Pervinche

31 Marzo 2024

Rambaldo è attaccato da due saraceni, messo alle strette pensa sia arrivato per lui il «momento estremo» quando, al suono di un galoppo, i nemici arretrano. È di un cavaliere che sopraggiunge in soccorso:

«si voltò: vide al suo fianco un cavaliere dalle armi cristiane che sopra la corazza vestiva una guarnacca color pervinca. Un cimiero di lunghe piume anch’esse color pervinca sventolava sul suo elmo. Volteggiando veloce una leggera lancia teneva discosto i nemici».

Rambaldo combatte fianco a fianco con il misterioso «cavaliere pervinca» che, tuttavia, dopo aver battuto i due infedeli, non si mostra amichevole: non risponde a Rambaldo che lo ringrazia per l’aiuto, né gli ricambia la cortesia di presentarsi, anzi se ne va al galoppo tacito, così com’era arrivato. Riconoscenza, comunanza nella lotta, rabbia per lo sgarbo, curiosità per l’identità ignota, sono la mistura emotiva che induce Rambaldo all’inseguimento, pur appiedato per la morte del suo destriero. Fino a che il caso e la sete lo portano a un torrente dove, legato a un nocciòlo, trova il cavallo dello sconosciuto guerriero. 

E qui – siamo verso la fine del quarto capitolo del Cavaliere inesistente – Italo Calvino scrive una delle sue pagine più riuscite e memorabili:

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«Giunse al greto, affacciò il capo tra le foglie: il guerriero era là. La testa e il torso erano ancora racchiusi nella corazza e nell’elmo impenetrabili, come un crostaceo, ma s’era tolti i cosciali e i ginocchietti e le gambiere, ed era insomma nudo dalla cintola in giù, e correva scalzo sugli scogli del torrente.

Rambaldo non credeva ai suoi occhi. Perché quella nudità era di donna: un liscio ventre piumato d’oro, e tonde natiche di donna, e tese e lunghe gambe di fanciulla. Questa metà di fanciulla (la metà di crostaceo adesso aveva un aspetto ancor più disumano e inespressivo) si girò su se stessa, cercò un luogo accogliente, piegò un poco i ginocchi, v’appoggiò le braccia dalle ferree cubitiere, protese avanti il capo e indietro il tergo, e si mise tranquilla e altera a far pipì. Era una donna di armoniose lune, di piuma tenera e di fiotto gentile. Rambaldo ne fu tosto innamorato.»

Fosse stato più sveglio Rambaldo avrebbe intuito fin dal colore scelto per le insegne che sotto guarnacca e pennacchi pervinca si celava un corpo femminile. Chissà se Bradamante, questo il nome della scontrosa amazzone, secondo il più ovvio canone di bellezza (bionda e glaucopide), avrà avuto pure gli occhi di quel colore, come l’Ursula del Barone rampante: «era una ragazza con occhi di bellissimo color pervinca e carnagione profumata». Che un bel paio di natiche possa far innamorare quanto lo sguardo, non desta scalpore; è invece originale immaginarsi di far girar la testa a un cavaliere con la postura «calma e altera» tenuta durante la minzione, attitudine che, come il nome popolare dichiara, avrebbe un altro fiore emblema più adeguato: il giallo pissenlit (tarassaco, Taraxacum officinalis). Comunque, pare che anche la pervinca abbia qualche proprietà diuretica, benché gliene siano riconosciute altre e maggiori. Considerata specie officinale tossica, perciò da usare con cautela, produce un alcaloide – la vincamina – che in farmacopea è un vasodilatatore e stimolante cerebrale nei casi di ischemie e ictus, mentre in cosmesi l’infuso di foglie ha effetti antinfiammatori per dermatiti e irritazioni cutanee.

Teniamoci al tradizionale cliché ottocentesco degli occhi color pervinca, accoppiata già attiva in Aleardo Aleardi: «gli occhi cerulei in su quel bianco viso / pareano due pervinche in su la neve» (Le tre fanciulle). Nel poemetto pascoliano Italy è la bambola di Molly, la piccola tisica venuta dall’America per respirare aria buona e guarire, a sgranare «quei suoi due fiori di pervinca». Per altro, Pascoli dedica a questi fiori dalla particolare nuance azzurro-viola l’omonima saffica che entra nella terza edizione di Myricae (1894). In una fosca atmosfera gotica, le corolle sono questa volta paragonate agli occhi di uno spettrale frate cappuccino:

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So perché sempre ad un pensier di cielo
misterïoso il tuo pensier s’avvinca,
sì come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca;

io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta d’un convento oscura,
o presso l’arche, tra vilucchi e bronchi,
lungo le mura.

Solo tra l’arche errava un cappuccino;
pareva spettro da quell’arche uscito,
bianco la barba e gli occhi d’un turchino
vuoto, infinito;

come il tuo fiore: e io credea vedere
occhi di cielo, dallo sguardo fiso,
d’anacoreti, allo svoltar, tra nere
ombre, improvviso;

e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
l’avemaria.

L’incontro con la pervinca, così comune nei sottoboschi di latifoglie, innesca l’analogia coloristica con gli occhi del frate e riporta il poeta agli anni dell’infanzia urbinate nel collegio dei Padri Scolopi, già evocati nel poemetto L’aquilone. E in effetti, nel linguaggio dei fiori, la pervinca è il fiore del ricordo tenace, forse per il portamento strisciante dei rizomi che s’attaccano al terreno trattenendolo. 

