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Gadda: una giraffa nel giardino delle belle lettere

17 Febbraio 2016

Continua ad agire nella nostra cultura una pregiudiziale anti-tecnologica. Nella premessa ai saggi raccolti in L’altrui mestiere (1985), dove si era divertito a gettare il suo sguardo di chimico di professione su altri ambiti del Paese d’Enciclopedia, in cerca dei legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura, Primo Levi osservava che la spaccatura fra intellettuale e tecnico, fra chi lavora col pensiero e chi lavora con le mani, è “una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile”. Certo, resta fatica improba gettare ponti al fine di scavalcare l’assurdo crepaccio che separa la cultura scientifica da quella letteraria: e lo stesso Levi, centauro in cui cercano di saldarsi il mestiere di chimico con la scrittura testimoniale e “cosmichimica”, riconosce in un’intervista quanto sia impegnativo far convivere le due anime, i due “mezzi cervelli”, quello che si attiva nella  fabbrica e quello che si dedica alle lettere: “È una spaccatura paranoica (come quella, credo, di un Gadda, di un Sinisgalli, di un Solmi)”.

 

L’antico dissidio fra le due culture è anche un lascito di quella tradizione umanistica che pure predicava la centralità dell’homo faber e proprio nella tecnica, seguendo il mito prometeico, indicava lo specifico dell’umano, quel che lo distingue dalle altre specie animali. Ma l’umanesimo naturalistico di Levi non è quello appreso sui banchi del Liceo classico, dove discipline formative erano (sono?) ritenute solo quelle in cui brilla lo Spirito, le arti e le lettere, la storia e la filosofia. La “congiura ordita dalla scuola” (accenti analoghi sono nel Meneghello dei Fiori italiani), negando il valore del sapere tecnico-scientifico, non si limita a rinchiudere gli allievi in un mondo «popolato da civili fantasmi cartesiani» (Se questo è un  uomo), ma soprattutto finisce per negare le premesse stesse dell’umanesimo. Se l’uomo è artefice, infatti, lo è perché ha appreso a servirsi delle mani, quelle mani, ed è la lezione di Darwin, che hanno “tratto dal torpore il cervello umano». È nel laboratorio di Chimica dell’Università torinese che tacciono le vane controversie dei filosofi e si apprende ad essere uomo completo, in grado di affinare, insieme alle doti intellettuali, anche le facoltà sensibili e corporee, ad esercitare il naso ed il tatto. Se l’uomo è artefice, costruttore anche di se stesso, lo è in primo luogo in quanto “costruttore di recipienti: una specie che non ne costruisce, per definizione non è umana”. È in termini tecnico-operativi, pragmatici che dovremo cercare di accostarci alla natura umana, non in termini coscienzialisti o spiritualisti. E quella definizione ha per Levi il pregio di evidenziare due qualità umane, “la capacità di pensare al domani […]; la capacità di antivedere il comportamento della materia”.

 

Quando ha lasciato il neoidealismo (e certo storicismo che ne ha ripreso l’eredità), la tradizione italica ha spesso accolto con favore le filosofie per le quali il sapere tecnico e scientifico resta una prospettiva parziale, orientamento nel mondo o semplice modalità d’intervento sull’universo dei solidi di superficie, oblio dell’Essere a favore dell’operare, senza pensare, fra gli enti. Le sirene di certe varianti apocalittiche o catastrofiste della deep ecology hanno ribadito un’immagine della tecnica come pratica connessa alla logica del dominio distruttivo, se non del nichilismo. E così all’uomo non resta che sentirsi antiquato, secondo la formula di Gunther Anders, ormai vinto dalla “vergogna prometeica” di scoprirsi meno performante dei suoi stessi prodotti. In Sartre, è la figura dell’ingegnere ad assumere il ruolo emblematico di nemico del pensiero e dell’esistenza autentica; l’ingegnere, nella ricostruzione che ne farà Simone de Beauvoir ne L’età forte, “imprigiona la vita nel ferro e nel cemento, tira diritto davanti a sé, cieco e insensibile, sicuro di sé quanto delle sue equazioni, scambiando spietatamente i mezzi con i fini”. Incapace di quell’immaginazione grazie alla quale la coscienza, in virtù del suo potere irrealizzante rispetto al mondo, si scopre libera, l’ingegnere sembra incarnare al meglio la povertà di un sapere vincolato alla necessità delle cose.

 

Vale la pena allora riascoltare le parole di un ingegnere, Carlo Emilio Gadda, che si presentava come “ingegner fantasia, con penisole e promontori nelle lettere, scienze, arti, varietà, con tumori politici ed annichilimenti dopo i pasti …”, e non alieno dalle sofisticherie filosofiche. Mentre abbozza nel 1928 una tesi di laurea in Filosofia (incompiuta, anche per gli impegni professionali), stila un suo trattato, La meditazione milanese: scritto inventivo ed originale, che, a partire dalla «coscienza della complessità», apre una prospettiva obliqua, transdisciplinare, per interpretare l’universo dei sistemi, integrando e ibridando tecnica e cultura, macchine e organismi, ingegneria e biologia (un orizzonte non lontano da quanto verrà elaborato dalla teoria dei sistemi e dalla cibernetica). Gadda è consapevole di muoversi, in un campo filosoficamente inesplorato, “con la linda ed elegante speditezza degli ingegneri, a cui l’umanità deve molto, ma che sono, filosoficamente, dei ‘tiradritto’”. Eppure è proprio la sua formazione “ingegneresca” a fornirgli una scatola d’attrezzi concettuale ed operativa ignota a quei “cacadubbi” che sono i filosofi (e discorso analogo si potrebbe fare per l’altro ingegnere-filosofo della letteratura del Novecento, Robert Musil).  

