Antonio Delfini

10 Maggio 2012

Riga, una collana che avvicina ai grandi innovatori del Novecento

 

Riga è nata nel luglio del 1991 senza nessun particolare programma. Volevamo piuttosto fare la rivista «che ci sarebbe piaciuto leggere». Una rivista dedicata al contemporaneo, ad autori e temi che ci sembravano rilevanti nel corso dell’ultimo secolo, ma non solo. Una rivista che conservasse la memoria del passato, e insieme che si protendesse sul futuro.

 

Marco Belpoliti, Elio Grazioli

 


 

Più passano gli anni, più la figura di Antonio Delfini scrittore e moralista cresce d’importanza agli occhi dei contemporanei. Non è infatti un caso che egli, per una parte consistente dei giovani scrittori e non solo, sia un esempio e forse perfino un modello, e non perché ne manchino; tra i contemporanei ci sono infatti scrittori notevoli, ma Delfini è per molti qualcosa di più di un riferimento. Eppure, se c’è qualcosa d’inimitabile, è proprio la scrittura di Delfini, il suo modo tutto particolare di fare «letteratura», senza farla mai.


Lo scrittore modenese è in apparenza il più antiletterario degli scrittori contemporanei, quello che più sfugge alle classificazioni e alle tassonomie. E ciò che un tempo si sarebbe detto un difetto - non avere il suo bravo centone nelle pagine delle storie letterarie patrie - oggi è solo il segno tangibile di un vantaggio che lo scrittore Delfini ha accumulato su molti. Questo non in virtù di qualche riuscita operazione di marketing culturale, ma per quel naturale e benefico effetto che il tempo ha sull’opera di chi ha scritto, dipinto o scolpito in un dialogo serrato e implacabile con se stesso. Ma Delfini non è importante solo per gli scrittori - in apertura di questo volume ve ne sono alcuni che, in maniera diversa, dialogano con lui - o per i pittori - qui se ne sono raccolti tre, ma il numero di coloro che leggono e rileggono con attenzione Delfini è tra di loro più vasto - bensì per tutti noi.


Ha ragione Cesare Garboli, quando di recente ha ribadito che Delfini riappare al nostro orizzonte in momenti particolari, anche se non sempre felici o fortunati. Forse si potrebbe aggiungere che questo avviene sempre in momenti decisivi della storia morale e civile del nostro Paese. È capitato a metà degli anni Cinquanta, quando venne ristampata la Basca, poi a metà del decennio successivo, subito dopo la sua morte, e così all’inizio degli anni Ottanta, il nostro ancora incombente passato prossimo. La ragione di quella che potrebbe sembrare una semplice casualità è da ricercarsi nelle pagine di quella Introduzione alla Basca, dove un Delfini deluso, addolorato, ma non domo, ha ricostruito in un meraviglioso e lirico racconto sospeso tra sogno e lucida analisi, la storia della sua anima che è anche la storia dell’anima italiana.


La ragione della continua attualità di Delfini, della sua esemplarità, è tutta in questa per lui tragica coincidenza che, in modo più o meno diretto, le pagine qui raccolte raccontano: pochissimi scrittori hanno incarnato in modo così perfetto la storia dell’anima di questo secolo come il «perdente» Delfini. Perciò Delfini è uno scrittore appassionatamente civile, proprio come lo è stato l’amatissimo Leopardi, così impastato con gli umori della sua terra da poter denunciare uno dei difetti dell’anima italiana, il provincialismo: «il complesso d’inferiorità si chiama (e si chiama tutt’ora) provincia. Si badi però a quanto dico. Il loro complesso non stava nell’essere dei provinciali (che non esistono e non sono mai esistiti) ma nel parlare, nel giudicare, di una provincia, di un provincialismo, nel contagiare di un timore della provincia, e nell’isolarsi in una torre, o in una valle segreta, o nel centro di una grande città, o nel salotto di una signora dentro una villa, fuori della provincia».

 

La grandezza di Delfini consiste non solo nelle pagine che ha scritto – o non scritto, come dicono a torto alcuni — ma nello stile, nell’uomo e nella scrittura, tanto da far pensare a uno scrittore così grande da sembrare lontano quale Dante, consegnato alle pagine degli specialisti e degli studiosi che ne neutralizzano la valenza e la volontà rigeneratrice. Delfini ci fa pensare di continuo a quel desiderio di vita nuova che ritorna nei momenti decisivi della vita, come una necessità che preme sulla letteratura e vuole immancabilmente superarla, anche se nessuno sa bene dire se e in che modo potrà accadere.

 

Le pagine di questo volume contengono numerosi testi dello scrittore modenese, testi inediti, come un suo racconto del 1926 — il secondo che abbia mai scritto —, alcune pagine dei suoi taccuini, un progetto di racconto, un manifesto contro un premio letterario; oltre che testi editi, ma di difficile reperimento: poesie, racconti, dichiarazioni e interviste; e soprattutto un epistolario che rievoca, come spiega molto bene Andrea Palazzi nella sua premessa, la storia di un’amicizia che è anche la storia di due diversi destini, quello di Antonio Delfini e Mario Pannunzio. Questo carteggio è qui un testo da leggere come un dialogo avvincente a più voci, prima ancora che una testimonianza storica o critica medita riguardante la storia delle riviste italiane.

 

La parte dei saggi comprende una antologia dei testi che dal 1939 sino a oggi hanno accompagnato la pubblicazione dell’opera di Delfini; abbiamo scelto di ascoltare voci differenti, cui si accompagnano testimonianze che sono più che ricordi e nuovi testi che vorrebbero essere a loro volta testimonianze.

 

Delfini torna in un momento decisivo della nostra storia nazionale, momento in cui, ancora una volta, pochissimi sembrano voler riflettere sulle cause profonde del malessere, nessuno sulle ragioni della nostra anima. E di nuovo è il Delfini dell’Introduzione che dovremmo rileggere, lo scrittore che sa distinguere tra l’inumano e il disumano, tra ciò che rappresenta il rovescio dell’umano e ciò che invece «è fuori dell’umano». Il disumano è sempre ciò che comincia dopo: «quando il tempio è stato costruito e le preghiere dei fedeli cominciano a circolarvi sorde, creandovi strane luci giallastre; quando le prospettive delle nuove strade ci fanno circolare con un pensiero menzognere della verità; quando il colore della luce, di quella che noi crediamo luce, ha un colore che non è più luce; quando le donne che incontriamo non sono né belle né brutte, ma provocanti, arrapanti, fredde o calde, solforose o salate; quando più niente corrisponde alla verità del passato o dell’avvenire, e il presente vive senza rapporti e senza confronti. (...) Quando il disumano impera, non c’è essere umano che possa vivere umanamente».

 

Indice

 

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