Le balene e il Pianeta

10 Settembre 2022

La nostra esistenza su questo pianeta è insostenibile. Siamo creature instabili e notoriamente la terra è soggetta a cicli di estinzioni. Non so se ce ne andremo tra due secoli o duecentomila anni e aggiungo che non m’importa né mi rende nervoso. Al momento mi preoccupa di più il destino di certi meravigliosi fossili come l’ammonite. 

Werner Herzog

Il corpo di una balena è troppo grande perché la sua immagine possa essere contenuta sotto la calotta del nostro cranio. È ultraforma e anche se la faglia tra le parti d’osso delle placche s’allargasse non sarebbe possibile accoglierla interamente, esaurirne la forma. 

La balena è carne. La balena è un’idea e diventa un orizzonte se vogliamo accoglierla. 

La prima reazione di un bambino a cui chiesi quanto fosse grande una balena fu di alzare le braccia verso l’alto, senza esitazioni, disegnando prima un cerchio, poi due riportandole sopra la sua testa. Più insiemi che diventano uno: forma che tutto accoglie, come la volta celeste, come l’amore o una prova di volo.

La balena è un’ultraforma, qualcosa che eccede la misura di qualsiasi orbita conosciuta: il corpo della balena non accetta unità di misura né quando lo si immagina, o quando lo si incontra dal vivo o se ne osservano le costole, i fanoni, le mandibole, le vertebre, appese alle pareti dei musei, delle case all’incrocio delle strade di campagna, dondolanti sotto le volte delle chiese, conficcate nel terreno di un giardino antico. Esorbitante è il numero di storie che, in tante lingue e tempi diversi, ne raccontano la carne, il mito, l’enigma vivente, diurno e notturno, d’acqua e di terra.

La forma balena mi ha abitato e io ho abitato in lei per molto tempo. In un progetto* durato venti anni che in qualche modo non potrà mai concludersi.

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Poster promozionale del film Moby Dick, la balena bianca, regia di john Huston, 1956.

Eppure tutto quello che sono ora, quello che tutti noi siamo è passato attraverso la sua carne. Non è solo metafora!

Le balene nella testa diventano ossessione. Lo dico per esperienza personale e per avere incontrato, nel corso di due decenni, persone che hanno condiviso con me la loro storia d’incontro con i cetacei, veri o immaginati: scienziati, scrittori, poeti, direttori di circo, musicisti, filosofi, disegnatori, attivisti, e tanti, tantissimi bambini.

Un’esca per l’immaginario, ecco cosa era.
Ho innescato un processo che si è rivelato,
nel tempo, di ampia partecipazione: chi entrava 
in contatto anche solo con l’idea di costruire
e far viaggiare questa balena di tessuto si lasciava
coinvolgere a più livelli, offrendo il proprio contributo
alla sua costruzione fisica e narrativa.*

Tra questi “appuntamenti” a cui ho avuto la fortuna di presentarmi, c’è stato quello con lo scrittore Philip Hoare, di cui è recentemente uscito in Italia Albert e la balena (Il Saggiatore, 2022). Incontrai Philip anni fa a Londra, invitato in occasione di una presentazione pubblica del mio progetto cetaceo. Rimasi toccata dalla sua naturale gentilezza e disponibilità all’ascolto e al raccontare storie, intrecciare vite di altri, e di altri esseri non per forza umani, alla sua.

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Ho risentito Philip diversi anni dopo, chiedendogli un breve testo, per contribuire al mio, di immaginario animale. E così ha fatto. L’aneddoto che ha scritto per il suo contributo (Ho visto la mia prima balena a Londra), racconta anche del suo incontro ravvicinato, insieme a un caro amico d’immersioni, con un gruppo di capodogli nell’oceano Indiano ed è lo stesso riportato alla fine del suo libro Albert e la balena: un centinaio di capodogli in fase d’accoppiamento con cui avevano nuotato per qualche tempo improvvisamente si spostarono verso nord, e trenta di questi si schierarono a formare un cerchio, come testuggini, rispondendo a una chiamata d’aiuto.

