Tenere vivo il sapere

1 Aprile 2024

Che cosa significa trasmettere un sapere vivo? Tutti se lo chiedono e nessuno lo sa. Anche perché puntiamo tutti, e tutto ci spinge a puntare, dai consigli scolastici alle burocrazie ministeriali alle sedicenti epistemologie dei pedagogisti, sull’idea che si tratterebbe di trasmettere, quale che sia la scuola in cui insegniamo o apprendiamo, dai sei anni ai seicento, un sapere solido più che un sapere vivo, un sapere quadrato anziché di forma sfuggente, un sapere-quantità anziché un sapere-evento. 

Puntiamo tutti in quella direzione, perché come potremmo altrimenti definirlo, quel sapere, e catalogarlo, suddividerlo in obiettivi, capacità, competenze, conoscenze, e misurarne la buona o cattiva trasmissione, il possesso più o meno ampiamente acquisito? Per fare tutto questo, bisogna che in un modo o nell’altro il sapere diventi oggetto, quantità, estensione. Materia, come infatti si dice. Solo se costruiamo quella strana equazione ormai corrente, possiamo poi pensare che trasmettere un sapere o una pratica, e apprendere quel sapere o quella pratica, significhi far transitare o veder transitare quell’oggetto, quella quantità, quella materia, attraverso una specie di tubo, una medium tutto sommato neutro e improduttivo, che collega la bocca di chi parla all’orecchio di chi ascolta. 

Immaginiamo quel medium come uno strato d’aria attraverso cui viaggia un impulso elettromagnetico, un canale vuoto e inerte lungo il quale scorrono acqua o petrolio. Un canale che più è sterile e sterilizzato, più si astiene dall’introdurre deviazioni, deformazioni, trasformazioni, e tanto meglio garantisce quel transito e quell’approdo, e la sua misurabilità. L’oggetto arriverà a destinazione sano e salvo, identico, indeformato, indeformabile. Il travaso della quantità sarà perfettamente amministrabile, minuziosamente traducibile in un’economia elementare, riducibile a un’aritmetica del più e del meno e soprattutto dell’uguale. 

Il rischio più grande sarà stato schivato. Che quel sapere vivo si muova. Che come tutto quel che è vivo faccia cose impreviste: cose che io che parlo non avevo calcolato, cose in cui io che insegno non mi riconosco. Cose che io che ascolto non mi attendevo, e che invece mi mettono in questione, e stravolgono quel che immaginavo di me, trasformano quel che immaginavo di poter fare con gli altri e nel mondo. La logica della quantità è un grande esorcismo. La pedagogia del sapere ridotto a quantità analizzabile, la pedagogia della trasmissione come trasmissione di qualcosa che è dell’ordine dell’estensione è un grande rito apotropaico.

Non è un caso che, quando si tratta di insegnare o imparare, il grande fantasma sia quello dell’apprendista stregone. Fantasma sempre evocato come quel che è ovvio si tratti di evitare, eppure sempre svolazzante sulle nostre teste di insegnanti o, come si dice, di docenti. Soprattutto non vogliamo avere apprendisti stregoni. Soprattutto non vogliamo essere apprendisti stregoni. Non vogliamo essere i cattivi maestri o i cattivi allievi che trafficano con questa potenza disorientante, con questo funzionamento aberrante, proprio nel senso geometrico del termine, di un sapere e di una trasmissione del sapere che contesta alla radice la speranza riposta in quella linea che vorremmo il più possibile liscia, retta, placida, frigida, così che il sapere-oggetto scivoli intatto dalla bocca del maestro all’orecchio dell’allievo, lasciando intatta quella bocca e lasciando intatto quell’orecchio. 

Eppure il fantasma dell’apprendista stregone torna ogni giorno a visitarci. Che cos’è questa cosa che chiamiamo stregoneria? Nel senso più generale, stregoneria è il semplice fatto di avere qualcosa in mano nostra, che però eccede le nostre capacità di maneggiamento, di padroneggiamento. La stregoneria è sempre anzitutto un eccesso. Basta leggere il vecchio ma sempre meraviglioso saggio di Claude Lévi-Strauss su Lo stregone e la sua magia, in quella raccolta di testi che è una vera miniera e che si intitola Il pensiero selvaggio. Quel che lo stregone maneggia, anziché esorcizzare, è un eccesso, un dislivello, Lévi-Strauss dice un dislivello tra il significabile e la significazione, tra quanto accade nel mondo e l’insieme dei significanti con cui diciamo quel che accade e maneggiamo quanto accade nel mondo. Dislivello tra l’accadere e l’accaduto, potremmo anche dire, dato che l’accadere del mondo è sempre in corso, e i significanti con cui significhiamo quell’accadere sono sempre in ritardo, sempre già fatti e preconfezionati, sempre più lenti e generici di ciò che vorrebbero dire.

