Gli smisurati istanti di Rachel Bespaloff

19 Aprile 2024

La filosofa ebreo-ucraina Rachel Bespaloff è al centro di un caso editoriale. Ne è artefice la casa editrice Castelvecchi, che pubblica la prima edizione al mondo delle sue opere. Nata nel 1895 a Nova Zagora, in Bulgaria, Bespaloff vive tra l’Europa e l’America, dove si rifugia per sfuggire alla persecuzione nazista. Pioniera del pensiero esistenziale, la sua filosofia muove dalle contingenze vitali, intende «farsi costruire dal reale» della guerra, dell’esilio, del conflitto dell’esistenza. In Italia sono già apparsi due volumi che raccolgono gli scritti del periodo francese (1932-1942, L’eternità nell’istante, a cura di C. Guarnieri e Laura Sanò, Prefazione di Monique Jutrin) e quelli dell’esilio americano (1943-1949, La sfida della libertà, a cura di C. Cazalé Bérard, C. Guarnieri e L. Sanò). Altri due volumi completeranno l’intero corpus. Un progetto editoriale imponente – promosso dall’editore Pietro D’Amore – che ha sùbito avuto eco in Europa dove, nel mese di giugno, saranno dedicate a Bespaloff due importanti giornate di studio, una all’École Normale di Parigi, l’altra all’Università di Vienna. Intanto, negli Usa, la Princeton University Press si accinge a pubblicare una sua raccolta di saggi. Perché questa improvvisa Bespaloff-Renaissance? In che modo il suo pensiero tocca la nostra epoca? A rispondere sarà Cristina Guarnieri, una delle curatrici dell’opera e direttrice editoriale di Castelvecchi.

Chi era Rachel Bespaloff?

Una pensatrice tragica, lacerata da una vita in permanente diaspora. Per lei il tragico è inscritto nel tessuto dell’esistenza, una dimensione inevitabile. Bespaloff porta dentro di sé l’abisso spalancato dalle due Guerre mondiali, che ne rivela poi altri, forse precedenti, di cui abbiamo testimonianze sparse. Nell’autunno del 1938, dopo la cessione a Hitler dei Sudeti, viene ricoverata in una clinica svizzera per un profondo stato depressivo. In una lettera allo storico Daniel Halévy scrive: «Ciò che è appena successo è talmente inaudito che non ci basterà tutta la vita per valutarne la portata. La storia è forse quello che lei diceva: alcune giornate fatidiche di cui un’epoca, poi, dovrà sbrogliare le conseguenze. Dopo la crisi, interrotta da questa folle tensione, stordita, ritrovo con stupore la vita quotidiana».

Ha parlato di “diaspora permanente”. Cosa intende?

Che la sua esistenza fu segnata da continui spostamenti, lesa da conflitti che riguardarono in ugual misura la vita familiare, il suo percorso artistico e intellettuale, il travaglio del suo popolo e le vicende storiche in cui si trovò immersa. Bespaloff proviene da una famiglia ebreo-ucraina molto colta. Il padre è medico e un illustre teorico del sionismo. La madre, una donna emancipata, tra le poche con un Dottorato in Filosofia nell’Ottocento. Sembra abbia trascorso a Kiev i primi anni. Quando è ancora piccola, la famiglia si trasferisce in Svizzera. Si diploma al Conservatorio di Ginevra dove è fra le allieve più brillanti di Ernest Bloch. Qui diviene una pianista e una direttrice d’orchestra molto apprezzata. All’Università studia anche Filosofia, Letteratura e Lingue e, a soli 20 anni, comincia a insegnare Letteratura francese. Una giovane piena di talenti, dunque. La storia della sua famiglia, però, è tutt’altro che lineare: i genitori ben presto divorziano. Il padre ha una relazione con una giovane cameriera d’hotel, da cui nasce un altro figlio. A 23 anni Bespaloff va a Parigi, ma già nel 1930 è costretta a trasferirsi in Provenza. È il suo primo esilio forzato. Il secondo avverrà nel 1942, negli Stati Uniti. Sono diaspore non volute.