Qualche istante per capire che volevano difendere le madri e i piccoli da un’attacco di ventiquattro orche, da un branco di lupi gregari, astuti e bellissimi. Non riuscendo nel loro intento, le orche si allontanarono. Hoare e l’amico le seguirono col peschereccio di sei metri su cui erano rapidamente risaliti per vedere cosa avrebbero fatto e queste, in tutta risposta, cominciarono a girare loro intorno, cercando per speronarli. “Non è capitato che finissimo in acqua”, dice Philip, “e questo mi ha consentito di essere ancora qui per raccontare la mia passione amorosa” per il popolo di mammiferi marini.

Ricordo ancora come teneva le mani mentre raccontava di sé e ascoltava i suoi interlocutori, quella volta a Londra. Sempre sue le mani che diventano protagoniste di uno dei capitoli del libro: mani che per malanno si stavano chiudendo progressivamente a pugno, deformandosi, come radici e infine operate, per aprirsi nuovamente, come in una schiusa. 

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Cartolina, 1904.

“Lo specialista non me lo aveva detto che, sapienza popolare vuole, sia meglio operarsi con la luna calante, “Nessuno ha detto nulla sulle mia ossa, sul fatto che sono alberi, balene, uccelli, pietre, o di come la luna sciolga la mia ombra sul fondale marino. L’oceano, dice Ismaele, è il lato oscuro di questa terra.” 

Per analogia le sue mani sono anche le mani disegnate da Dürer, le sue, che compaiono appese alle pareti delle case per secoli, in atto di preghiera (le stesse incise sulla tomba di Warhol) e pure la mano disegnata poco prima di morire, nel 1521, col dito completamente piegato.

Hoare scrive di ossessioni, innanzitutto la propria, attraverso la lente di eventi biografici del genio di Dürer: l’ossessione per il vivente, per le cose del cosmo e per le domande che cominciano a inanellarsi appena si viene al mondo. 

La curiosità di Albert fu inesauribile, attratto da quegli oggetti che dicevano di meraviglie lontane, nascoste, esotiche difficili da concepire: come le balene che aveva studiato nei racconti di Alberto Magno, e che non vedrà mai dal vivo. “Le balene sono diventate ciò che volevamo che fossero… eppure conservavano la loro aura sensazionale anche quando venivano bollite per ricavarne dell’olio. (…) per un artista rappresentavano una grande sfida, un’attrazione, proprio perché erano così difficili da comprendere. Proprio come per Dio, nessuno la pensava allo stesso modo sul loro aspetto, o su ciò di cui potevano essere capaci”.

Non ho cacciato il suo corpo,
non ho consumato le sue fibre per farne sapone, 
luce, cibo, rossetto, esplosivo, ombrello,
profumo, propellente, corsetto o fertilizzante.

In un libro del 2008, Leviatano, ovvero la balena (Einaudi) Hoare ricorda come sia stato possibile guardare prima la Terra dallo spazio che avere un’immagine di una balena nel suo elemento naturale, mentre nuota libera: “Sapevamo che aspetto avesse il mondo prima di sapere che aspetto avesse la balena”.

In Albert e la balena segue una linea irregolare, una scia invisibile attraverso i secoli e le storie di alcuni individui che hanno cercato e incontrato la propria balena, talvolta restandone schiacciati, a volte trasformandola, in altre facendola fiorire: episodi delle vite di Thomas Mann, Marianne Moore, Erwin Panofsky, W.G. Sebald per citarne alcuni, s’intrecciano a quella di chi ne racconta, mentre la figura dell’artista aleggia col suo “tratto” preciso e inarrivabile, costruendo insieme all’autore un paesaggio fluttuante, che passa dal personale al collettivo, dal presente al passato con agilità acquatica.

Una zolla d’erba, una lepre, l’occhio di un cervo: 
modi di vedere, modi di pensare il vivente.