 

Iscritto al Politecnico di Milano nel 1912, Gadda consegue la laurea solo nel ’20, reduce dalla grande guerra, quando aveva ormai finito per dimenticare “le tavole di proiettiva coi loro inviluppi di linee: o gli inviluppi divennero dei gomitoli, ingarbugliati dal gatto” (Il castello di Udine). Ma la “placca” dell’ingegnere impone il rispetto delle esigenze di precisione matematica e la speranza che “la vita civile si dovesse fondare sopra una certa saviezza tecnica”, sul modello del costruire ponti e canali, sull’opera di muratori e sterratori. Come ha scritto uno dei massimi studiosi del Gaddus, Gian Carlo Roscioni (Il duca di Sant’Aquila), l’ingegneria “al suo spirito etico-pragmatico pareva in primo luogo, di tutte le discipline, la più consona alle facoltà logiche-finalistiche del mettere in ordine il mondo”. Gli obblighi di sopravvivenza lo costringeranno a una professione non sempre gradita, a cui cercherà di sfuggire per incamminarsi sulla “miserabile via delle lettere più o meno belle” e della consolante filosofia. Già la scelta dell’ingegneria, intrapresa per soddisfare il desiderio materno, è paragonata da Gadda alla situazione di una ragazza “condotta ad un matrimonio sbagliato” e la professione di ingegnere sarà definita “il mio mestiere di schiavo”. Una professione messa in burla (“un ingegnere rimbambito sul calcolo sublime”), come il Politecnico in cui si sono formati tanti rampolli della borghesia milanese. Nel 1932, in un testo rimasto inedito fino al 2007 (apparso nel quinto numero della rivista I quaderni dell’ingegnere), Gadda si lanciava in un feroce invettiva contro il mondo imprenditoriale milanese, parlando dei Rusconi: “Appartenevano a quella gente che sorride di pietà e di superiorità quando parla del governo, ma che è assente da tutte le attività del governo: assente dall’amministrazione, dalla magistratura, dall’esercito, dalla marina, dall’insegnamento […] Il presentarsi come professore di filosofia o di diritto romano o di storia antica in un salotto milanese equivale a farsi ricevere con un’occhiata di commiserazione. Soltanto chi fabbrica scaldabagni o maniglie di ottone stampato è una persona degna di considerazione a Milano […] Interminabili tiritere contro i professori e le scuole si sentono ad ogni pié sospinto negli illuminati salotti della borghesia pacchianissima, lodi dell’attività pratica, inni allo scaldabagno, ditirambi verso le maniglie di ottone stampato”.

 

Qui non siamo di fronte al rifiuto dell’attività pratica, semmai alla riconosciuta necessità di saldare tecnica e cultura, secondo la formula di Lewis Mumford. L’operare del tecnico e l’universo delle professioni costituiscono la migliore esemplificazione della razionalità, come attesta il passo di una lettera del ’53 inviata a Leonardo Sinisgalli, allora direttore de La Civiltà delle Macchine:

 

L’ingegnere progettista […] vede l’opera, vede “la cosa che dovrà essere”, il filo dell’atto, degli atti, che discende dalla canocchia del pensiero. Vede il compito davanti a sé, il “problema da risolvere”, la disciplina dell’esecuzione […]. il buon ingegnere, come il buon tecnico e il buon operaio, ha il senso pressoché istintivo di ciò che è logico o altrimenti detto razionale.

 

È al mondo delle macchine che Gadda si rivolge, nella Meditazione milanese e altrove, in cerca dei modelli di procedure che sappiano escogitare soluzioni innovative di fronte ai rompicapo che la realtà pone continuamente: la tecnica morde «in corpore veritatis» più di qualsiasi altra attività umana. Negli anni Venti John Dewey ricordava che il termine greco techne indicava quel che poi verrà chiamato arte: e la tecnica era pensata  nella continuità fra opere della natura e opere dell’uomo, fra il poiein del mondo fisico-biologico e il produrre della tecnica umana (tema vivo anche in Levi). Come in Dewey, anche per Gadda il mondo della tecnica non è l’universo dell’artificio che si edifica in opposizione alla natura e in contrasto con essa.

