Srebrenica. Storia di una rinascita

25 Settembre 2023

8.372. È questo il numero accertato (e non definitivo) delle vittime del genocidio di Srebrenica, il primo genocidio in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Ottomilatrecentosettantadue ragazzi e uomini bosniaci musulmani, uccisi nel luglio del 1995, quando Ratko Mladić, a capo delle truppe serbo-bosniache, entrò a Srebrenica, enclave serba della Bosnia orientale, promettendo di ripulire quei territori dai turchi. Lo si può risentire pronunciare questa frase in uno dei video con cui il museo del Memorial Center di Potočari, alle porte di Srebrenica, ricostruisce quelle giornate e ne commemora le vittime, attraverso foto, testimonianze dei sopravvissuti, filmati d’archivio. Sono una testimonianza e un lugubre ricordo gli stessi spazi che ospitano il museo. In quell’edificio, una volta fabbrica di accumulatori, dal 1993 al 1995 alloggiavano i battaglioni olandesi dei Caschi blu dell’Onu, inviati a Srebrenica per proteggere la popolazione civile. Non solo non la protessero, ma permisero che il piano della pulizia etnica in Bosnia, ufficialmente annunciato da Radovan Karadžić nel maggio del 1992, venisse portato a termine dinanzi ai loro occhi. 

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Ciò che accadde nell’arco di pochi giorni a partire dall’11 luglio 1995 nella cosiddetta “safe area” di Srebrenica fu, a dispetto del termine, una tragedia immane. Fosse stato uno spettacolo teatrale, avremmo pensato a un’esagerazione da parte dello sceneggiatore. Ma è accaduto tutto, e per tutto ci sono prove e testimonianze. Migliaia di uomini uccisi, molti dei quali tentavano disperatamente di sfuggire alla morte raggiungendo a piedi la città di Tuzla attraverso i boschi, in quella che è diventata tristemente nota come la Marcia della morte. Lo racconta con grande sensibilità e capacità evocativa una mostra concepita da Azir Osmanović, Elma Hašimbegović e Elma Hodžić e allestita nell’area accanto all’archivio del Memorial Center. Mentre, a fine luglio, i famigliari degli uomini uccisi ancora attendevano invano il loro rientro e le notizie su fosse comuni si rivelavano sempre più fondate, i Caschi blu dell’Onu, come racconta sempre un filmato d’archivio, lasciarono Srebrenica per recarsi a Zagabria, dove festeggiarono la fine di quello che loro definiscono un incubo. Missione compiuta.

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A distanza di quasi trent’anni il genocidio di Srebrenica vive nei ricordi delle persone coinvolte e nella memoria individuale di chi sa che la pace si può salvaguardare solo conoscendo ed elaborando la storia, al di là dei confini nazionali in cui tendiamo a rinchiuderla. Srebrenica, come del resto la guerra che ha portato alla scomparsa della Jugoslavia dallo scenario geopolitico, non fanno certo parte della memoria collettiva europea. Basti pensare a quante volte, allo scoppio del conflitto in Ucraina, abbiamo sentito parlare del primo conflitto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Strano che si possa anche solo immaginare di costruire un’Europa all’insegna della pace, senza ricordare la guerra nei Balcani. O, peggio ancora, liquidandola come una storia irrimediabilmente balcanica, una resa dei conti tra popoli facinorosi che un giorno si amano e il giorno dopo si uccidono tra loro. Srebrenica e la guerra jugoslava furono e continuano ad essere anche una questione profondamente europea.

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Lo sa bene Irvin Mujčić, che a Srebrenica è nato nel 1987 e che è tornato a viverci nel 2014. Il suo progetto “Srebrenica City of Hope – Città della speranza” tiene viva la memoria di quei luoghi, e, soprattutto, ci dice che dopo la barbarie della guerra c’è tanto, tantissimo bisogno di vita, di utopia, di poesia. Anche a Srebrenica. 