Dürer non ha mai visto una balena, neppure quelle spiaggiate che sembravano accompagnare, con le loro apparizioni, i tempi tragici delle grandi epidemie d’Europa. Hoare ricorda ad esempio l’immagine, poi ridisegnata più e più volte (diventando un riferimento iconografico per tutto il continente e per alcuni secoli) della “balena spiaggiata”, quella arenatasi il 2 febbraio 1598 nel nord dell’Aia e incisa da Hendrick Goltzius: tanta gente intorno a guardare, come a una fiera d’attrazioni e mostri. Le viscere esplosero facendo ammalare con gli effluvi del cadavere, molti di coloro che erano lì, nobili e paesani, donne e uomini. 

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Jacob Matham after Hendrick Goltzius, The Beached Sperm Whale near Berkhey, 1598, 318 x 428 mm, Engraving, Atlas Van Stolk, Rotterdam.

Le balene contengono, raccolgono nella loro massa altra massa. 
Materia vivente, idee, sogni, transatlantici, e grandi edifici, ponti sospesi e dirigibili.
E molta gente, tante persone. Tutto contengono.
E sfuggono, non si fanno trovare, laggiù in quell’acqua così densa, 
dove i colori si fermano per diventare nero.
Allora diventano davvero l’altro, un paradigma per l’umano.

“La balena suscitava sbalordimento, una dilatazione dell’ordinario”, racconta nei primi capitoli Rebecca Giggs, in Le regine dell’abisso (Aboca), libro uscito dal 2021 e che porto con me in valigia da diversi mesi. Il titolo originale tocca un nodo cruciale di tutto il libro: Fathoms, The World in the Whale. ‘Fathoms’ è un’unità di misura marina, un braccio di mare (1.8288 m), usato per misurare la profondità dell’acqua. La balena è un abisso di mondo.

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Per la giornalista e scrittrice australiana l’incontro che ha acceso l’ossessione cetacea è stato con una megattera spiaggiata in una località turistica poco lontana da dove viveva e col tentativo fallito di salvarla e di riportarla in mare. 

Dal primo entusiasmo dei bagnanti, bambini urlanti d’emozione e adulti a cui brillavano gli occhi, si era passati, con lo scorrere delle ore, a un sentimento di ansia crescente nel vedere inutili tutti i tentativi per salvarla. Ma non si poteva smettere di guardare: l’attrazione verso quel corpo apparentemente muto, ma di cui si poteva ascoltare il respiro cavernoso, contagiava tutti, anche coloro che, per la lunga fila d’attesa che si era creata, non riuscivano ad avvicinarla. 

Un essere troppo grande per morire facilmente (anche a causa del suo sistema nervoso centrale così vasto le cui parti si spengono solo un po’ alla volta), destinato a soffocare sotto il suo stesso peso, “a bruciare” sotto lo strato di grasso che serve da protezione nei mari più gelidi. Quando non è possibile issarne il corpo e portarlo a largo, perché affondi naturalmente, o lo si smembra e seppellisce, lo si brucia come rifiuto tossico oppure, se la carcassa si è incagliata tra le rocce, si usa dell’esplosivo. Un fuoco d’artificio di carne, grasso, ossa. E non solo, probabilmente: frammenti di microplastiche e materiali di scarto di ogni tipo, ciabatte infradito, vasetti di yogurt, una serra volata in mare da chissà dove, grovigli mostruosi di reti e galleggianti.

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Scatto della tappa del viaggio della balena Goliath (1959-1977): una Balenottera comune di 22 metri, cacciata e imbalsamata nel 1955. Courtesy Jean Rezzonico Collection.

Il corpo della balena è un memento vivente dell’azione nefasta dell’umano sull’ecosistema di cui è parte: da mostro biblico, a preda portata sull’orlo dell’estinzione è diventato animale “carismatico” da difendere, emblema delle lotte ambientaliste, peluche con cui addormentare i propri piccoli insieme a orsi, leoni (predatori esautorati) e unicorni colorati. 

Nel suo stomaco possiamo leggere di inquinamento, clima, della relazione con la fauna selvatica e del benessere degli animali, di commercio, “del futuro e del passato”. 

Molto simili a noi il loro sangue-latte-
sperma-canto
, così grandi da non poterle
contenere in una sola parola. Scivolano
da sotto l’acqua, sprofondano un poco nell’aria.
Si mostrano per un attimo, mai per intero,
se non per la figura spiaggiata della morte.
Balenano di vita.

