Il crepuscolo di un mondo

17 Giugno 2014

C’era molta aspettativa per la Biennale curata da Rem Koolhaas e ciò perché Koolhaas è il più autorevole esponente di un pensiero che da anni impone le sue leggi. Un pensiero, ed è questo il senso di questo scritto, ormai al tramonto.

 

Koolhaas, vale la pena ricordare, era presente alla Biennale del 1980 curata da Paolo Portoghesi che consacrava il ritorno della storia: anche lui aveva costruito la sua facciata posticcia nella Strada novissima ma rivedendola si capisce come egli del postmoderno non coglieva l’aspetto epidermico ed iconico, ma metteva in mostra la condizione postmoderna, quella descritta pochi anni prima da Lyotard, ovvero il gusto per il paradosso e la dissacrazione, per la provocazione, per il ribaltamento dei valori e la contaminazione, per l’alleggerimento pop della realtà fino a renderla evento effimero, sempre sul punto di evaporare.

 

Lo ritroviamo pochi anni dopo, nel 1986, alla Triennale, nella mostra curata da Bellini Il progetto domestico, dove presenta un’irriverente Casa del culturista dissacrante il mito della grande forma di Mies. L’allestimento era di gran lunga il più interessante, l’unico che andava oltre un intimismo, quello domestico, che negli anni ’80 scivolava in un sulfureo biedermeier dai colori pastello.

 

 

Possiamo continuare ed elencare avvenimenti su avvenimenti in cui Koolhaas ha saputo imporre un sortilegio, una malia, capace di trasfigurare il banale in irripetibile, il corrivo e il kitsch in avvenimento estetico, l’effimero in indimenticabile boutade. Nelle sue mani (mani da filosofo, bisogna ammettere) gli avvenimenti riconfigurati ad arte hanno acquistato una dimensione conoscitiva tale (ed è qui la malia: il trucco) che noi, poveri ingenui borghesucci idealisti, abbiamo avuto la sensazione, seguendolo, di poter diventare molto più intelligenti di quanto in effetti siamo.

 

Il punto è che Koolhaas ha rappresentato l’epigono in architettura di un sistema di pensiero, di una cultura che ha imperato per anni, propalata con notevoli mezzi dalle istituzioni e dalle università statunitensi che ancora oggi ne garantiscono il successo. La genealogia di questo sistema di pensiero è chiara.

 

Essa parte da un assunto granitico: quello del relativismo più radicale. In questa condizione, come voleva Nietzsche, ma con ben altra classe e raffinatezza, qualunque pensiero altro non è che interpretazione. Essendo quindi tutto interpretazione, non esistendo valori etici, ideali o umani, è necessario tuffarsi, come insegnava Foucault facendo il verso alla scolastica, nello spazio tra le parole e le cose, sospendendo il più possibile il giudizio alla ricerca di strutture nascoste (l’ossessione marxista) che avrebbero aperto orizzonti interpretativi strepitosi, vere e proprie praterie del pensiero finalmente liberato.

 

Per aver successo mediatico sarebbe stato poi necessario avvalersi di un “dispositivo” (Deleuze), di una parola ad effetto e così épater le bourgeois, cucinandoli a dovere. In architettura il maestro dell’interpretazione che interpreta se stessa, della sospensione del giudizio etico, l’unico capace di porsi a cerniera tra le parole e le cose, dispensando parole quando i poveri di spirito chiedevano cose e cose quando gli ancor più poveri chiedevano parole, è stato Rem Koolhaas. Egli è stato l’epigono di un tipo umano: l’uomo di gaia scienza postmoderno.

 

Cosa ha nutrito lo spirito di questo tipo umano? Il totale disincanto. Senza disincanto ostentato, la gaia scienza postmoderna infatti non è concepibile. E’ l’habitus senza il quale non si veniva invitati ai convegni, alle mostre, alle pubblicazioni e nei salotti anni ’90, in cui era doveroso ostentare, nell’ordine: spregiudicatezza, disincanto e una buona dose di aggressività. Se il totale disincanto (Asor Rosa, e con lui Tafuri, diceva che il totale disincanto fa il grande critico) era l’habitus, la religione dell’uomo interpretativo è stata il situazionismo.

 

L’uomo di gaia scienza postmoderno, ossessionato dal mettere in mostra la sua intelligenza assoluta (ab-solutus, slegata da qualunque impaccio), liberatosi nell’assenza di gravità etica, segue la situazione e ciò senza remore, senza preconcetti, con un atteggiamento compulsivo. Siamo oltre il nichilismo di Dostoevskij, siamo oltre i Demoni in una dimensione al limite del disumano, nullificante, che ha dimenticato la semplice verità di Tertulliano per cui ex nihil, nihil fit, che dal nulla non può nascere nulla.