A tale vocazione memoriale rinvia anche questo noto passo del sesto libro delle Confessions di Jean-Jacques Rousseau in cui sgorga tutto l’afflato sentimentale per Maman, alias madame de Warens nobildonna sua protettrice, e per il periodo felice trascorso nella sua tenuta di Les Charmettes, nei pressi di Chambéry:  

b

«Più nulla nell’avvenire vedo che mi tenti; solo i ritorni del passato possono lusingarmi, e questi ritorni così vivi e veri nel tempo di cui parlo mi fanno sovente felice a dispetto delle mie sventure.

Darò di questi ricordi un solo esempio, che consentirà di giudicarne forza e verità. Il primo giorno che andammo alla Charmettes, mamma era in portantina e io la seguivo a piedi. La strada sale: lei era alquanto pesante e temeva di stancare troppo i portatori, volle scendere press’a poco a mezza strada e fare il resto a piedi. Camminando, scorge qualcosa d’azzurro nella siepe e mi dice: “Ecco delle pervinche ancora in fiore”. Non avevo mai visto pervinche, non mi chinai a esaminarle, e ho vista troppo corta per distinguere a terra le piante dalla mia altezza. Vi gettai solo uno sguardo di sfuggita, e quasi trent’anni sono trascorsi senza che io abbia rivisto delle pervinche o vi abbia fatto attenzione. Nel 1764, trovandomi a Cressier col mio amico signor Du Peyron, salivamo un colle in cima al quale si trova un grazioso padiglione che giustamente egli chiama Bellavista. Cominciavo allora a erborizzare un poco. Salendo e scrutando tra i cespugli, lancio un grido di gioia: “ah! Ecco delle pervinche!”, e ce n’erano, infatti. Du Peyron si accorse del mio entusiasmo, ma ne ignorava la causa; l’apprenderà, spero, quando un giorno leggerà queste pagine. Il lettore può giudicare, sull’impressione lasciatami da un così piccolo oggetto, quella prodotta in me da ogni cosa che si riferisca allo stesso periodo».

Negli ultimi anni della sua vita Rousseau si dedica allo studio della botanica che diviene un esercizio quotidiano, persino ambito di riflessione filosofica e pedagogica. Intrattiene rapporti epistolari con Linneo e Malesherbes, anch’egli botanico dilettante. Scrive le Lettere elementari sulla botanica per madame Delessert in modo che possa insegnare alla figlia Madelon come riconoscere le piante, e vi allega un ricco erbario oggi conservato al museo di Montmorency. Intraprende pure la compilazione di un dizionario di termini botanici, rimasto incompiuto. 

Certa che molti di voi sappiano riconoscere quest’erbacea perenne e sempreverde della famiglia delle Apocynaceae (la stessa di oleandri e pomerie), tuttavia, in nome di Rousseau e del suo spirito pedagogico, indugio sui suoi caratteri più distintivi. Della dozzina di specie conosciute una sola è tropicale, la Vinca rosea, coltivata come pianta annuale e ornamentale, non striscia a terra come le altre della famiglia ma forma cespi dai fusti delicati e carichi di corolle bianche dal cuore rosa o rosa dal cuore rosso. Tre sono invece le spontanee diffuse sul territorio nazionale: la Vinca minor, la Vinca major e la Vinca difformis.

Insieme a primule, violette e anemoni, la più piccola vinca annuncia la bella stagione sulle prode erbose, tra i sassi e i muschi boschivi. Dai rizomi si allungano i fusti fertili, eretti e fioriferi, quelli sterili e striscianti radicano ai nodi e portano solo le piccole foglie opposte, lanceolate, dal margine intero, cupo è il loro verde ma lucido nella pagina superiore, opaco nell’inferiore. I fiori dal lungo peduncolo sono inseriti all’ascella fogliare superiore e hanno corolla tubulosa che si apre in cinque lobi a spatola saldati alla base (corolla gamopetala), dalle tinte che dal più usuale e intenso indaco possono scolorare verso l’azzurro polvere, il bianco o il rosato. Rousseau consiglierebbe di sezionare il tubo corollino per poter scorgere i cinque bianchi stami pelosi al sommo, le gialle e piatte antere, e l’ovario supero con stilo dallo stimma penta piumato. La Vinca major si distingue, va da sé, per le dimensioni e per il suo impiego nei giardini dove può ricoprire vaste superfici in breve tempo, ma la sua propensione invasiva non è facile da arginare. Ve ne sono in commercio anche a foglie variegate molto ornamentali. La Vinca difformis è presente nelle regioni meridionali della penisola, ed è simile alla V. minor tranne che nel taglio obliquo dei petali. 

Fiore letteralmente umile, secondo l’etimo originario di prostrato a terra, la Vinca minor con le sue preziose sfumature ametista ha conquistato anche l’attenzione di Henry Matisse che la dipinse nel 1912 nell’olio su tela, matita e carboncino, Pervinche – Giardino marocchino, conservato al Museum of Modern Art di New York. Rousseau, dal canto suo, ci insegna che osservare le piante, concentrarsi su un piccolo fiore di bosco, contemplarne la perfezione della forma, può consentirci di entrare in comunione con lo spirito dell’universo, di riappropriarci di un sentimento di appartenenza al tutto da cui troppo spesso siamo lontani, alieni.

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