La carne delle grandi balene assorbe e trattiene sostanze chimiche, metalli pesanti e composti inorganici: vivono a lungo (in alcuni esemplari di balene della Groenlandia sono state rinvenute, negli strati profondi del grasso – blubber – , punte d’arpione di pietra, databili nella seconda metà dell’ottocento) e fisiologicamente non neutralizzano o espellono le basse concentrazioni di tossine che si depositano nei loro tessuti, attraverso le prede di cui si nutrono e pure attraverso l’aria che respirano emergendo e le accumulano per decenni. Sono corpi tossici.

“Il loro grasso veniva estratto dai balenieri e distillato per accendere lampade, oliare macchine, lavorare tessuti e alimentare gli ultimi stadi della rivoluzione industriale” e proprio dal grasso di questi corpi è iniziata la ricerca delle sostanze (PBC e benzeni) che in una sorta di ciclo mortifero si sono poi depositate, nel corso degli ultimi 50 anni nei loro corpi.

Ma la balena ha troppo dolore
e subito dopo muore

Alle donne Inuit della Groenlandia è consigliato di non mangiare carne di beluga durante la gravidanza e di non allattare poiché nelle loro mammelle si depositavano, nel tempo, sostanze chimiche cancerogene. L’artico è tra i luoghi più “fragili” della terra: non solo dal punto di vista ambientale ma anche per chi da secoli oramai vede il proprio destino influenzato a migliaia di chilometri di distanza.

L’elenco degli effetti concatenati, delle relazioni che non riusciamo neppure a immaginare per quelle parti del vivente che ancora non abbiamo nominato, inventariato è molto lunga e complessa e Biggs ci racconta, con voce rotta ma lucida, di questa complessità: impattiamo anche su ciò che non conosciamo e mai conosceremo. 

La presenza dell’umano è ovunque e i cambiamenti ambientali radicali oramai innegabili anche dai più scettici.

Il mare pare avere perso la dimensione atemporale e misteriosa che ha sempre rappresentato per l’umano. L’insondabile che copre la gran parte del globo, sembra diventato il mondo alla rovescia da cui estrarre materiali preziosi, dove lanciare bombe di suono per scoprire dove scavare, piste dove grandi navi possono spostare incessantemente grandi quantità di merce. 

Esiste un pernicioso e terribile legame
tra il progressivo sovrasfruttamento 
delle risorse del pianeta e l’inarrestabile
allontanamento dagli archetipi immaginativi,
radice dell’umano.

Il whalefall o la “caduta della balena”: un corpo morto che dalla superficie marina piano piano affonda, cambiando forma e sostanza, fino alla zona abisso pelagica, nel buio eterno (per la prima volta documentata nel 1977): lì le sue ossa e il resto della sua carcassa si depositano sul fondo, imbiancati, dalla “neve marina” (quel piovisco continuo di detriti di materia morta) ed esplodono di vita nuova: “più di duecento specie diverse possono occupare la cornice di una sola carcassa di balena” e possono trascorrere decine e decine d’anni prima che si dissolva totalmente. 

Se provo a immaginare questo tempo lungo, questo movimento lento e inesorabile, questo brulichio di vita che crea la possibilità di altra vita ancora, provo un senso di quiete profonda. Una sorta di pacificazione.

Il punto resta la nostra relazione all’animalità: come ci ricorda John Berger gli animali espandono la nostra esistenza, risvegliano in noi l’enigma fondamentale del vivente: “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificatamente all’uomo” (Perché guardiamo gli animali?, 1977). Guardarli è come cercare una risposta a una domanda che non ha bisogno di essere formulata, perché noi stessi siamo animali. “ Da principio gli animali entrarono nell’immaginario dell’uomo come messaggeri e come promesse”. Forse vederli, o meglio, guardarli, potrà aiutarci a sopravvivere al mondo complesso che verrà e soprattutto potremo trovarvi indicazioni su come “coabitare in esso con le altre creature”, coltivare la compassione, sentire insieme. 