Nel primo volume, lei ha ricostruito la biografia di Bespaloff attraverso le lettere. Più che un esilio, Parigi è un approdo: la sua Sion.

È vero. Parigi è una folgorazione, il suo “risveglio di primavera”. Vi giunge piena di speranze al termine della Grande Guerra. Lì trova la sua lingua, i suoi legami, entra a far parte del cenacolo dell’ebreo russo Lev Šestov. Respira l’entusiasmo degli inizi e il piacere della vita intellettuale condivisa. Insegna musica all’Opéra Garnier. Come scriverà nel 1941 a Jean Grenier: «All’improvviso avevo la sensazione di essere finalmente a casa mia sulla terra. È una sensazione che non avrei più avuto – che non avrei più avuto il diritto di provare».

Che traccia lascia la musica nella sua opera filosofica?

Una traccia profonda. Anzi, più tracce. In Cammini e crocevia (1938) racconta l’incontro con autori la cui esistenza «senza musica sarebbe un errore». Bespaloff è una donna di puro ascolto. Qualche anno prima aveva commentato Essere e tempo di Heidegger come una grande fuga di Bach. Non si limita a leggere, tende il suo orecchio verso le scritture degli altri. Molti amici la descrivono protesa fisicamente verso l’interlocutore. Il suo fine udito musicale si estende persino al giudizio politico sugli eventi storici. Nell’ottobre del 1938 sente per la prima volta la voce di Hitler alla radio. Le basta il timbro vocalico per prevederne la vittoria: «L’ho trovato temibile – nonostante tutto – per quel fascino potente che la fede assoluta nel proprio destino gli dà, per quella potenza di odio (eccolo, l’odio) che emana da lui e assilla il suo popolo, e soprattutto per quell’arte di costruire una realtà sulla menzogna […] L’indomani, devo confessarlo, ascoltando Chamberlain, sono rimasta tremendamente delusa. Dietro quella nobiltà, non scorgo altro che stanchezza, abdicazione, mancanza di fede nella propria causa… Quanto ha ragione Tolstoj quando afferma, in Guerra e pace, che la vittoria appartiene non a colui che ha l’armata più forte, ma a colui che ha meno paura di combattere». Infine, un’altra traccia importante della musica è nello stile poetico, nella sonorità e nel ritmo dei suoi testi, scanditi da pause e silenzi essenziali. Somigliano a partiture musicali in cui anche una virgola imprime la propria battuta.

Bespaloff non è stata solo una musicista, ma anche una danzatrice...

Sì, il suo corpo era stato modellato dall’euritmica che aveva studiato nella scuola di Jaques-Dalcroze. Tutti i ritratti che abbiamo di lei ne decantano la grazia. Jean Wahl parla della sua «bellezza principesca». Gabriel Marcel veniva ridotto in balbuzie dal suo fascino. Daniel Halévy la descrive «immobile, ma di una grazia infinita nella sua stessa immobilità».

Perché nel 1922 smette di lavorare all’Opéra di Parigi?

Perché sposa Shraga Nissim Bespaloff, uomo d’affari ucraino socio del padre, da cui avrà una figlia. La musica è per lei una profilassi: «Quando fa caldo mi immergo nel mare (non se ne ha mai abbastanza dell’acqua, dell’aria, della luce); la sera, è vero, imbratto alquanto la carta; e appena ho un momento per me, durante la giornata, corro al mio pianoforte […] Quando mi esercito sulla grande fuga in Si minore del Clavicembalo temperato trovo l’esistenza molto tollerabile». Quando salpa per l’America, porta con sé il pianoforte a coda. Ma negli anni dell’esilio non avremo più evidenze sensibili del suo rapporto con la musica, se non nella poetica dell’istante che viene elaborando nei suoi scritti.

C’è qualcosa di profondamente moderno nella condizione di sradicata di Rachel Bespaloff. Gli spostamenti cominciano sin dall’infanzia e raggiungono il culmine con il trasferimento a New York: un esilio senza ritorno. 

