Vedere i concetti

15 Maggio 2023

Alla luce dei problemi che le nuove tecnologie del visuale pongono ai saperi e in particolare al sapere filosofico, Mauro Carbone e Raoul Kirchmayr hanno curato il n. 396 di “Aut Aut” (dicembre 2022) dedicato a Filosofia e sapere visuale. Questo interessante numero intende mettere a fuoco quattro differenti operazioni legate tra loro. La prima riguarda la ripresa di alcuni luoghi e autori classici che hanno affrontato la questione del visuale e individuarne la loro specificità; la seconda cerca di analizzare lo statuto epistemologico del rapporto tra filosofico e visuale in modo da coglierne le conseguenze sul piano dei concetti di verità, rappresentazione, falsità ecc.; la terza ha a che fare con gli aspetti testuali e discorsivi legati agli apparati e ai dispositivi ottici; la quarta riguarda il tema dell’osservatore e il suo modificarsi di fronte ai dispositivi visuali. Giustamente i curatori iniziano la premessa citando un testo degli anni ’70, quello di Sarah Kofman, Camera obscura. De l’idéologie, che ci riporta a quel rapporto tra dispositivo e ideologia già accennato prima a proposito di Baudry e di Althusser. Nessun dispositivo è neutrale, anzi è la stessa sua forma materiale a determinare le condizioni del suo uso. Basti pensare in questo senso al Panopticon di Bentham analizzato in Sorvegliare e punire. D’altra parte, come scrivono i curatori: “gli apporti che il visuale ha storicamente offerto alla costruzione del sapere filosofico si configurano da tempo come un peculiare oggetto d’indagine” (p. 3). In tal senso gli autori di questo numero si interrogano sul rapporto tra visuale e verbale, “includendo in quest’ultimo, come da tradizione, anche il concettuale”. La chiave d’interpretazione prevalente è quella fenomenologica, ma con l’attenzione non tanto ai discorsi sulle tecnologie visuali quanto all’esperienza delle tecnologie.

Dove si nasconde la profondità, scriveva Hoffmansthal? Nella superficie! L’invisibile lo si scorge nelle trame del visibile.

Mauro Carbone analizza il tema dei veli in Kant e Merleau-Ponty seguendo l’interpretazione di Lyotard. Egli considera il Kant della Critica del giudizio come “il pensatore degli effetti prodotti da superfici che mostrano e nascondono”. Il tema del velo come quello dello schermo in Merleau-Ponty, è ciò che si accompagna alla visione. Carbone cerca di uscire dall’opposizione tra visibile e invisibile facendoli interagire, attraverso Kant e Merleau-Ponty, (si sarebbe detto una volta) dialetticamente. Ciò che è nascosto non si trova oltre il visibile ma nel visibile. Catucci propone la nozione generale di archi-schermo che funziona come un’interfaccia in grado di nascondere e mostrare insieme.

Raoul Kirchmayr pone la sua attenzione al concetto di camera oscura in Schopenhauer. In Il mondo come volontà e rappresentazione, “l’estetica non ha più lo scopo di fornire concetti per avvicinarsi a una conoscenza sensibile, com’era ancora in Kant, ma tratteggia piuttosto un’episteme della volontà di vivere” (p. 29). Kirchmayr analizza l’interpretazione che Schopenhauer dà del mito platonico della caverna e rileva che questa sembra preparare “l’introduzione della camera oscura” (p.31). Inoltre, Schopenhauer, rovesciando la concezione di Platone per il quale l’opera d’arte è copia della copia, considera la scienza un mondo di ombre, mentre l’opera d’arte rappresenta la cristallizzazione della vita in una forma pura. In questo senso l’arte è una camera oscura della vita. Schopenhauer fa correre il discorso estetico in parallelo allo sviluppo delle tecniche della riproduzione fotografica (p. 35).

Pina de Luca si sofferma sul quadro di Bonaventura Genelli, Dioniso tra le Muse (1867), che Nietzsche vide nel salotto di casa Wagner. E dentro il quadro Nietzsche vi vide la gioia dionisiaca. “E se veder agire nel mondo una simile gioia è vederla velata dal ‘velo dell’illusione’, è però, questo, un ‘velo’ che ‘si muove svolazzando e non può nascondere totalmente le forme fondamentali della realtà’ ” (p.44). E in quest’articolo ritorna il tema della superficie, perché non vi sono mondi al di là di essa. 

