Tutto l'Argento della Mole

4 Agosto 2022

Pochi oggi ricorderanno la grande rassegna parigina intitolata Turin, berceau du cinéma italien, ospitata dal Centre Pompidou nella primavera del 2001. Un evento epocale: la capitale cinefila d’Europa rendeva omaggio a Torino aprendo la retrospettiva con Profondo rosso, presentato da Dario Argento insieme a Ugo Nespolo. L’artista aveva realizzato per l’occasione Film/a/TO: un breve film dove Edoardo Sanguineti introduceva il pubblico francese ad alcuni film della rassegna, da Cabiria a La seconda volta, passando per I compagni e La donna della domenica… In una delle scene, Gianni Rondolino attraversava piazza CLN, luogo reso immortale proprio da Profondo rosso e dalla musica dei Goblin. Suoni reiterati e purpurei, cambi ruvidi, improvvisi – tutti tipici del prog italiano – che accompagnavano l’efferatezza dell’omicidio della sensitiva Helga con il pezzo Death Dies, eccitante cavalcata febbrile dal sapore floydiano. 

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La presenza del professor Rondolino sembrava legittimare il cinema di Argento in un momento in cui per molti era ancora solo un regista “di genere”, non degno di essere collocato accanto ai grandi autori (anzi, Autori, con la “A” maiuscola!) del cinema italiano. In quello stesso anno, al DAMS di Torino veniva proposto un corso di cinema proprio su Argento, per la prima volta studiato così approfonditamente (il corso generò anche un’interessante raccolta di saggi, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, oggi introvabile).

Del resto, in quegli anni, girando per Torino non era così raro incontrarlo. Da sempre affezionato al capoluogo sabaudo “livido e misterioso”, il regista romano lo aveva eletto a una sorta di seconda casa, nella quale ambientare, interamente o meno, molti dei suoi film. Ma Torino era anche uno spazio da continuare a esplorare, nel quale girovagare senza meta per lasciarsi ispirare. Me lo immagino aggirarsi per le parti più gotiche della città, tra Piazza Statuto e i palazzi liberty di Corso Francia, con quelle scale “così belle… déco, geometriche, rispondenti ai canoni del formalismo”. 

C’era stato un periodo della sua vita in cui la polizia lo fermava sempre, soprattutto d’estate quando i controlli venivano incrementati per prevenire i furti. Succedeva soprattutto durante quelle passeggiate eterne, cercando nuove location. Ci provava a fare l’indifferente ma forse, a causa di quel suo aspetto non propriamente rassicurante, un braccio gli bloccava sempre il passaggio. “Sono Dario Argento, faccio il regista”. Inutile protestare, gli toccava mostrare i documenti e disfare i bagagli. 

Proprio nel 2001 a Torino ambienta Non ho sonno, un’opera considerata un “ritorno alle origini” dopo le atmosfere dark di Il fantasma dell'Opera, il thriller “della mente” La sindrome di Stendhal e le esperienze americane di Trauma e Due occhi diabolici. Se per tutti gli anni Ottanta e Novanta Argento si era tenuto lontano da Torino, all’inizio del nuovo millennio la scintilla pare scoccare di nuovo, forse anche perché quella era la città che attraverso diverse iniziative prima di altre rivendicava per lui un posto nella storia del cinema.

Oggi, a vent’anni di distanza da quella “riscoperta”, nessuno può sostenere che quel posto Argento non lo occupi legittimamente, né che il regista sia una figura fondamentale solo per quanto riguarda il cinema di genere. È proprio in quest’ottica che il Museo Nazionale del Cinema di Torino propone, all’interno della Mole Antonelliana, Dario Argento The Exhibit, curata dal direttore Domenico De Gaetano con Marcello Garofalo (responsabili anche del catalogo pubblicato da Silvana Editoriale). In un periodo in cui la musealizzazione del cinema sta attraversando una fase di grandi sperimentazioni (come lo straordinario Museo Fellini di Rimini), anche le mostre temporanee del Museo del Cinema di Torino sembrano cambiare pelle. Naturalmente, Torino ha dalla sua un’imponente collezione permanente (in procinto di essere in parte ripensata e riallestita), che spesso finiva per soffocare le altre. Nelle intenzioni del direttore De Gaetano, invece, sembra che queste debbano essere più spettacolari che in passato, di maggiore impegno anche economico, e rimanere – inevitabilmente, dati i costi – più a lungo a disposizione del pubblico.