Sì. La Francia è ormai occupata dai nazisti e Bespaloff è costretta a emigrare. Così, nel giugno del 1942, s’imbarca dal porto di Marsiglia alla volta di New York. È incredibile quanto abbia resistito alla partenza: «Non saprei dirle di che cosa è fatto il mio attaccamento alle cose di qui, ma sento chiaramente di non essere spostabile. Animale da guscio… Tanto peggio per il guscio, e tanto peggio per l’animale». Alla fine salirà su quella nave insieme alla famiglia e all’amico più caro, Jean Wahl. Sarà uno strappo definitivo.

In America, però, coltiva il suo legame con la Francia in molti modi. Ad esempio, tenendo saldo il riferimento alla sua cultura.

Il baratro in cui sprofonda l’Europa rende feroce il suo attaccamento alla Francia. Quasi sempre, gli scritti dell’esilio sono dedicati ad autori francesi (Corneille o Racine, Péguy, Camus o Sartre), eredi della tradizione umanistica europea che rifiuta di sostituire all’essere umano «il robot di un formicaio». L’umanesimo è un antidoto alla moderna barbarie. Bespaloff denuncia la disumanizzazione della guerra e preconizza un movimento di cui oggi vediamo il drammatico esito sociale. Ritroviamo lo stesso acume quando, nel 1939, commenta ad Halévy il difficile stato di salute delle democrazie europee: «Nell’Europa sfinita dal difficile parto della pace, la democrazia potrebbe assumere forme difficili da prevedere. La guerra, i massacri, le persecuzioni, le migrazioni di minoranze avranno iscritto le frontiere nella carne stessa dei popoli. Nella sventura, l’Europa avrà subito il livellamento brutale che imporrà l’unificazione economica e politica che non ha saputo realizzare per altre vie. Esausta, esangue, tornerà in vita?».

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Nella stagione americana, Bespaloff affida spesso alle lettere le sue riflessioni sulle sorti d’Europa e del mondo. Cosa significhino per lei amici come Jean Wahl, Gabriel Marcel o Daniel Halévy, lo descrivono bene le parole di Saint-Exupéry: «una carne da cui dipendevo, una rete di legami che mi reggeva».

Quando tra lei e i suoi affetti ci sarà l’oceano, le lettere saranno un vero e proprio viatico. A Marcel scrive: «La sola cosa che mi strappi a questo sonnambulismo cronico sono le lettere dalla Francia così avidamente attese. Come esprimerle la gioia e la gratitudine che ho provato nel ricevere le sue. L’esilio è una sorta di amputazione, ci si abitua – e non ci si abitua mai, facciamo finta». A de Schloezer: «Le sono grata per il disturbo che si prende a non farmi deperire, per connettermi al suo mondo. Non può immaginare la gioia che mi procurano lettere, libri e riviste dalla Francia». L’amicizia è fonte di gioia, la mantiene in vita. «È incredibile cosa può fare una voce amica quando le cose vanno male».

A proposito di voce, dopo l’arrivo a New York, Jacques Maritain e la moglie Raïssa aiutano Bespaloff a trovare lavoro presso un’emittente radiofonica francese: La Voix de l’Amérique [La Voce d’America]. La musica si trasforma in voce…

Siamo nel 1943, dall’altra parte dell’oceano l’Europa è in guerra e arrivano notizie sempre più certe degli abomini hitleriani. Bespaloff profonde un impegno straordinario nella scrittura delle puntate radiofoniche. 

Attraverso la sua voce raggiunge il mondo perduto…

È proprio così. In una puntata commenta la Lettera a un ostaggio di Saint-Exupéry, allora pilota d’aereo in lotta contro Hitler. Questa lettera è indirizzata a Léon Werth, intrappolato nella Francia occupata. Saint-Exupéry ha paura per lui, si chiede dove sia. Allora gli scrive un testo commovente, un vero inno all’amicizia come incontro e istante di sospensione. Due amici, seduti al tavolo di un ristorante a strapiombo sul fiume, bevono assieme un bicchiere di vino e ritagliano un attimo di pace nell’inferno che li circonda: «Tra amici si andava d’accordo. […] D’accordo su che cosa? Sul Pernod? Sul senso della vita? Sulla mitezza della giornata? Non avremmo saputo dirlo neppure noi. Ma l’accordo era così pieno, affondava le sue radici in una bibbia tanto evidente nella sua sostanza, che, benché informulabile per mezzo delle parole, noi avremmo accettato volentieri di fortificare quella veranda, di sostenervi un assedio e di morire dietro a una mitragliatrice per salvare quella sostanza».