Tutto il numero è indirettamente pervaso dall’idea che non ha più senso associare la profondità alla distanza, un principio che caratterizza, per esempio, il mondo visto dalla prospettiva rinascimentale. Non vi è un dietro, un oltre, almeno nel senso che il dietro e l’oltre stanno in superficie. Il Kant della Critica del Giudizio e lo Schopenhauer di Il mondo come volontà e rappresentazione, come ci fanno vedere in questo numero Mauro Carbone e Raoul Kirchmayr, anticipano dunque ciò che diventa manifesto in Nietzsche (come fa vedere Pina De Luca) e, in pittura, in Cézanne e in gran parte dei saperi contemporanei: la profondità non va trovata nella distanza, là dove non vi sono neppure fondamenti che sostengono il sapere (vedi A.G. Gargani, Il sapere senza fondanenti, Mimesis, Milano-Udine 2009) e neanche una corrispondenza tra linguaggio e mondo e fra immagini e realtà. Finalmente siamo liberi dai vincoli ontologici che legavano l’osservatore a una sua pretesa neutralità. O meglio dovremmo essere liberi. Ma lo siamo veramente?

Roberto Diodato parte dal concetto di agalma, immagine, usato da Plotino per arrivare a discutere Deleuze e la sua idea di logos estetico nonché le più recenti teorie sulle immagini. Pietro Montani osserva che in Kant, “l’immaginazione può produrre immagini solo in quanto produce schemi” (p. 89). Essa “mostra di sapersi emancipare dal vincolo della adaequatio” (p. 89). Ma poi, in parentesi, subito dopo viene specificato che quest’ultima è indispensabile per la conoscenza oggettiva. Non credo che l’adaequatio rei et intellectus assicuri la conoscenza oggettiva, non più. E ciò nel sapere scientifico come in quello filosofico. Sfuggire al vincolo dell’adaequatio non significa cadere nel soggettivismo, ma cercare una regione diversa dell’oggettività al di fuori della corrispondenza. Graziano Lingua si occupa della rivalutazione delle immagini operata dal cristianesimo che le rivaluta grazie alla dottrina dell’incarnazione. “La parola ha bisogno dello ‘schermo’ della carne, di una materialità che mostri e nasconda allo stesso tempo ciò che non si può ‘vedere’ direttamente” (p. 101). Delle immagini del tempo in Husserl e in Deleuze e Guattari si occupano rispettivamente Emmanuel Alloa e Jacopo Bodini. Alla quarta operazione, quella che riguarda l’osservatore danno il loro contributo Marie Rebecchi, Annarosa Buttarelli, Stefano Catucci e Andrea Pinotti. Catucci, tra l’altro, si sofferma su David Hokney e sulle sue riflessioni riguardanti il rapporto tra pittura e dispositivi ottici (lenti e specchi e poi camere oscure e proiezioni geometriche della prospettiva rinascimentale), là dove domina la visione monoculare. La tecnologia digitale dovrebbe rappresentare in tal senso un cambiamento.  

Andrea Pinotti, nel suo libro Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale (Einaudi, Torino 2021), aveva già rilevato come la Realtà Virtuale sembrerebbe far saltare quella cornice che, nella finestra di un quadro come in quella di uno smartphone, assicura il passaggio da un mondo all’altro. In questo numero di ‘Aut Aut’, egli inizia con il famoso riferimento alla camera oscura che Marx e Engels fanno nell’Ideologia tedesca (Marx ritornerà sulla camera oscura in Il capitale, a proposito del feticismo delle merci, ma in questo caso per negare una possibile analogia) sottolineando la storicità dei sensi intesi come organi sociali. Su questa strada proseguirà Walter Benjamin, lettore anche di Georg Simmel. Ma l’attenzione di Pinotti è rivolta, in questa chiave, al senso della transitabilità dello spazio offerto dalla prospettiva lineare che sposta sul piano antropologico ciò che era sacro, assicurando l’“istituzione di un continuum fra spazio del mondo reale e spazio del mondo rappresentazionale” (p.207).

