Giulio Bollati, storia di un editore

14 Aprile 2024

Quando Giulio Bollati, nato cento anni fa, il 27 marzo 1924, scrive le Peripezie italiane di politica e cultura, ha chiaro che un ciclo storico è finito. È il 1983 e un’epoca di speranze, cominciata nel secondo dopoguerra, quando ci si poteva illudere, dopo aver letto Gramsci, di essere al tempo stesso liberali e comunisti, è al tramonto. Bollati è cresciuto, dopo vari spostamenti per seguire il padre ingegnere, a Parma frequentando il Convitto Maria Luigia, per poi iscriversi nel 1942 alla Scuola Normale di Pisa. Tra gli insegnanti che gli danno la migliore formazione storico-letteraria e filologica allora possibile in Italia ci sono Giorgio Pasquali, Luigi Russo e Delio Cantimori.

Nel periodo in cui la Normale sospende i corsi dopo il 25 luglio 1943 lavora come operaio in un’azienda in provincia di Novara. A guerra finita, a completarne le esperienze c’è l’ambiente di Parma, la piccola capitale, il caffè Tamara frequentato da Pietrino Bianchi e Attilio Bertolucci “mio maestro di cultura di buon gusto al liceo”, e dai coetanei Antonio Marchi e Luigi Malerba da cui è coinvolto nell’avventura della Cittadella Film, una piccola casa di produzione negli anni in cui il cinema è la prima arte in Italia.

Nel 1949 entra, assieme a Paolo Boringhieri, all’Einaudi. Nel 1951 chiama in casa editrice un altro normalista, Daniele Ponchiroli, che ne diverrà il redattore capo. L’anno prima si era suicidato Cesare Pavese e la sua morte segna la fine del periodo eroico della casa editrice fondata nel 1933 da Giulio Einaudi (1912-1999) e da Leone Ginzburg (1909-1944).

Non esiste una biografia di Bollati e quest’anno, in occasione del centenario della nascita, sono state ristampate da Bollati Boringhieri le Memorie minime (già Archinto, 2001), una raccolta di prose d’occasione prefate dall’amico Claudio Magris, e L’invenzione dell’Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell’Unità (prima edizione 2014), con una prefazione di Alfonso Berardinelli, a sua volta compagno di lavoro di Bollati, che dà conto delle alte qualità del suo saggismo e dell’eleganza della sua prosa tra letteratura, storia e politica.

Per ricostruirne il profilo intellettuale, in attesa che in autunno Einaudi pubblichi una scelta del carteggio editoriale curato da Tommaso Munari, bisogna affidarsi, più che alle memorie un po’ apologetiche dei compagni di lavoro (Davico Bonino, Ferrero), ai documenti interni della casa editrice finora noti e allo straordinario La parabola dello Sputnik. Diario 1956-1958 (Edizioni della Normale, 2017) di Daniele Ponchiroli, oltre che al Colloquio con Giulio Einaudi (1991) di Severino Cesari. Il diario di Ponchiroli, curato da Munari, è un ritratto di una redazione dove lavorano tra gli altri Bollati, Boringhieri, Fruttero, Lucentini, Serini, Luciano Foà, Cerati al commerciale, il direttore tecnico Oreste Molina, oltre agli esterni Bobbio, Mila, Venturi, Muscetta, Cases, Renato Solmi, Antonio Giolitti, punta di diamante politica del gruppo, e, au-dessous de la mêlée, Giulio Einaudi.

La casa editrice ha al suo interno la cellula del PCI ‘Giaime Pintor’ che reagisce duramente ai fatti d’Ungheria (ottobre 1956) e al comportamento di Togliatti che non sconfessa l’invasione sovietica. Un atto di coraggio collettivo, considerando i rapporti col partito – Einaudi era stato, tra il 1948 e 1951, l’editore dell’opera di Antonio Gramsci, personalmente seguita da Togliatti – e si era appena ripreso, pur tra ricorrenti difficoltà economiche, da una crisi finanziaria, dopo la trasformazione della casa editrice in società per azioni grazie soprattutto al contributo di Giulia Devoto Falck e di Giovanni Pirelli e al lavoro di ‘grande elemosiniere’ di Raffaele Mattioli. Bollati è coraggioso nello sfidare le posizioni del partito e a resistere a una base che non accettava che venisse infranto il mito di Stalin. Quotidiano è il confronto con Italo Calvino, in un rapporto di grande stima reciproca – sono gli estensori degli appelli della casa editrice e i più refrattari alla disciplina di partito – anche se Bollati soffre un po’ la libertà di manovra di Calvino, più di lui proiettato all’esterno.