Salvare la sostanza dell’amicizia?

Sì, nel pieno dell’orrore, prendersi cura di un incontro, prestare attenzione a cose minute o salvare «un certo miracolo che non pesa più di un sorriso, ma a cui sono sospesi la nostra certezza e la nostra speranza di pace». Si rivolge via radio ai francesi combattenti nelle file della Resistenza per condurli in questa scena, a un incontro tra amici che sospende l’orrore della guerra. Con questi gesti di resistenza e di umanità, «sotto il duro sole dell’esistenza guerriera, si forma la suprema delicatezza dei sentimenti comuni».

Si direbbe che l’incontro e i piccoli gesti assumano quasi un valore politico. E poi, nel commento all’Iliade, la dimensione dell’incontro diventa cruciale anche per coloro che sono su sponde nemiche. Così, nel pieno della guerra, può sempre fiorire l’intimità fra due esseri: l’amicizia fra Achille e Patroclo, l’amore coniugale di Ettore e Andromaca, la tenerezza fra Ettore e la straniera Elena, quella materno-filiale fra Teti e Achille. Questi «legami della sensibilità» scardinano l’odio. La pace diventa possibile se, anche nel mezzo del più duro conflitto, ciascuno riconosce nell’altro non più un barbaro ma un essere umano. Se i nemici riscoprono – come scrive Massimo Cacciari – ciò che li rende «ospiti gli uni degli altri». È un’alternativa radicale al «culto della forza». Potremmo dire che l’incontro è la gioia di un tempo che torna a essere umano?

Sì. L’amicizia interrompe l’automatismo della violenza, è il luogo senza frontiere che sfugge alle morse della guerra, e instaura un’altra logica. Accade anche nell’incontro dei nemici che, da fronti avversi, si preoccupano di risparmiare all’avversario l’offesa e di esercitare la giustizia. Questo è un tema decisivo nell’opera di Bespaloff, sempre alla ricerca di un istante capace di sospendere il regno della forza. Nel saggio sull’Iliade, lo chiama «tregua sacra».

Uno dei passaggi più belli del saggio è costruito proprio attorno alla parola “tregua”, che è stata anche di Primo Levi. La ricerca della tregua spinge Priamo ad attraversare da solo il campo nemico per entrare nella tenda di Achille, l’Uccisore di suo figlio. Tregua è una parola da riscoprire: quasi un dono per la nostra epoca.

Dove più infuria la violenza e si scatena la battaglia, proprio lì Omero insinua delle tregue solenni che, per un istante, fanno cessare il maleficio del divenire. «L’odio si sgonfia e si mitiga, gli avversari possono guardarsi in faccia e cessare di essere l’uno per l’altro un bersaglio, una cosa da distruggere». La violenza è oltrepassata da tutto ciò che rende nobile l’essere umano: l’amicizia, l’amore, la poesia, il canto. Sono istanti di contemplazione, di resurrezione. 

Il commento di Bespaloff al testo omerico si accende su parole quali “supplica”, “istante” e “tregua”. La supplica di Priamo è un’invocazione, suppone vi sia qualcuno in grado di riceverla. È un atto di fiducia nell’Altro, lo istituisce persino.

Sì, la supplica di Priamo è una «deroga eccezionale alle leggi del meccanismo della violenza». Insinua un istante d’umanità nel cuore della guerra. La supplica dà voce agli offesi, ai vinti. A quanti restano inascoltati. Sono «le suppliche, non dell’umanità in generale, ma di ogni individuo in particolare». Diversamente da Simone Weil, che interpreta negli stessi mesi l’Iliade come “poema della forza”, Bespaloff scorge nel canto omerico non solo l’atrocità dell’abuso, l’eccesso di cui gode ogni potere, ma anche «la sovrabbondanza di vita che rifulge nello spregio della morte». Priamo non cerca vendetta, ma pace. È capace di un atto impossibile.