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Argento costruisce la sua modernità nel paradosso di uno sguardo che spesso collide tra quello del protagonista della storia e quello dello spettatore, abbagliati entrambi da una “messa in scena” che del gioco non ha nulla, se non la derisione per una ingannevolezza dello sguardo, incapace di guardare l’essenziale e raggirato dal grande “trucco” del cinema, l’apparire quando si crede di vivere, il sognare (o precipitare nell’incubo) quando si crede di essere vigili e di poter dominare la realtà. Tutti i protagonisti del cinema di Argento hanno in comune il fatto di assomigliarci, perché possiedono, prima ancora di una psicologia e di un comportamento, la tendenza a vedere sempre troppo o troppo poco, a essere vittime di abbagli e di visioni, fino a non distinguere più ciò che è vero da ciò che è falso. In tutta la sua opera il sogno diviene spazio, quasi come una rete invisibile e l’“onirico” si insinua nella realtà, non perché in contrapposizione, ma in quanto terribilmente somigliante a essa.

In questa dichiarazione dei curatori è evidente quale sia il criterio utilizzato nell’approcciarsi alla materia: Argento come regista pienamente moderno, per cui il genere non è il fine bensì il mezzo per riproporre, in chiave apertamente pop, talvolta persino astratta, soluzioni formali della grande stagione della modernità. 

Siamo nel 1966, l’anno dell’alluvione a Firenze. Argento riceve una telefonata. È Sergio Leone che lo invita ad andare in macchina con lui per scoprire da vicino che cosa è successo. Sarebbe stato il primo di tanti viaggi in macchina insieme. Durante il tragitto, Leone gli chiede di collaborare alla sceneggiatura del suo prossimo film. Sarebbe stato C’era una volta il West. Per calarsi del tutto nella narrazione arriva a comprarsi uno di quei cinturoni da cowboy e una bella imitazione di una colt. Quell’esperienza si rivela fondamentale, tuttavia contrariamente a Leone, già post-moderno, Argento si muove sullo stesso terreno di Antonioni e Godard, si interroga in profondità (ma con apparente leggerezza e persino ironia) sullo statuto della visione, scompone la forma cinematografica e con essa decostruisce lo sguardo spettatoriale.

I curatori, a loro volta, si rivolgono alle immagini argentiane ingrandendole, dilatandole, facendone risaltare l’eccezionalità, lo scollamento dal reale, la pura grazia (o il delirio?) formale. Eppure, la mostra presenta anche una serie di oggetti di scena, di trucchi, maschere, creature, oggetti. Ci ricorda di quanto il cinema di Argento non sia solo concettualmente astratto, ma anche fatalmente materico. Con le sue ossa che si spezzano, bocche che si aprono, ferite che sanguinano, Argento ha anche sfidato lo sguardo (e l’udito) dello spettatore sul piano della tollerabilità dell’immagine, e per farlo ha avuto bisogno che quelle immagini, in quei momenti, riacquistassero uno statuto di verosimiglianza.

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L’altro aspetto che i curatori sottolineano è anche la vocazione “multidisciplinare” di Argento: 

Troppo spesso ci si è soffermati soltanto sulla maestria di Argento nel saper declinare – tra invenzioni visive e virtuosismi tecnici – i generi cinematografici in cui ha scelto di muoversi – emblematiche le parole che in Inferno, egli affida, quasi fossimo in un film di Godard, alla contessa Elise De Longvalle Adler (Daria Nicolodi): “È pittura, non sangue” – ma quasi mai ci si è soffermati sui valori altri di cui il suo immaginario è composto, competenze che rimandano non solo al Cinema stesso, ma all’architettura, alla pittura, alla musica. Oltre il confine della visione esiste un tramite per poter accedere ai territori perturbati che Argento ha creato tenendo conto di fatti, luoghi, segni linguistici che riportano a zone anche contraddistinte da un patrimonio culturale vasto, meritevole di essere messo in luce.

Questo aspetto del lavoro del regista è coerentemente rispecchiato dalla mostra temporanea, che ospita anche le tavole realizzate per il numero della storica rivista “Linus” dedicato proprio ad Argento. Il fumetto, del resto, è oggi interlocutore privilegiato della Settima arte e lo stesso Argento, in una delle sue rare esperienze al di fuori dell’audiovisivo, è stato invitato a scrivere il soggetto di un numero di “Dylan Dog”, Profondo nero, disegnato da Corrado Roi e uscito nel 2018.

La mostra – in programma dal 6 aprile 2022 al 16 gennaio 2023 – è accompagnata anche da una retrospettiva completa dei lavori di Argento, stranamente pensata a rovescio: sono già stati proiettati, al cinema Massimo, i film del regista da Trauma a Occhiali neri, e si attende ora che, prima della conclusione, la sala programmi la fase più feconda, audace e amata dell’opera del regista. Un’impressione? Sembra proprio che più Argento invecchia, più il suo pubblico ringiovanisca. Le code per entrare in sala a vedere il restauro di Suspiria sono chilometriche come quelle alle anteprime di Occhiali neri, piene di giovanissimi pronti a farsi sorprendere dai tratti onirici, istintivi, senza infrangimenti dei suoi film. Thriller, horror, gialli, noir: sono soltanto parole “che usiamo per definire i nostri sogni”. 

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TAGGED: Dario Argento , Torino