 

È spiacevole che al grido della palingenesi: “Natura, natura!” (nel qual grido si colgono per altro toni giustissimi) certuni abbian ricusato di prendere a considerare con serenità i fenomeni dell’artificio o vita meccanica. Una centrale telefonica automatica; una stazione radio; un palcoscenico moderno costituito dalle più artificiose disposizioni meccaniche, fotogenetiche, elettriche: non sono men reale natura che il sulfuroso vulcano, o l’arido greto del torrente, o lo sterco delle bestie quadrupedi, o bipedi. Quei fatti della invenzione son fatti e sono dunque natura: ché la mente disegnatrice è natura e la storia degli uomini tutta è natura (Meditazione milanese).

 

Ne deriva una concezione del sapere modellata sulla dimensione costruttiva e “artigianale” dell’agire dei tecnici. Il progetto di un’opera, in qualunque ambito, deve sottostare ai vincoli della realizzazione, il pensare deve mettersi alla prova riconoscendo gli «indugi» che la prassi impone: e questo significa affidare al tribunale della realtà il compito di controllo delle affermazioni e di inveramento della teoresi e, di conseguenza, accettare che le proprie illusioni crollino di fronte al responso dei fatti. Di qui il rifiuto dello Spiritualismo, caro alla retorica del fascismo, che proclama il “diabolico sproposito” per cui “lo spirito vince la materia”: “Sì, stai fino. Prima di tutto è da vedere di che materia si discorre: se è roba dura, come gneiss o granito o sienite, o una marmellata fetente: e, poi, che spirito è che il demiurgo padre gli ha versato a uno nella capa: il fabbro” (saggio del ’48, Palombari sull’Alpe). Gadda confida in un rinnovamento della nostra cultura, attardata sulla riproposizione di un umanesimo spiritualista e retorico, grazie al recupero di quella “saviezza tecnica” per cui l’agire è criterio di valutazione e di controllo del pensare. È il pragmatismo il grande assente della nostra filosofia, incapace di seguire il cammino indicato da Galileo e dal suo “estremo religioso empirismo” (MM): “i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta”, proclamava il Dialogo sopra i due massimi sistemi. Giudizio che riecheggia nell’affermazione di Primo Levi: “Galileo era un grandissimo scrittore proprio perché non era scrittore affatto. Era uno che voleva esporre quello che aveva visto”. E Galileo è fra quelli che sanno denunciare la frode di certe consecuzioni parolaie, di certi vaniloqui che rifiutano di venire a patti con la realtà e di accordare fiducia alla materia, “incaricata di rappresentare i vincoli logici del mondo”: “ammettere religiosamente la possibilità del dato, imprevisto dall’io limitato” (MM.) equivale a «tenersi pronti a riconoscere il possibile passaggio del treno […] Non ammettere il dato (mancanza di spirito empirico, don Chisciottismo, testardaggine, insolenza dell’io limitato contro i misteri, distrazione, ecc.) vuol dire andare sotto il treno” (MM).

 

Quel che Levi chiamava l’effetto di “mutuo trascinamento” fra lettere e scienze ha le sue ripercussioni sulle modalità espressive e sull’etica della scrittura, che promette fedeltà al dettato delle cose. Il linguaggio tecnico, insieme al dialetto, diviene in Gadda uno strumento di difesa contro la retorica della lingua ufficiale, che violenta il reale e lo ricostruisce in modo illusorio. Uno dei maggiori contributi espressivi delle tecniche (come recita il titolo di un saggio gaddiano) sta nel garantire l’univocità referenziale ai dati empirici, nel soddisfare il bisogno di “felice esattezza”. La letteratura che si nutre di scienza si arricchisce non solo di un lessico rigoroso ma anche, per dirla con Levi, di un patrimonio di metafore, con cui ampliare i modi di accostarsi alle cose e di ancorarsi al reale. E come Levi indicava a modello la capacità di comunicazione diretta, senza ambiguità, del rapporto settimanale di fabbrica, così anche il barocco Gadda dice di preferire “la prosa tecnica dei rapporti d’ufficio” (I viaggi la morte).

 

“Le discipline matematiche e la disciplina dello scrivere, cioè dell’esprimersi nei termini propri d’una lingua, hanno feudi in giurisdizione comune. Istituiscono omologie di problemi”, scrive Gadda nel 1954 sulla rivista Mach per ingegneri. Nel raccogliere la sfida cognitiva del reale, la letteratura rinnova la funzione delle scienze: anch’essa è “l’indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità”, risponde al bisogno di “organare il groviglio conoscitivo”. E anche l’opera letteraria si iscrive  nell’orizzonte pragmatico della techne: è prodotta secondo i modi del fare artigianale, nelle forme di un poiein “collettivo”, che si inserisce nel solco di una tradizione linguistica. Senza nessuna enfasi sulla creatività del singolo, e con talora esplicite tonalità anti-crociane, Gadda guarda al “prodotto” letterario nei modi della felice analogia tra lo scrittore e il montatore di tralicci della Chiave a stella di Primo Levi. Venendo da un campo estraneo alle lettere, scrive il Gran Lombardo, “un campo di azioni noiose e diligenti, posso portare qualche cosa della mentalità zotica del mestiere nella regione degli specialisti e dei raffinati: ne verrà fuori un ‘pasticcio’ curioso come soggetto strano, come giraffa o canguro del vostro bel giardino”.

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