Sembra che l’istante e la tregua sacra non rispondano a una logica riparativa. Piuttosto, come direbbe Derrida, a un’etica iperbolica. Non si basano su una giustizia distributiva, ma su una logica eccedente: la supplica di Priamo non era scritta negli eventi, era imprevedibile, agisce come un salto. È uno strappo, un atto di rottura.

Sì, è dell’ordine di un’eccedenza. Nel silenzio che segue la supplica, l’impossibile si compie. Bespaloff lo evidenzia poeticamente: «È questo, io credo, il più bello dei silenzi dell’Iliade – quei silenzi assoluti dove si inabissano il fragore della guerra di Troia, il vociare degli uomini e degli dèi, il brontolio del cosmo. Il divenire dell’universo è sospeso a questo silenzio impalpabile, che dura soltanto un istante, e permane». Ogni atto impossibile sortisce effetti reali e durevoli.

Accade qualcosa che scavalca l’inappellabile: Priamo bacia la mano che ha ucciso suo figlio. Compie l’impensabile. E allora anche Achille finisce in ginocchio, quella supplica lo strappa alla sua ira. «L’Uccisore ridiventa un uomo carico d’infanzia…».

Bespaloff chiama “santità” la capacità che i vinti hanno di non adorare il destino che li schiaccia. In questo senso anche Priamo, il Re della supplica, è santo. Perché, al culmine dell’offesa e del dolore, conserva la sua regalità ed è capace d’incontrare l’assassino del proprio figlio. L’altezza di questa supplica è tale da placare il supplicato.

La supplica di Priamo assolve la vita nella sua totalità, con il suo non-senso e la sua tragicità, con il suo dolore inutile. «Il prestigio della debolezza trionfa per un istante sul prestigio della forza». In quel momento riesce persino ad ammirare la bellezza di Achille: la bellezza che «consuma tutte le contingenze». Una delicatezza infinita che è «appannaggio della vera forza». 

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Omero non risparmia ai suoi personaggi alcuna solitudine. Il dolore resta: Priamo dovrà confrontarsi con il cadavere del figlio. Achille a breve andrà incontro al proprio destino. L’epos non attenua in alcun modo lo scandalo della sofferenza, la banalità del male. Nessuna sanatoria, ma un atto che eccede gli eventi e apre un altro tempo e un altro luogo: il solo da cui si potrebbe ripartire. È il tempo «atopos», scrive Cacciari, dell’istante. Per Massimo Recalcati è un momento di grazia. 

Quando Achille il distruttore si commuove alla richiesta del vecchio Re, l’eternità irrompe nel tempo. È un istante dalla durata smisurata. È il miracolo della permanenza perché gli atti di profonda umanità sono incancellabili. Come una profetessa biblica, Bespaloff ci ricorda che nei tempi più oscuri è sempre possibile aprire una crepa al cuore del male. Anche quando la storia ci trascina nella barbarie, «c’è, ci sarà sempre un certo modo di dire il vero, di proclamare il giusto, di cercare Dio, di onorare l’uomo, che ci è stato insegnato all’inizio e non cessa di esserci insegnato di nuovo, dalla Bibbia e da Omero». Il confronto con la macchina del totalitarismo non spegne in lei la fiducia nei valori dell’umanesimo. Il che non significa una redenzione del male compiuto. Nessuna trascendenza al di là della vita, cui resta lo stigma di insanabili lesioni. Eppure, «è bastato questo incontro al confine della notte perché l’alba di una gioia sconosciuta alla gioia riconcili la vita con la vita».

