insieme di voci e rumori, e questi luoghi di probabile provenienza erano, di qua o di là della valle, sempre dove si muovevano al vento le piccole foglie dentate dei ciliegi. Perciò Cosimo, con la parte della sua mente che veleggiava distratta – un’altra parte di lui invece sapeva e capiva tutto in precedenza – formulò questo pensiero: le ciliege parlano.
Era verso il più vicino ciliegio, anzi una fila d’alti ciliegi d’un bel verde frondoso, che Cosimo si dirigeva, e carichi di ciliege nere, ma mio fratello ancora non aveva l’occhio a distinguere subito tra i rami quello che c’era e quello che non c’era. Stette lì: prima ci si sentiva del rumore ed ora no. Lui era sui rami più bassi, e tutte le ciliege che c’erano sopra di lui se le sentiva addosso, non avrebbe saputo spiegare come, parevano convergere su di lui, pareva insomma un albero con occhi invece che ciliege.
Cosimo alzò il viso e una ciliegia troppo matura gli cascò sulla fronte con un ciacc! Socchiuse le palpebre per guardare in su controcielo (dove il sole cresceva) e vide che su quello e sugli alberi vicini c’era pieno di ragazzini appollaiati."

Ne nasce una divertente battaglia movimentata dall’improvviso attacco dei contadini a difesa del proprio raccolto. Cosimo ne esce vincitore e salvatore della masnada che, seguendolo di chioma in chioma, evita le schioppettate caricate a sale. Forse, non è un caso se proprio su uno di quei ciliegi Cosimo sente per la prima volta parlare della Sinforosa:

"Mio fratello ora prendeva una a una le ciliege dal tricorno e le portava alla bocca come fossero canditi. Poi soffiava via i noccioli con uno sbuffo delle labbra, attento che non gli macchiassero il panciotto.
– Questo mangiagelati, – disse uno, – cosa avanza da noi? Perché ci viene tra i piedi? Perché non si mangia quelle del suo giardino, di ciliege? – Ma erano un po’ intimiditi, perché avevano capito che sugli alberi era più in gamba di tutti loro.
– Tra questi mangiagelati, – disse un altro, – ogni tanto ne nasce per sbaglio uno più in gamba: vedi la Sinforosa…
A questo nome misterioso, Cosimo tese l’orecchio e, non sapeva nemmeno lui perché, arrossì."

Così, Cosimo verrà a sapere che Sinforosa è il nomignolo affibbiato dai ladruncoli a Viola d’Ondariva, la bimba dell’altalena, civettuola e impertinente, già incontrata nella sua prima peregrinazione oltre il confine della proprietà paterna. 

E, certo, se fosse stato su un ciliegio e non su un fico «di legno traditore», Cosimo si sarebbe risparmiato, poco dopo, di finire penzoloni a testa in giù al cospetto della Sinforosa. Postura quanto mai inadatta per far colpo sulla smaliziata fanciulla. L’appuntamento amoroso con Viola sarà rimandato, e avrà luogo molti anni dopo su un noce. 

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Alla Viola del Barone rampante somiglia un po’, per impudenza provocante e ammaliatrice, un’altra indimenticabile figura di romanzo. Fulvia, dagli occhi «di un caldo nocciola, pagliettati d’oro», bella e sfuggente, è la ragazza al centro del dilemma sentimentale intorno a cui si arrovella Milton, protagonista del capolavoro di Beppe Fenoglio Una questione privata. Milton, lo studente universitario che è «un dio in inglese» e traduce il testo di Deep purple, che «ha una maniera di metter giù le parole» che sembrano pronunciate per la prima volta e scrive lettere meravigliose, e che ha scelto di combattere nelle file partigiane, Milton torna a rivedere quella casa e quel giardino con i quattro ciliegi dove pochi mesi prima aveva trascorso ore felici seppur angustiate. Torna a macerarsi di nuovo e sempre intorno a quel tarlo, a quella sua questione privata: Fulvia e Giorgio, l’amico che forse l’ha conquistata, l’amico catturato dai fascisti, da liberare per sapere da lui la verità.

I ciliegi sono gli alberi di Fulvia. Sono gli alberi dell’amore, inconfessato ma palese («Lo sapevano il cane di guardia, i muri della villa, le foglie dei ciliegi che ero innamorato di Fulvia»), e compaiono subito, in esordio di romanzo innescando le prime due sequenze memoriali di Milton: 

"Passò il cancello che non cigolò e percorse il vialetto fino all’altezza del terzo ciliegio. Com’erano venute belle le ciliege nella primavera del quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due. Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le più gloriosamente mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo solida. Il cestino era già pieno e ancora non scendeva, nemmeno rientrava verso il tronco. Lui arrivò a pensare che Fulvia tardasse apposta perché lui si decidesse a farlesi un po’ più sotto e scoccarle un’occhiata da sotto in sú. Invece indietreggiò di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano. «Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una. Scendi o rovescerò il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia». Fulvia rise, un po’ stridula, e un uccello scappò via dai rami alti dell’ultimo ciliegio.

Proseguì con passo leggerissimo verso la casa ma presto si fermò e retrocesse verso i ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensò, molto turbato. Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così». Poi, guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere». Ma più tardi disse, piano ma che lui sentisse sicuramente: «Hieme et aestate, prope et procul, usque dum vivam… O grande e caro Iddio, fammi vedere per un attimo solo, nel bianco di quella nuvola, il profilo dell’uomo a cui lo dirò»."

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Imperativa e provocante Fulvia: nella graduale correctio sull’apparente bruttezza di Milton, nell’individuare le parti di lui attraenti, occhi bocca e mano (secondo la vulgata, tra le più erotiche del corpo umano), nel sottrarre aria, dopo averla insufflata, alle speranze di Milton. Così, sotto questi ciliegi, avanti e indietro tra il terzo e il quarto albero, in un andare e tornare nervoso, Milton consuma quei ricordi e se stesso. 

Dalle colline di Alba al Montello trevigiano. Nel folto della guerra è sempre un ciliegio a farsi radura, respiro, risorsa vitale, anche ironica. In questo tempo di guerra che rugghia appena fuori della soglia di casa, il modo migliore per concludere sui ciliegi è offrirvi questa poesia di Andrea Zanzotto tratta da Galateo in bosco, con la sua alta richiesta finale:

(che sotto l’alta guida)

O boschi non defoliati
delle guerre di tanti anni fa
quando il ciliegio ai disperati
urli ed al sangue opponeva uno salto di qualità.

Nell’ora che più intenta al suo banco squartava la battaglia,
quando come a pidocchi si sentenziavano i destini,
neutrali a sé stavano le bestie piante della boscaglia
e a divine fogliate pause portavano i cammini.

Stava il ciliegio con le sue gocce rosse
privilegiatamente dimenticato e dimentico
tra le piante qua e là per sbaglio ferite, tra fosse
di granate e di bruum delle artiglierie ardenti.

Giovanni Comisso saliva sul ciliegio,
l’ilare sangue ne gustava a sazietà:
di Giovanni e del ciliegio il privilegio
lascia ad ogni vivente, o umanità.

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TAGGED: botanica , piante , ciliegio