Pound: “Caro Joyce, grazie per la foto”

2 Luglio 2022

“Caro Joyce, grazie per la foto. Fa un po’ spavento”: così iniziava la lettera scritta da Pound a Joyce, il 20 dicembre 1916, dopo che questi gli aveva mandato un suo ritratto fotografico nel quale dovevano apparire già chiari i segni della malattia agli occhi che lo avrebbe tormentato fino alla fine dei suoi giorni. La loro corrispondenza era iniziata tre anni prima, il 15 dicembre 1913, con quell’incipit cauto, quasi esitante, da parte di Pound, “Gentile signore, Yeats mi ha parlato dei suoi scritti”, che oggi è noto quanto la frase iniziale della prima lettera di Kafka a Felice Bauer.

In quel momento Joyce stava finalmente per portare a termine la lunga battaglia ingaggiata con l’editore Grant Richards per la pubblicazione di Gente di Dublino, era arrivato alle battute finali del suo romanzo autobiografico Ritratto dell’artista da giovane e stava per iniziare l’opera che più lo avrebbe esposto all’attenzione internazionale, ossia Ulisse.

Ma la sua situazione soprattutto economica era quanto mai problematica e l’ingresso di Pound nella sua vita avrebbe rappresentato, in quel momento e per i dieci anni a venire, la soluzione a tutti i suoi problemi: dal momento che Pound, sorretto dal grande fiuto di cui era dotato, si sarebbe letteralmente fatto in quattro per trovargli sussidi, borse e finanziamenti di varia natura e provenienza, arrivando persino a dirottare su di lui emolumenti e donazioni che avrebbe potuto tener per sé, in un momento in cui egli stesso viveva in ristrettezze mantenendosi solo con recensioni; come pure a indurre, pur di agevolarlo, l’editore americano Marshall a sospendere la pubblicazione di una sua propria opera dal titolo This Generation per favorire quella del Ritratto di Joyce.

E questo solo per citare alcuni degli aiuti di cui Pound si era fatto promotore: dato che, a partire proprio dall’inizio del suo rapporto con Joyce, oltre a cercare di sostenerlo economicamente, si sarebbe battuto con veemenza per far pubblicare, recensire e imporre all’attenzione di editori, critici e pubblico le opere di quest’ultimo, come del resto si può constatare anche dall’ampio corredo di testi critici, saggistici e di presentazione a firma di Pound, presenti in questo volume di lettere curato da Forrest Read.

È molto probabile, anzi fuor di dubbio, che Joyce avrebbe scritto tutto ciò che ha scritto, e nello stesso modo in cui l’ha scritto, anche senza l’assistenza di Pound (a differenza di quanto sarebbe accaduto per Eliot); ma è altrettanto certo che, sia per quanto riguarda il Ritratto che l’Ulisse, il fatto di poter contare su un appoggio esterno come Pound, capace di operare con un vigore e un coinvolgimento di gran lunga superiori a quelli con cui si sarebbe mosso un qualunque agente letterario, abbia costituito per Joyce un incentivo che forse in se stesso, abbandonato a Trieste e poi a Zurigo durante gli anni della Prima guerra mondiale, non avrebbe saputo trovare.

Il fatto di poter pubblicare, grazie a Pound, sia parti del Ritratto che, serializzato, man mano che lo stava scrivendo, l’Ulisse, su importanti riviste americane e inglesi, come “The Little Review” e “The Egoist”, di cui Pound era direttore per l’estero, l’ha sicuramente messo nelle condizioni migliori per portare a termine entrambi i lavori. E questo pur creando non pochi problemi ai proprietari, ai redattori e ai tipografi di tali riviste, che a causa sua sarebbero dovuti incorrere in sanzioni e andare incontro alla sospensione delle pubblicazioni con l’accusa di oscenità generata proprio dalla propensione di Joyce per l’uso di un linguaggio ritenuto scurrile e per temi e descrizioni di tipo scatologico (come l’accurata descrizione dell’espulsione delle feci da parte di Leopold Bloom nel quarto capitolo dell’Ulisse, che avrebbe fatto dire a Pound che la fantasia di Joyce tendeva all’escrementizio), o per più palesi oscenità (come nell’episodio di Nausicaa in cui Bloom si masturba alla maniera di un guardone sbirciando la ragazzina Gerty MacDowell che mostra maliziosamente le sue parti intime).

