Sopravvissuto

2 Ottobre 2015

Il buco nel ventre è sempre quello. Solo che stavolta, 36 anni dopo, venti, forse anche di più film dopo, con in mezzo una carriera intera e mille strade intraprese, abbandonate e poi riprese ancora, dal ventre che in Alien partoriva un mostro non esce più nulla di estraneo, ma, anzi, ciò che esce, sangue, acqua e aria, aiuta a tenere in vita nell’atmosfera irrespirabile di Marte. 36 anni dopo, con in mezzo pure un altro film di fantascienza, Prometheus, che della saga di Alien dovrebbe essere una spiegazione originaria, nel cinema di Ridley Scott un buco nella pancia si chiude e si cura. O meglio, si pinza, perché su Marte non ci si può permettere tutto ciò che serve, ma ci si deve in qualche modo arrangiare. Se si vuole sopravvivere, bisogna trovare un modo. E se si crede di essere soli, in realtà non lo si è, perché dentro di sé in realtà non lo si è mai, soli, ma a tenere compagnia ci sono le cose studiate, apprese, sperimentate, provate, applicate nel corso di una vita intera.

 

 

In Inside Out l’accumulo è di ricordi e di emozioni; in Sopravvissuto The Martian, invece, è di sapere. Dopo anni di film su film su altri film, Hollywood è evidentemente affetta dalla sindrome di Collier, da sindrome dell’accumulo compulsivo (di storie, personaggi, luoghi, trame, narrazioni, invenzioni…), ma per il momento non crede ancora di vagare nel buio come i fratelli Homer e Langley di Doctorow. Per il momento crede di poter dare un ordine e un senso a ciò che si può immagazzinare e conoscere; e nel caso dell’ultimo film di Ridley Scott, grazie anche e soprattutto alla sceneggiatura di Drew Goddard, sa rendere viva e coinvolgente la fantascienza (almeno fino a quando la retorica a comando forza il film a procedere verso la conclusione) con un catalogo di invenzioni da manuale delle giovani marmotte iscritte al Cal Tech.


Tutto parte dal corpo, come sempre. Non più mutilato, ma curato. E, soprattutto, non più solo. Una delle cose più scioccanti di Alien, a ripensarci, era infatti quel corpo del povero John Hurt squarciato dalla creatura aliena e abbandonato su un tavolo di metallo. Dai quei resti emergeva un senso di abbandono e separazione, poi ribaditi dall’automa Ian Holm addirittura spezzato in due, aperto, decapitato e bagnato come un colabrodo: era un robot, ma paurosamente umano, e in quell’immagine e quell’effetto meccanico c’era qualcosa di irreparabile.

 

In Sopravvissuto, invece, di irreparabile non c’è mai nulla. Anche se un uomo resta solo su un pianeta a 78 milioni di km da casa. Non è mai vittima, Matt Damon, mai schiacciato dal peso dell’abbandono, dall’estensione gigantesca del tempo, dall’immensità dello spazio. Con lui c’è sempre la scienza, con lui c’è sempre una voce, la sua, e poi quella di chi sta a casa o sta andando a prenderlo.

 

C’è dell’ironia, certo, ma in Sopravvissuto c’è soprattutto un bellissimo senso di relazione: scontato nei modi, forse, trattandosi di Hollywood, ma non nei toni. La forza del film sta nella sua gentilezza, nella ricerca costante di un contatto: contatto fisico fra le mani di chi salva e le mani di chi viene salvato; contatto sonoro e visivo fra chi comunica con videocamere e computer e deve trovare nuovi modi di comunicare; contatto fra stati, nazioni, popoli, fra bianchi, neri e cinesi, oltre la banalità immediata del politicamente corretto (e anche oltre il senso di disgrazia cosmopolita tipico dei kolossal), e vicini a un’idea di umanità impegnata nell’unica battaglia che oggi avrebbe senso combattere, se l’unico problema dell’umanità fosse quello di guardare le stelle: la battaglia per la sopravvivenza.