Irvin è cresciuto a Cevo, in Val Camonica, dove arrivò nel 1995 come profugo, assieme alla madre, alla sorella e al fratello più piccolo. Erano fuggiti da Srebrenica il 16 aprile del 1992, un giorno prima del suo assedio. Il padre, chiuso nell’area protetta dai Caschi blu olandesi per i quali lavorava come interprete, è una delle 8372 vittime di Srebrenica. Tra queste c’è anche il fratello della madre. Irvin studia filosofia a Roma, si interessa di diritti umani, in particolare di quelli dei bambini rom nei Balcani, partecipando a vari progetti comunitari, fino ad approdare agli uffici dell’Unione Europea a Bruxelles. Un percorso esemplare, che per le aspettative e i modelli di vita della maggior parte di noi appare come la migliore delle vite possibili. Ma non è così per Irvin, che sente il desiderio di tornare a Srebrenica per costruire altro, per sé stesso e per la comunità circostante. Per riportare vita e prospettive in quei luoghi e per raccontarli senza che il peso del racconto diventi opprimente. 

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Irvin e la Drina.

Sulle prime lo fa portando in città giovani turisti europei, che trovano sistemazione nelle poche strutture di accoglienza aperte e in case private. Il successo dell’iniziativa lo incoraggia a compiere il grande passo, quello della costruzione di un eco-villaggio a circa 12 km da Srebrenica, nel mezzo di un denso e meraviglioso bosco della Bosnia orientale. Qui Irvin acquista un terreno impervio e impraticabile, ci mette un anno per ripulirlo, e nel 2018 inizia a costruire casette in cui accogliere futuri ospiti. Il materiale di costruzione – legno e pietre – è rigorosamente locale, come lo è lo stile di costruzione stesso, che richiama tradizioni antiche quando si costruiva senza ricorrere a chiodi. Nel frattempo le casette del villaggio, chiamato “Ekometa” e ispirato dall’incontro con il gruppo italiano “Amici della Natura”, sono diventate cinque, per un totale di quindici posti letto; due sono dotate di bagni, mentre una grande baita ospita altri bagni e docce comuni. Accanto alle capanne, di là da uno dei due fiumiciattoli che attraversano il bosco, ci sono un grande tavolo in cui si mangia tutti insieme, e, sotto una piccola tettoia, uno spazio in cui Irvin scatena il suo talento culinario. Da lì escono ravioli ripieni di ragù di cervo o di ricotta e ortiche, gnocchi con gulash di selvaggina, tagliatelle ai funghi, pane casereccio, crepes – che, a onor del vero, si chiamano palačinke – con marmellata di lamponi, e altre bontà che chi c’è stato ricorda a lungo. Gli ingredienti sono tutti locali, coltivati e prodotti da Irvin stesso, che nel frattempo si è costruito una piccola serra per la verdura, o dalla rete di contadini che si è creato negli anni, proprio con l’obiettivo di dare un’occasione di rinascita anche alla comunità circostante. Rientrano in questo scambio solidale anche pranzi o cene presso famiglie bosniache locali, che raccontano agli ospiti il loro vissuto con parole, gesti, cibo, con le melodie delle sevdalinke, o semplicemente con il silenzio. 

Per nessuno di loro è stato facile rientrare, e ancora non è scontato vivere a Srebrenica per i bosniaci musulmani. Certo, non hanno più bisogno di essere scortati dall’Onu, come per diversi anni è stato dopo il cessate il fuoco, ma la strada per una convivenza pacifica e un dialogo franco con la maggioranza serba è ancora molto lunga. Anche perché la politica, quella ufficiale, non aiuta, ma, anzi, spesso e volentieri continua a soffiare sul fuoco, mai del tutto spento, del nazionalismo e del fanatismo identitario. Essere serbo-bosniaci, croato-bosniaci o bosniaci musulmani è, insomma, ancora una questione di fondo della Bosnia ed Erzegovina, avvallata, del resto, dalla politica internazionale, che questo ha sancito con gli accordi di Dayton. I bosniaci musulmani, o bosgnacchi, come oggi si vorrebbe chiamarli, si trovano definiti tali esclusivamente su base religiosa, poco importa che la religione abbia o meno un ruolo nella loro vita. 