Perché una possibilità di salvezza, se mai potrà essere, passa attraverso “un’immaginazione basata sulla scienza che consenta di comprendere meglio il mondo sensoriale delle altre specie e di valutare la vera estensione del mutamento ambientale da prospettive alternative alla nostra”, senza lasciarsi schiacciare dalla paura per la perdita esponenziale di biodiversità in atto.

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Scatto della tappa del viaggio della balena Goliath (1959-1977): una Balenottera comune di 22 metri, cacciata e imbalsamata nel 1955. Courtesy Jean Rezzonico Collection.

Le balene, coi loro corpi, le loro abitudini alimentari 
assorbono una quantità enorme di carbonio, 
influenzano il livelli di anidride carbonica nell’atmosfera.

Altre domande che pone Biggs e che leggo come molto ficcanti sono queste: “come possiamo farci compassionevolmente coinvolgere da cose distanti e mai incontrate”?

Quanto di politico c’è nella definizione del limite di un corpo, corpo animale, rispetto al resto del vivente? 

Siamo dei superorganismi, dei bioti in relazione perenne. Il punto è come l’attitudine a proiettarsi, a uscire da noi e immaginarsi in luoghi che non possiamo fisicamente osservare, o immaginarsi situazioni che per varie ragioni non potremo facilmente incontrare (anche solo trovarsi di notte in una foresta o pure appollaiarsi con delle galline sui loro trespoli mentre si studiano tra loro e stabiliscono gerarchie**) possa diventare “essenziale anche a un pensiero ecologico?”. Considerare il mare profondo e l’esosfera, e come le nostre vite potrebbero collegarsi ai danni a loro arrecati. Contemplare anche l’interno della pancia di una balena, per vedere se contenga krill e becchi di calamaro o piuttosto sacchetti di plastica o paperelle gialle. 

Il mondo che conoscevamo è sparito 
ma anche quello che non conosciamo ancora.

La domanda che si pone Biggs e che sfila lungo tutto il libro potrebbe essere riassunta così: la meraviglia che attrae l’umano verso questi esseri, così vicini, per molte delle loro caratteristiche e così lontani per molte altre, familiari e alieni allo stesso tempo, non impone anche un dovere sostanziale, che non si deve ammutolire col senso d’impotenza e di colpa che molti sentono, e cioé quello di prendersene cura? E cosa vuole dire “curare”? Tenere una maggiore distanza oppure intervenire miratamente, il più presto possibile? Nessuna ricetta univoca è possibile ma la complessità non deve scoraggiare.

La balena (ma potremmo dire per molti animali, e per specie a noi lontanissime, come colonie di batteri o una foresta) espande la nostra capacità morale “poiché ci mostra che è possibile interessarci a quello che si trova al difuori della nostra sfera d’azione immediata, ma all’interno della nostra sfera d’influenza… Ci parla dei luoghi che non visiteremo” in un lontano solo immaginabile per la maggioranza di noi, “ci ricorda la nostra capacità collettiva di “controllarci” se solo lo volessimo”. Siamo probabilmente l’unica specie “capace di immaginare un futuro spogliato della meraviglia di incontrare altre specie”.

Preservare creature che sono per noi inimmaginabili, 
che compongono ciò che siamo
l’ambiente in cui viviamo.
Un fossile d’ammonite.

“Quello che perdiamo quando perdiamo un animale è la possibilità di considerare il mondo più vasto rispetto alla portata della nostra esperienza”. Dobbiamo essere responsabili del meraviglioso assunto di Spinoza, la sub specie aeternitatis che vale per tutta la vita che vive: è il vivente che deve continuare a dispiegarsi, la vita deve continuare a vivere anche dopo di noi. 

* Claudia Losi, The Whale Theory. Un immaginario animale, Johan&Levi, 2021

** Ringrazio sempre e di cuore Alice Benessia per gli interrogativi che alleva e coltiva attraverso le esperienze quotidiane di Pianpicollo Selvatico, Levice.

Nell'immagine Philip Hoare nuota insieme a dei capodogli al largo del villaggio di Kalpitiya, nel golfo del Mannar, Sri Lanka, 2013. Foto di Andrew Sutton eco2drew.

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