Un libro di Gino Cervi / Vivere nella nebbia (e amarla)

31 Ottobre 2021

Una volta, ormai molti anni fa, in una poesia ho scritto «capito che la nebbia ha una ragione», il verso stava in un testo in cui dichiaravo il modo in cui stavo prendendo possesso di Milano, o almeno così credevo. Non avevo capito niente, non nel senso in cui intendiamo il verbo capire. Non avevo compreso, non ero stato illuminato, non si era accesa alcuna scintilla, avevo invece sentito, eccolo il verbo giusto. Avevo sentito la nebbia intorno a me, cosa mia, cosa che potevo attraversare con sempre meno timore, cosa che mi accompagnava qualche sera nelle vie del centro, più spesso in quelle di periferia, come quella volta che ho detto buonasera a un palo vicino al capolinea della Linea 1 di Bisceglie. Avevo intuito di potermi, infine, fidare della nebbia, ammettere che non l’avrei mai conosciuta sul serio, ma che avrei potuto amarla, come in effetti la amavo e come, in altro modo, abitando ora nella laguna veneziana, in una nebbia diversa, ancora la amo. Della nebbia, però, io sono un ospite. Dove sono nato, la usiamo ancora come sfottò, ingenuamente, stupidamente, come se dal mare non potesse salire da un momento all’altro, nascondendoci, salvandoci; come ospite, come curioso invitato mi sono accomodato nel linguaggio avvolgente usato da Gino Cervi nel piccolo gioiello che è La fabbrica della nebbia (ediciclo editore, 2021), e, come può succedere agli ospiti rispettosi, mi sono innamorato.

 

«Quando arriva la nebbia, la prima nebbia di stagione, voglio prendermi il tempo di salutarla come si deve e allora da Pavia per andare a Milano non prendo l’autostrada ma imbocco la Vigentina».

Cervi da tutta la vita lavora con le parole, quelle degli altri e le sue, le conosce nell’intimo e sa la loro precisione, tutte le sfumature, il suono che fanno. Sa che il significato non è mai uno solo, ciascun’accezione nasce da un’esattezza, dal rigore, dal silenzio che ha preceduto l’incanalarsi delle lettere una per una alla fine di un pensiero, di un argomento, di un ragionamento. È cresciuto «in una cascina ai bordi dei boschi della Zelata», nel pavese, luoghi che ogni immaginario che si rispetti non può che associare alla nebbia, alle sue origini. Perché, come anche Cervi in qualche modo sottolinea, attraverso le parole, per esempio, di Bianciardi, possiamo raccontarci quello che ci pare sulla nebbia di città, che ha un suo fascino ma è un misto di altre cose, tra cui l’umore umano, ma la nebbia vera è quella dei campi, dei fossi, della pianura, dei piccoli rivoli d’acqua che corrono e scompaiono. Là dove le schiene scompaiono inghiottite, là dove non si vede (o non si vedeva) niente, là, che per andare a scuola, si facevano due pericolosissimi chilometri in auto, nell’oscuro e nel silenzio, come potrebbe essere in un racconto di Michele Mari, laggiù governa la nebbia vera e tutto quello che ne consegue. Cervi, allora, conosce la semantica, la grammatica e conosce la nebbia meglio di tanti, perciò, in questo testo splendente, in questo viaggio sentimentale, non fa altro che dirci che la nebbia è un linguaggio, fatto di piccole grandi cose. Un linguaggio attraversato da molti e declinato in mille modi, un linguaggio che, mentre copre tutto, svela, ci prende da qualche parte, ci agguanta e ci mette addosso, tra il cappotto e il cuore, una delle malinconie più belle di sempre.

 

«Da quelle parti la nebbia arriva prima e se ne va via dopo. Quando facevo ritorno a casa, la sera tardi o la notte, mi piaceva abbassare tutti i finestrini dell’auto per fare entrare la nebbia, per catturarne l’odore che lì sapeva più intensamente di fiume, di erba tagliata sulla scarpata e di bosco».

L’autore parte dall’infanzia e attraversa più di cinquant’anni di vita e di nebbia, ma non si accontenta, va anche all’indietro nel tempo attraverso vecchi racconti, personaggi che parlano qualcosa che non è nemmeno un dialetto, è un suono, che, come vapore, parla dal grigio, dall’ovatta, dal magone che viene.

