Serviamo il numero 34

14 Agosto 2014

Io mi preparo, sogno soprattutto, e comunque butto giù una traccia da seguire perché ho degli obiettivi. Però arriva sempre uno che come quella volta mi dice con una voce registrata Serviamo il numero 34.

 

L’obiettivo del verosimile ti dà speranza, l’estate è un’illusione, è solamente verosimile. E dopo tre mesi a bagno nell’acqua tiepida del verosimile si torna allo specchio da metà settembre, carichi di quelle frustrazioni e umiliazioni che anche se non ti accorgi, ti tengono in vita gli altri mesi dell’anno. L’estate è anche un paio di settimane di ferie, è una sorta di stage nella vita che hai progettato ma che non sai nemmeno da che parte cominciare.

 

Così tante idee che non arrossisci nemmeno a raccontarle a qualcun altro, di sera, quando aspetti sopra ferro e cemento una stella cadente. L’estate è un progetto ideale, è il passo più lungo, è un azzardo, ma è anche il sogno delle belle abitudini, una sorta di benessere per tutti. Fritture, limoncello, calciomercato, pizza da tagliare ai figli con la camicia slacciata girando per il tavolo. Poi il minigolf, un monumento di cemento orribile, abbandonato al tempo per nove mesi l’anno e malinconico d’estate, che ti rappresenta perfettamente.

 

La Gazzetta al mattino, una pennica dopo pranzo, le infradito che strusciano sull’asfalto. Un’adolescenza di ritorno che dura poco ma non è meno traumatica. È il periodino in cui progetti l’impossibile, senza criterio, senza logica. Un corso d’inglese, uno di tennis, uno di informatica, uno da barman, un lavoro, l’amore, va bene anche il sesso. Va benissimo. Anzi, magari. Mangiare, tanto. Fotografarsi. Abbronzarsi. Camminare, nuotare, autostop. Comprare braccialetti che poi cadono in autunno, pure quelli, sfilacciati. Il grande salto che si conclude come quello di Wile Coyote, e tu ce l’hai la sensazione, ma da principio sfoderi un sorrisone, anche se non ti basta mica come paracadute. Volare oh oh.

 

Sei più sfacciato d’estate. Te lo faccio vedere chi sono io. E rischi, ci provi, salti nel più goffo dei modi.

Trovi soluzioni ai tuoi problemi e lontano da casa sono così evidenti, gli uni e gli altri, che scuoti la testa, Dovevo pensarci prima. Era così evidente. Ma sei soddisfatto, festeggi con un gelatino a metà pomeriggio. Poi riprendi il passeggio, ti ritrovi con le mani legate dietro la schiena la testa bassa e ne vedi tanti come te, tutti.

 

C’è molto rumore dentro le teste. Si combattono guerre coi parenti, a lavoro, a letto, e guerre future e guerre passate. Si fa tutto con la testa, e quando la parola troverà di fronte l’interlocutore giusto sai che riuscirai a vincere, perché hai centrato la giusta soluzione, proprio qui, a 230km da casa. Fuori dalle teste c’è il ronzio dei condizionatori d’aria, del traffico, il rumore dei cicloturisti, i bambini, che invece dentro la testa non ci tengono niente, l’ultimo singolo di Max Pezzali, e quello che vende il coccobello. Coccobello? Alzo lo sguardo, vedo, realizzo, dico di no, proseguo.

 

Arrivo fin giù all’arena e poi torno indietro, che adesso devo combattere qualche altra battaglia. Ad esempio devo trovare un altro paio di vie d’uscita per regalarmi un ritorno a casa perfetto, una vita perfetta, un lavoro perfetto. Ed è tutto a portata di mano. Guardo le pigne, una lattina di aranciata, amara pure lei, che rotola con la brezza, un tizio obeso che corre, una donna che dipinge senza stile un acquarello della collina di fronte, due ragazzine che cantano stonate, quello che mordicchia la bic sopra una pagina vuota, un imberbe che si fa colare la fragola del gelato fino sulla maglia pulita e la mamma gli strappa il gelato lo getta nel cestino e quello piange correndo e scalciando. Ognuno convinto di essere, o almeno poter essere, qualcun altro. È lunghissima l’estate.

 

Torno, per strada mi fermo all’Obi, prendo vernice, pennelli, antiruggine. Inizio, ci provo, dopo mezz’ora alzo la testa sapendo di non esserci riuscito. Domani riprovo, mento ad alta voce. Esco, vado al supermercato, reparto gastronomia. Voglio fare il cuoco, anzi lo chef. Prendo ingredienti. Ho studiato, ho preso un libro, ho visto in tv e su youtube come si fa. Manca la ‘nduja, non ce l’hanno. E quindi?

Quindi che?

Poi: “Serviamo il numero 34” dice la voce registrata.

 

Niente, non è questa la strada. Allora inizio nuove guerre dentro la testa. Cambio obiettivi. Mi siedo su una panchina vicino alla mamma che infila una moneta e la macchinina inizia a muoversi, a far rumore, a lampeggiare, e il bimbo la guarda meravigliato e lei invece no.

 

Mi alzo deciso a comprarmi un paio d’occhiali da sole, perché è agosto e non li ho mai portati, nemmeno in gita quando tutti fanno i fighi, dal negozio in fondo al corridoio. Dietro il banco inquadro e realizzo c’è Valentina. Dal liceo ad oggi poco è cambiato in lei e nel suo giudizio nei miei confronti. Si capisce dagli occhi. Io invece drizzo la schiena, la punto, la vedo assumere un’espressione di attesa.

 

Poche parole di cortesia prima di vomitare tutto fuori, in maniera scomposta, come sempre, quando perdo il controllo e in testa ho solo l’obiettivo finale, come i bimbi che piangono e tra un urlo e l’altro ripetono Giostra.

Assumete? Cercate qualcuno? Stasera invece? No, così. Ok, alla prossima.

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