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Il motto di Marx e Engels ‘ogni cosa sacra viene sconsacrata’, implicito in Benjamin, esprime questo momento storico della secolarizzazione. Ma oggi se, seguendo Marx, la formazione dei cinque sensi è opera della storia, allora occorre saper interpretare l’impatto che sui sensi hanno la Realtà Virtuale e la Realtà Aumentata, riflettendo non solo sul movimento immersivo ma anche su quello emersivo. Come si esce oggi da una cornice che non c’è o non si vede? In fondo della capacità di entrare e uscire dalle immagini ne va il senso della nostra autonomia.

Gilles Deleuze osserva che “noi apparteniamo ai dispositivi e agiamo in essi”. Se diamo al concetto di dispositivo un senso e un significato estesi, ogni strumento che costruiamo e usiamo per interagire con l’ambiente è un dispositivo, dal coltello allo smartphone. Karl Marx evoca Benjamin Franklin per definire l’essere umano come quell’animale che fabbrica strumenti, aggiungendo però che egli è sociale e cooperativo. Ispirandosi a Vico e alla sua teoria secondo cui possiamo conoscere soltanto ciò che facciamo, solleva anche l’esigenza di fare una storia della tecnologia, dove, egli osserva, si può vedere quanto poco i singoli individui abbiano contribuito a svilupparla. Ma il concetto di dispositivo si differenzia da quello di strumento quando acquisisce significati giuridici, meccanici, ottici. In particolare, negli anni ’70, con Jean-Louis Baudry (Il dispositivo. Cinema, media, soggettività, Morcelliana, Brescia 2017) lo strumento ottico diventa prima apparato-apparecchio (appareil) poi dispositivo. Questo passaggio ha, secondo me, a che fare con Spinoza e con l’idea del processo senza soggetto, cioè di un mondo fatto di relazioni, connessioni, processi organizzati, in cui il soggetto è immerso. Althusser parla di apparati ideologici di stato e Baudry, a proposito di cinema, si chiede: ”se il carattere tecnico delle macchine ottiche, direttamente connesso alla macchina scientifica, non serva a mascherare non soltanto il loro impiego nelle produzioni ideologiche, ma anche gli effetti ideologici che tali macchine sono in grado di provocare”. I dispositivi ottici ripropongono in condizioni nuove il rapporto uomo-strumento, là dove uno strumento non è mai soltanto un mezzo per vedere e conoscere il mondo, ma anche un modo storicamente vincolante di vederlo e di conoscerlo. Michel Foucault, nella seconda metà degli anni ’70, dà al concetto di dispositivo un senso e un significato connesso con le relazioni e le strategie di potere. Non più o non solo uno strumento, dunque, ma una condizione dell’esistenza storico-sociale basata su quel nesso tra relazioni di potere e stati di dominio che egli sottolineerà negli ultimi anni della sua vita. Nel 1990 esce il libro di Jonathan Crary, Tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo (Einaudi, Torino 2013) che riconduce i temi dell’osservatore e del dispositivo alla questione ottica. 

Il tema dei dispositivi ottici, in un mondo in cui, come dice Sherry Turkle, siamo insieme ma soli, continua a evocare, nonostante tutto, ancora oggi, i miti della caverna di Platone e di Narciso e le immagini della finestra albertiana e della camera oscura grazie a cui si gioca il rapporto tra filosofia e sapere visuale. Il sapere visuale è una sorta di dannazione della filosofia. Le idee di Platone non sono visibili eppure la radice greca che dà vita alla parola idea ha a che fare con il visibile. Se, come dicono Deleuze e Guattari, la filosofia è il sapere che crea concetti, questi sono visibili oppure si danno soltanto come parole? Esistono le immagini concettuali, così come vi sono i personaggi concettuali?  Parafrasando Vico, si potrebbe forse azzardare che la visibilità dei concetti dipende da quel limite degli esseri umani che è stato però trasformato in vantaggio.

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