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E poi c’è il tema della convivenza tra vittime e carnefici, perché a parte nomi noti di cui si è occupato il Tribunale dell’Aia, per il resto giustizia non è stata fatta, e spesso vittime e carnefici si trovano a convivere nello stesso luogo, proprio come convivevano prima di diventare tali. È un tema enorme e sottovalutato, che pone la questione della colpa e del perdono, e altri quesiti universali, come racconta magistralmente la regista macedone Teona Strugar Mitevska nel film L’appuntamento (2022), ambientato nella Sarajevo postbellica. 

Un progetto come “Srebrenica – Città della speranza” deve fare i conti con tutto questo. Lo sa bene Irvin, che infatti non ha ricevuto alcun tipo di aiuto o supporto da parte della città stessa, se non quello della rete di persone che lui nel tempo si è costruito da solo, attraversando la regione a piedi o, tutt’al più, a cavallo, e conquistandosi – lui che ai loro occhi era ed è, per certi versi, ancora l’italiano di Srebrenica – la loro fiducia. E poi ci sono i tanti giovani volontari che arrivano nel villaggio da tutta Europa e danno una mano, nella costruzione delle baite e, chissà, forse anche di un’altra Europa.

A Irvin il coraggio e le idee non mancano. Un’altra casetta è in arrivo e presto ci sarà uno spazio per esporre e vendere prodotti locali e un altro da riservare a una biblioteca, per bambini e non solo. E sul versante culinario dovrebbe arrivare anche la mozzarella, fatta da lui con il latte dei contadini del luogo. La mozzarella di Srebrenica.

Non gli mancano nemmeno le idee su come far conoscere questi luoghi e raccontarli con il rispetto e la consapevolezza che richiedono. Così, nel luglio di quest’anno, Irvin e sua sorella Elvira, che molte lettrici e lettori di lingua italiana conoscono e apprezzano come autrice e traduttrice – il suo ultimo, bellissimo, romanzo La buona condotta è uscito con Crocetti nel febbraio del 2023 – hanno organizzato la residenza di pensiero, scrittura ed escursioni “Come fossi un bosco”. In quell’occasione al gruppo di partecipanti è stato proposto un percorso di scoperta e esplorazione della natura e della storia di quei territori. Camminate nei boschi, gite al lago, tuffi nel fiume si sono alternati a letture tratte da testi di autori e autrici della cosiddetta Jugosfera e a giochi ed esercizi di immaginazione e di scrittura, in cui ciascuno ha potuto cercare le parole più adeguate per condividere i pensieri e le emozioni di quei giorni.  Un’occasione preziosa per lasciarsi attraversare dalla natura e dalla Storia, e percepire al tempo stesso l’incessante scorrere della vita, sinuosa e indomita come la Drina.

La biblioteca della Jugosfera
La biblioteca della Jugosfera.

Nel villaggio di Irvin ci sono varie amache su cui ci si può far cullare dal respiro del bosco (sempre che non siano già occupate dai suoi meravigliosi gatti). Su una di queste si legge la scritta: “Born in Utopia”. Mi piace pensare che la forza e il coraggio con cui Irvin porta avanti la sua visione di una società diversa e migliore provenga anche dall’utopia di uno stato plurale in cui egli stesso è nato e di cui in qualche modo si è certamente nutrito. Così tanto che quando gli chiedono se non gli capiti di sentirsi scoraggiato o addirittura di temere per il futuro del suo progetto, lui, l’italiano di Srebrenica, la cui parlata bosniaca è cadenzata dal ritmo della lingua italiana, risponde: Scialla.

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