Torniamo all’apprendista stregone e all’insegnante stregone. Nel nostro caso, nel caso del sapere, della trasmissione del sapere, dell’apprendimento del sapere, si tratta di un dislivello o di un eccesso di che cosa? Si tratta, potremmo dire, di un eccesso del sapere-evento sulla sua riduzione a sapere quantità e a quantità trasmissibile. Si tratta di un eccesso del sapere che in fondo è anzitutto un verbo, rispetto al sapere ridotto a sostantivo, a cosa saputa, a quantità amministrabile, a estensione di cui misurare la traslazione indeformabile, la conservazione attraverso il movimento e nonostante il movimento che lo porta da una bocca a un orecchio. La stregoneria del sapere e della trasmissione del sapere sta tutta qui. Sta nel fatto che il sapere è invece qualcosa di vivo, e che anche la sua trasmissione e ricezione sono qualcosa di vivo. 

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Il sapere è una pratica, un modo di muoversi attraverso le cose, un’arte di disporre certi oggetti in un certo nuovo ordine, e prima ancora un’arte di creare quegli oggetti: oggetti che non sono affatto dati, non sono affatto lì ad aspettarci, ma attendono semmai di essere individuati, elevati a una specie di inedita evidenza, consolidati in una specie concretezza che non possedevano. È il sapere, a dar loro quella concretezza, quell’oggettività, rendendoli, così, maneggevoli, utilizzabili, e aprendo, così, certe possibilità operative ulteriori, certe ulteriori operazioni. Così il sapere vive, è una funzione della vita, anzi un modo della vita. E la trasmissione del sapere è qualcosa di molto simile, anzi è la stessa cosa. Insegnare significa ricreare quel campo, ricreare quegli oggetti, ogni volta da capo, tutti insieme, chi insegna non meno di chi impara, partecipando a quella creazione molto più che realizzandola, ed essendone trasformati molto più che essendone i controllori gli uni, e i controllati gli altri. 

Tutto questo comporta, tra parentesi, una sensazione di grande ignoranza in chi insegna. Richiede una grande disponibilità ad accogliere quest’ignoranza, da parte di chi suppone di sapere e suppone di possedere quel sapere che invece lo possiede. La struttura del nostro rapporto col sapere è infatti quella della possessione, non quella del possesso. E tutto questo comporta una grande, imprevista, insopportabile, per qualcuno, sapienza insita in chi apprende, dato che chi apprende è a sua volta nella posizione di chi sta partecipando alla ricreazione di quel sapere, molto più che nella posizione di chi lo riceve passivamente, già fatto, già confezionato. E ogni volta che l’apprendista esporrà quel sapere, ripeterà quel sapere al maestro, verificherà quel sapere in un compito in classe, in effetti lo ricreerà, né più né meno del suo insegnante, che l’aveva esposto e cioè creato il giorno prima. Tutto questo non è stregonesco? 

È stregonesco, e anche no. Lo è, solo perché non abbiamo parole più sobrie e più integrate al sistema scolastico, alla logica della nostra pedagogia, alla nostra metafisica dominante, alla nostra cultura presa nel suo insieme, per dire quell’eccesso o quel dislivello che è il motore di tutto quel che stiamo cercando di dire. Dislivello tra l’evento di qualcosa e il qualcosa che ne discende. Dislivello tra il processo e i suoi sedimenti, tra il processo di creazione e la cosa creata. Dislivello tra il sapere come operazione e il sapere come possesso, tra il sapere come evento e il sapere come quantità transitabile e misurabile. Dislivello, anche, tra il soggetto che partecipa alla creazione lasciandosene trascinare e trasformare, e il soggetto che si deposita a margine di quella creazione, e che sembrerà esser stato lì da sempre, suo autore o emittente, suo ricevente o tavoletta di cera destinata a uguagliare l’emittente, e in fondo già sempre pensata come uguale all’emittente, uguale all’autore, uguale al detentore. Strano e del resto sistematico scambio del processo e dei suoi risultati. Forse è questa la vera stregoneria, la vera magia nera che ammalia il nostro modo di pensare. Scambio del vivo col morto, venerazione per quel che è morto anziché per quel che è vivo. 

Tutta questa imprevedibile vitalità del sapere-operazione rispetto al sapere-quantità è insopportabile, se appunto vogliamo tener fermo il sapere, quantificarlo, giudicarne il transito più o meno efficiente, valutarne l’acquisizione più o meno fedele, e, aggiungiamo, l’applicazione, un giorno, anch’essa calcolabile e verificabile e indeformabile, in quel campo che è il cosiddetto mondo del lavoro, perfettamente omogeneo a quello della formazione solo perché la formazione è già pensata come lavoro. Oppure è buffo, divertente, sorprendente. Il buffo e il divertente, del resto, non sono mai altro che lo stregonesco, una volta che si decida di non volerlo esorcizzare ma di volerlo semplicemente accogliere. È forse questa, la sapienza riposta nell’antica parola scholè. La nostra parola scuola viene dal greco scholè, ma dopo essersene allontanata così tanto che facciamo fatica a immaginare che scholè potesse indicare la scuola non nel senso della fatica di chi se ne sta seduto alla cattedra o al banco per ore, ma nel senso del puro e semplice divertimento, della pura e semplice ricreazione, come infatti si dice di solito. Cosa c’è mai di divertente nella scuola? Molto, se ne prendiamo l’elemento stregonesco non come un difetto da sterilizzare ma come la struttura essenziale, come l’evento al quale di fatto partecipiamo ogni giorno. 

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