 

 

Il magone sublime di cui parla per esempio anche Marco Belpoliti nello stupendo Pianura (Einaudi 2021), libro citato anche da Cervi, insieme a chi la nebbia l’ha sublimata in fotografia, come Luigi Ghirri, che in quegli scatti straordinari degli ultimi anni, quegli scenari fermati intorno a casa sua, ha spiegato a tutti chi siamo, dove andiamo e come scompariamo dal bordo di un argine, e quell’argine diventa il mondo intero, il mappamondo su cui sediamo.

«Ci si trova quel senso di attesa del disvelarsi delle cose, per poterle ri-vedere, o ri-conoscere, come nelle foto di Luigi Ghirri, proprio grazie alla proprietà che ha la nebbia di dilatare gli spazi e, nello stesso tempo di circoscrivere gli orizzonti […]».

 

E viaggia Cervi, e racconta, di Pavia, di Milano, di studi e di lavoro, di biciclette inforcate sempre e per sempre, di nostalgia, di odore che cambia, del suono che fa la nebbia, suono individuato nelle parole di Simenon in un passaggio di Maigret. E viaggia, mentre è cresciuto, nella nebbia di San Siro, o la nebbia di Belgrado che ha disegnato un futuro diverso e migliore per il Milan di Sacchi, o in quella degli anni ’30 a Londra, nebbia che lasciò un portiere in campo da solo per venti minuti. Portiere che non s’accorse della partita sospesa, dei compagni e degli avversari rientrati negli spogliatoi, del pubblico tornato a casa, s’accorse soltanto nella nebbia e in quel silenzio credette, chissà, d’aver vinto. La nebbia delle parole meravigliose di Umberto Eco, quella di Vittorio Sereni, quella di Paolo Conte. Quella delle case (vista fuori dalle case) in cui Cervi ha vissuto, a Pavia, a Milano, di nuovo a Pavia.

 

La nebbia della Vigevanese, la nebbia dei Navigli. La nebbia che a volte chiude la testa delle persone e fa sì che una madre, il due novembre del 1975, applauda alla notizia della morte di Pasolini, la nebbia di un figlio che per anni non capisce il perché. E perciò Pasolini, la sua durezza, il suo modo di colpire al cuore l’Italia e i suoi danni, e Pasolini che proprio lì nelle terre in cui l’autore è cresciuto gira alcune scene di Teorema, tra cui quella in cui Silvana Mangano si spoglia nuda sul terrazzo, lì nel bosco, diventando una delle leggende della nebbia e del posto, viaggiando nel tempo di racconto in racconto, di visione in visione, scena a cui aveva assistito Serafino, uno dei personaggi straordinari che accompagnano le vicende di questa fabbrica della nebbia, di questo morirci dentro e sopravviverci. La nebbia di Testori, la nebbia di Savinio, la nebbia di Fausto Coppi.

 

Gino Cervi fa un prodigio e mostra molto chiaramente come si delinea il destino della nebbia e di chi ne viene attraversato (o l’attraversa). Il linguaggio è nelle sfumature, nei momenti in cui tutto ottunde e dopo s’apre, perché il bello della nebbia sta dal suo salire al suo iniziare a scomparire, quando ricomincia a svelare, e le cose paiono cambiate, e cambiati siamo un po’ anche noi. L’autore lo spiega bene nella descrizione che fa della Chiesa di San Michele a Pavia. «San Michele non è mai la stessa chiesa», e tra le tante visioni proposte, che mutano con la luce che cambia sulla pietra arenaria, c’è quella che mi pare la più bella: «[..] è di primo mattino quando scarnebbia. Scarnebbia – da pronunciare con la “e” aperta, scarnèbbia – che, in questo caso, è la prima persona presente del verbo scarnebbiare. La scarnebbia – in questo caso sostantivo singolare femminile – è qualcosa a metà tra il sottile piovischio e l’umidità brumosa». E chiudiamo, così, scarnèbbiando, con la e aperta, anche noi, come se San Michele di primo mattino si mostrasse così, d’un tratto, davanti alla nostra finestra.

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