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Tra l’altro Bollati, assieme a Foà e Ponchiroli, non apprezza Il barone rampante (1957) quando Calvino fa circolare il manoscritto tra i colleghi di redazione. È forse solo un indizio, ma la sua preparazione gli rende più congeniale valutare le qualità della saggistica rispetto alla narrativa. Diviene invece un maestro nella scelta delle copertine per la vasta cultura artistica (e fotografica), nel ricordo della lezione di Attilio Bertolucci, suo professore liceale, a sua volta allievo di Roberto Longhi. Ponchiroli, che è un fine psicologo, giudica Bollati “quello che vede più chiaro e lontano e largo”. Ne mette in luce alcuni tratti: il “pessimismo congenito”, il filo diretto con Cantimori (che entrerà in crisi quando Einaudi pubblica gli storici degli Annales contro il parere dell’intellettuale romagnolo), una notevole apertura intellettuale, un forte spirito aziendale (gli einaudiani si frequentano anche nel tempo libero, nei dopo cena), unito a un rapporto complesso con Giulio Einaudi. Col tempo Bollati diviene una sorta di ‘ministro degli esteri’ della casa editrice: ha dalla sua un aspetto gradevole, intrattiene rapporti autorevoli con gli autori tra i più diversi, in particolare con gli storici ma anche con narratrici di forte personalità come Elsa Morante o Lalla Romano, e, come si vede nei campioni di epistolario finora noti, ha la capacità di suscitare libri nel confronto di idee con gli interlocutori a cui scrive.

Nella crisi del 1963, quando Raniero Panzieri e Renato Solmi si dimettono dall’Einaudi, sta dalla parte più conservatrice, anzi ne è il perno. Si scontrano due visioni del lavoro editoriale, una più militante, quella sconfitta, l’altra più formativa che guarda al lungo periodo e ha un rapporto organico con il mondo dell’università (da qui il suo impegno nel far crescere negli anni successivi collane come la ‘PBE’ e i ‘Reprints’). Al termine della riunione sul libro di Goffredo Fofi sugli immigrati meridionali a Torino, la causa dello scontro, constata che per la prima volta la redazione si è spaccata in due. Nel corso degli anni Sessanta il suo peso in casa editrice aumenta: Luciano Foà lascia l’Einaudi nel 1961, Calvino collabora da Parigi, e le nuove leve, almeno una parte, guardano a lui come il garante della tradizione.

Nel 1965 è l’ideatore della collana ‘Nuovo Politecnico’, saggistica d’intervento in un momento in cui la società ribolle. Nel 1975 crea la ‘Biblioteca Giovani,’ assecondando il progetto pedagogico einaudiano di formare i lettori accompagnandoli dall’infanzia alla maturità, mentre nascono i Punti Einaudi sparsi su tutta la penisola. Il grande momento di Bollati è il cantiere della Storia d’Italia concepita con due storici passati dalla École des Annales, l’interno Corrado Vivanti e l’esterno Ruggiero Romano con cui poi Bollati entra in polemica. Tuttavia, la presentazione pubblica dell’iniziativa nel 1972 a Correggio segna forse l’apogeo della casa editrice. In quell’anno si vendono 200.000 copie del primo volume in due tomi in cui è compreso L’italiano, il saggio di Bollati che indaga sulla nostra identità nazionale, una riflessione pioneristica ancora oggi insuperata.

I rapporti tra Bollati e Einaudi sono così commentati da quest’ultimo nel libro-intervista con Severino Cesari: “Giulio Bollati, che cito tra i ‘simboli’, i ‘perni’, aveva ottimi rapporti con gli autori ma rapporti talvolta difficili all’interno. Soprattutto con me, per la mia tendenza a interferire nei rapporti con autori e consulenti, istituzionalmente delegati a lui. Non che io interferissi per diffidenza nei suoi confronti, ma il più delle volte per capire meglio, per una valutazione anche economica dei singoli progetti proposti. Di lì, tensioni che si ripercuotevano negativamente sull’atmosfera della casa editrice”. Una testimonianza tutto sommato equilibrata. Il punto di rottura tra i due avviene attorno all’Enciclopedia Einaudi, curata da Ruggiero Romano, che dispone di una redazione autonoma, anche fisicamente, dalla casa editrice, il cui primo volume esce il 1977. Una grande opera forse fin troppo innovativa, da molti considerata la causa principale del fallimento nel 1983 dell’Einaudi. Bollati non è più lì, dal 1979 si è trasferito in Mondadori, dove trova Sergio Polillo come direttore, ma gli open space di Segrate non sembrano il suo habitat naturale.

È una parte finora poco nota della sua attività editoriale, quando è aureolato dal prestigio che gli viene dall’esperienza einaudiana e dovrebbe, nelle intenzioni della proprietà, sostituire Vittorio Sereni, andato in pensione nel 1978, come direttore editoriale. Nel 1987 nasce la Bollati Boringhieri, grazie al sostegno economico della sorella Romilde, dove ritrova il collega einaudiano Paolo Boringhieri. Bollati introduce temi storici, economici, un po’ di letteratura (Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, 1987), ma la convivenza tra i due non funziona, così nel 1993 Boringhieri cede la sua quota di minoranza e si ritira. Anche questa parte della sua attività è ancora da studiare, ma mi sembra che, pur pubblicando libri notevoli, i risultati non siano all’altezza delle premesse – è cambiato il contesto sociale e culturale – e che il meglio di sé Giulio Bollati lo abbia dato come primo violino dell’orchestra einaudiana.

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