 

Che relativismo, disincanto e nichilismo siano oggi armi spuntate lo dimostra la Biennale di Koolhaas. Prendiamo la parte più significativa della mostra, quella dei Fundamentals, in cui sono accatastati all’ingrosso elementi edilizi buttati lì, su un ipotetico piano orizzontale infinito, a dimostrarci che ogni sforzo di selezione critica, per cui di preservazione della qualità, è destinato al fallimento. Ma la provocazione questa volta non provoca nulla, anzi annoia e dispensare noia è il fallimento perfetto del situazionista, la fine della sua malia.

 

 

La noia è un sentimento che ha origini chiare. Innanzitutto deriva dal già visto ostentato, e nei Fundamentals di Koolhaas, una mostra che poteva essere fatta una quindicina di anni fa, questa sensazione è evidente. Ma deriva anche da un qualcos’altro di più sottile; un qualcosa scoperto tra i primi da Baudelaire. Per lui la noia nasce nel “paese piovoso” e questo paese è quello dove tutto è sostituibile.

 

E’ la sostituibilità quindi che determina il taedium vitae, lo sguardo perso nel vuoto della Melanconia di Durer: tutto nei Fundamentals di Koolhaas è sostituibile. Proviamo idealmente a spostare un infisso dal posto a questo assegnato dal curatore o rubare un pezzo di controsoffitto spazzatura, o una maniglia: non cambierebbe nulla, nessuno se ne accorgerebbe, tutto rimarrebbe come prima, ovvero la noia perfetta. Tutti noi, poiché l’abbiamo provata, sappiamo poi che la noia ingenera nichilismo. Houellebecq ci ha raccontato che il peggiore cambiamento degli ultimi anni è stato l’assoggettarsi collettivo ai valori della finanza secondo i quali tutto è sempre comunque sostituibile con qualcosa di altro.

 

paradigma, quello della sostituibilità, nota Houellebecq, che dal mondo finanziario è andato imponendosi nelle relazioni umane. Relazioni situazioniste, per l’appunto. Tutti noi abbiamo provato la violenza della sostituibilità, la sensazione di essere pleonastici, di essere condannati dalla nostra stessa irrilevanza. Come tutti noi, di fronte alla bella architettura, di fronte all’arte, come scriveva Schopenhauer, abbiamo provato il contrario: la gratificazione di stare di fronte a qualcosa di insostituibile che per un riflesso attivato dalla nostra contemplazione, ha la capacità, almeno per un attimo, di renderci insostituibili, almeno a noi stessi.

 

Ma tutto ciò, che aveva interessato Kant, Schopenhauer, Hegel, Schiller, Novalis, Poe, Baudelaire, negli ultimi decenni e specialmente nei perniciosi anni ’90, è stato considerato tabù: argomentazioni da idioti idealisti. Ma i tempi stanno per cambiare e lo dimostrano gli stanchi Fundamentals di Koolhaas. Nell’epoca della grande crisi, dell’implosione del welfare, nell’epoca della certezza della diminuzione delle risorse e dei beni, perpetuare la cultura rappresentata dagli scaduti Fundamentals è un atto insensato e pernicioso. Lo dimostra proprio l’architettura.

 

La migliore architettura che oggi viene prodotta si fonda infatti su presupposti del tutto antitetici rispetto a quelli messi in mostra da Koolhaas. E’ una architettura che non si sente prodotto dei grandi paradigmi o dei grandi temi, che aborre la quantità, che non “mappa” in maniera compulsiva, che si oppone alla sostituibilità consumistica e che non si presenta con slogan e per pudore e rispetto non ostenta sociologia a buon mercato. Essa si presenta come testimonianza autoriale ed indaga, come auspicava Ignaci de Solà Morales, quei territori limite dove si annidano le sfumature, i traslati, le metafore e l’indefinibilità che da sempre nutrono la bellezza, ovvero (ancora una volta) la non sostituibilità.

 

E’ un’architettura che non cede al disincanto in quanto sa mantenere qualcosa di intimo, in definitiva sa trovare con una fragilità assertiva, parafrasando Benedetto Croce, il personale nell’universale e l’universale nel personale. Ringraziamo quindi Koolhaas per averci indicato come non deve essere l’architettura del futuro e gli rendiamo grazie, come si rende grazie ai capi di abbigliamento passati di moda.

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