L’esperienza dell’esilio, però, mette a dura prova la sua speranza. Di fronte al calvario degli emigranti, costretti ad attendere documenti di viaggio che forse non arriveranno mai, commenta: «Corrono… io corro. Dove? Perché? Durerà fino alla consumazione dei secoli? Da un paese all’altro? Da un continente all’altro? Meglio varrebbe sparire allora…». Negli stessi anni, anche Hannah Arendt si interroga sulla condizione dell’esule, espropriato di ogni bene e di ogni diritto. Nel saggio Noi rifugiati (Einaudi 2022) descrive come il totalitarismo travolga i riferimenti sociali e culturali, dissesti i luoghi, alteri persino il senso delle parole: «Finora – scrive – si era soliti considerare rifugiato chi era costretto a chiedere asilo o per le azioni compiute oppure per le proprie opinioni politiche. Con noi il termine rifugiato ha cambiato significato». Quali parole cambiano di significato per Bespaloff?

Forse la parola “patria”. Il che è straordinario, se pensiamo che Bespaloff era una convinta sionista e seguiva con passione le sofferte vicende della formazione dello Stato di Israele. Nel suo saggio La doppia appartenenza elabora un concetto di nazione opposto al “culto dell’orgoglio” della Germania nazista. Dopo la Shoah, la parola “patria” si slega da ogni volontà di potenza, dall’ideologia delle identità muscolari. Non è più un territorio fisico o un’astrazione ideale, ma ciò che permette e preserva «una certa qualità delle relazioni umane».

Ma davvero la tradizione umanistica basta a ricostruire la pace? La realtà contemporanea, con la sua crisi politica ed ecologica, con la sua hybris tecnologica, non mette forse in crisi questa idea?

Era una domanda radicale anche per Bespaloff: la saggezza di Montaigne – cifra della sapienza occidentale – basta a ripartire dopo la Shoah? Nel saggio L’istante e la libertà scrive: «Laddove l’ultima scelta non esiste più, dove si muore nel carro bestiame, nella camera a gas o sotto tortura, l’uomo trova forse una suprema risorsa che gli permetta di affermare il suo essere al di là della propria distruzione? […] La dialettica dell’istante rimane sospesa a questa risposta impossibile». È un interrogativo che ha attraversato l’intero secondo Novecento e che non smette di agitare anche noi. In un altro saggio postumo, dedicato a Camus, la disperazione sembra prendere il sopravvento: «Alla fine di una guerra mostruosa che ha quasi cancellato la distinzione tra innocenti e colpevoli, talmente profonda è l’umiliazione che ha inflitto all’uomo, come allontanare la tentazione di rassegnarsi alla futilità della storia?».

Eppure, è proprio negli eroi di Camus che Bespaloff scorge il puro desiderio di vivere, la rivolta umana alla violenza come destino. 

Sì, trarre «dal fallimento un’accettazione feroce della vita», sperimentare anche in seno alla peggiore distruzione «una nuova tenerezza per il terrestre», pur sapendo che sarà inevitabile ricadere nella volontà di potenza, che è la legge della storia: questa è la vera eredità di Bespaloff. È il compito del poeta che, al culmine della catastrofe, salva dal tempo storico la «precaria solidarietà del noi». In questa «fragile sfida all’enorme stupidità della crudeltà» Bespaloff è profondamente dostoevskijana. Verità, libertà, sono al fondo «l’espressione di un’esigenza di salvezza, testarda, potente, come il voler-vivere, e che nulla può sopprimere in noi, perfino se tutto provasse che è insensata». In certi istanti, si può amare la vita, malgrado tutto. 

Bespaloff, però, ha sempre camminato sul bordo fra distruzione e creazione. Un confine che gli artisti conoscono bene, e che non è mai assicurato né risolto. Proviamo allora a rilegare i fili tessuti sinora. Il tragico, la tregua, l’istante, la gioia, sembrano incarnarsi nella forma dell’eppure: un’avversativa rispetto al dramma dell’esistenza.

Sì, l’esistenza è intimamente polemos. Ma in questa avversativa risiede la capacità creativa degli esseri umani. In una lettera a Marcel, Bespaloff scrive una frase di rara sensibilità musicale: «Eppure, la vita può ancora, in certi minuti, essere incredibilmente bella – come un tema che riappare verso la fine con qualche nota in meno, una sincope, un ritardo…».

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