 

 

Sopravvissuto non dice nulla che Gravity non abbia già detto: solo lo moltiplica, lo espande. L’umanità semplificata alla relazione uomo-donna nello spazio silenzioso, condannata alla solitudine, cullata nel sogno impossibile di un possibile nuovo incontro, e infine rigenerata a partire da un’orma di piede femminile, qui è sì rappresentata da un uomo solo e destinato a essere il primo, qualsiasi cosa faccia e ovunque vada, su un pianeta disabitato, ma in realtà è presente in forze grazie a un sistema variegato di relazioni e a un accumulo potenzialmente infinito di sapere. Dietro Matt Damon c’è un mondo intero e la sopravvivenza del genere umano non dipende per una volta dalla sua tenacia, dalla sua rabbia o dal suo coraggio, ma prima di tutto dalla sua conoscenza.

 

Sopravvissuto è anche un po’ All Is Lost: ma come se in quel film Robert Redford spiegasse in continuazione come si cazza una gomena o dove sia il tangone, salvo poi ritrovare, alla fine, sempre e comunque una mano salvifica. In Sopravvissuto, Matt Damon non tace mai, parla con se stesso, parla con il diario di bordo, chatta con i cervelloni alla Nasa, li ascolta, li insulta e si mette al lavoro a partire dai loro consigli. Commette pochissimi errori – e se ne fa, trova subito il modo di riparare. Nella sonda marziana, il silenzio non è previsto: né per chi è rimasto solo, né per lo spettatore, che si trova nella stessa situazione del pallone da volley di Cast Away, Wilson, trasformato non in un uditore passivo, ma in un interlocutore con cui condividere genialate scientifiche e problemi risolvibili di norma grazie alla matematica e all’ingegno.

 

Come hanno già fatto notare in molti, Sopravvissuto è probabilmente il film più secchione e saputello di sempre, la vera, agognata rivincita dei nerd che Hollywood non aveva ancora portato a tali livelli di budget e popolarità. Per sopravvivere su Marte, o aiutare qualcuno costretto a farlo, bisogna saperne di botanica, chimica, fisica, astrofisica; bisogna aver letto Iron Man, visto Il signore degli anelli, credere un po’ in Dio, o in tanti altri dei, ballare la disco anni ’70 e costruire bombe a partire dallo zucchero. Serve essere intelligenti, preveggenti, calcolatori, parsimoniosi, di ottimo umore e abbastanza forti da reggersi a un cavo di 40 metri oltre l’atmosfera di Marte. Lo dice lo stesso Matt Damon alla fine del film, in pratica rendendone esplicita la regola drammaturgica e quindi non fidandosi proprio a occhi chiusi dello spettatore: non esiste un percorso unico, ma una serie di tappe e di problemi da affrontare uno alla volta. Risolto uno, attacchi con quello successivo. Fino a tracciare un percorso completo.

 

In definitiva, allora, la relazione di base che Sopravvissuto invoca per l’umanità tutta è quella più semplice ed elementare: quella che lega due punti fra loro, che altro non sarebbe che una linea retta. Perché sarà anche vero che i calcoli astronomici devono tenere conto di infiniti fattori e infinite variabili, e che sarebbe tutto più facile se Terra e Marte fossero allineati e non a distanze sempre diverse a seconda della reciproca posizione, ma quello che alla fisica non è permesso, al cinema sì. E dunque due punti che su uno schermo appaiono immobili e separati (le differenti posizioni di Matt Damon nella ripresa dall’alto che ne evidenzia la presenza), in realtà su Marte sono gli estremi di un movimento unico. E quel movimento altro non è che il racconto del film, qualcosa di invisibile sulla Terra, ma di possibile e reale (e anche divertente, furbetto, retorico) per la fantascienza, che trova materia nuova da trattare proprio a partire dall’impossibilità di vedere e sentire.

 

Marte è la nuova frontiera, certo, e la questione è in fondo sempre la stessa: riportiamoli a casa, salviamo il soldato Matt. Ma a certe cose, forse, oggi nemmeno a Hollywood fingono di crederci. Marte è in realtà la nuova frontiera del racconto, è la riaffermazione dell’umano laddove di uomini non ce ne sono mai stati. E visto che andarci a vivere per ora è impossibile, il discorso non può che essere rivolto verso l’interno, verso la Terra e questo mondo, per ritrovare nella dimensione del racconto quel desiderio di scoperta, quei nuovi sguardi e nuovi linguaggi ormai preclusi a chiunque.

 

Se non c’è più niente da guardare e niente da trovare, tocca perciò inventarsi il tragitto lungo o breve che unisce due immagini separate. Lì in mezzo, nello stacco di montaggio, c’è un bel po’ di galassia da percorrere.

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