Nel loro rapporto, così come lo si evince da queste lettere (che, pur mancando della controparte joyciana, sono integrate da inserti che chiariscono le varie problematiche affrontate di volta in volta nel carteggio), Pound e Joyce mantengono inalterato fino a un certo punto il ruolo che ognuno dei due assume fin dall’inizio, come se entrambi tendessero a corrispondere alla forma di imprinting con cui si erano percepiti a vicenda: Pound nel ruolo di scopritore di talenti, arbiter letterario, impresario e promotore di movimenti artistici; Joyce in quello dell’autore esule ed emarginato che viene scoperto e che si lascia guidare seguendo i consigli che gli vengono elargiti purché abbiano a che fare con la pubblicazione e la promozione delle sue opere e non con quanto egli scrive, a meno che non si tratti di consigli motivati da apprezzamenti positivi, meglio ancora se entusiastici. 

Lo si avverte in maniera tenue ma esplicita quando Pound “osa” trovar qualcosa da ridire a proposito del capitolo di Ulisse detto delle Sirene, da lui ritenuto “non buono come al solito” (p. 226), provocando in tal modo un velato risentimento da parte di Joyce il quale, scrivendo a Miss Weaver, proprietaria della “Little Review”, si lamenta del fatto che Pound abbia piuttosto affrettatamente disapprovato il capitolo, ma, aggiunge “credo che la sua disapprovazione abbia fondamenta non legittime e sia dovuta soprattutto agli svariati interessi della sua ammirevole ed energica vita artistica” (James Joyce, Lettere, a cura di G. Melchiori, Mondadori 1974, p.328). A dir la verità, le obiezioni di Pound a certe parti del capitolo erano articolate in diversi punti e, per quanto fossero intese a prevenire un possibile intervento della censura, mostravano anche qualche dubbio rispetto alla loro riuscita stilistica, per l’abbondanza di parole sconce e l’eccessivo rilievo dato all’espletamento di certe funzioni corporali (si veda la lettera del 10/6/1919). Dubbi che però non avrebbero minimamente scalfito la sicurezza di Joyce, dal momento che egli era, sì, “dipendente dai pareri degli amici sulle sue opere, ma tuttavia manteneva una glaciale e ironica determinazione” (p.226).

Questa stessa determinazione lo avrebbe portato anche in seguito a trascurare i giudizi di Pound su Finnegans Wake, che gli erano parsi sconcertanti e incomprensibili, e soprattutto tali da farlo stupire del fatto che nuovamente la grandezza del suo progetto letterario fosse messa in discussione. Da parte sua, Pound non era riuscito a capire in quale direzione si stesse muovendo Joyce dopo la consacrazione internazionale ricevuta a seguito della pubblicazione di Ulisse, e anche nei discorsi che egli avrebbe tenuto anni dopo in sua memoria non si sarebbe ricreduto sull’idea che si era fatto di quell’opera che gli era sempre parsa nient’altro che “una vana ricerca dell’esagerazione” (p. 361).

Ma già a partire dalla pubblicazione di Ulisse e dal lancio di Joyce a livello planetario, i rapporti fra i due erano cominciati a mutare, raffreddandosi, come del resto ne dà testimonianza in questo volume la scarsa corrispondenza relativa agli anni Trenta. Ciò induce infatti a ritornare alla vera natura e alla dinamica del loro rapporto così come lo si intuisce nel suo sviluppo da queste lettere.

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È chiaro infatti che Pound, benché ammettesse in un articolo intitolato Storia passata , del 1933 (qui alle pp. 333-43), di non essere stato lui lo scopritore di Joyce, bensì Yeats, era perfettamente consapevole di quanto in realtà Joyce gli fosse debitore, ed è lecito supporre che il suo entusiasmo per lo scrittore irlandese, che indubbiamente era determinato da una stima incondizionata per le sue opere e da un’oggettiva comprensione della novità rappresentata dalla sua tecnica narrativa, che egli poneva sullo stesso piano di quella di Henry James e Thomas Hardy (lettera tra il 6 e il 12 settembre 1915), era comunque direttamente proporzionato al compiacimento da parte sua di essere l’artefice esclusivo della fortuna dell’altro.

Ma quando le sorti di Joyce sarebbero passate in altre mani, in particolare a quelle di Sylvia Beach e Adrienne Monnier, proprietarie delle librerie Shakespeare & Company e La Maison des Amis des Livres, che avrebbero portato Ulisse alla pubblicazione e coinvolto Valery Larbaud alla sua traduzione in francese; e soprattutto dopo che intorno a Joyce si sarebbe formato un cenacolo di ammiratori (che, come sempre succede in questi casi, si reggeva anche su un diffuso comportamento di piaggeria nei suoi confronti), ecco che Pound, un po’ forse per comprensibile gelosia, un po’ per un altrettanto comprensibile timore di passare in secondo piano, avrebbe cominciato a far trapelare segni di fastidio.

I quali si sarebbero manifestati in maniera ancor più evidente sia quando, in seguito all’edizione pirata dell’Ulisse in America, egli si sarebbe rifiutato di firmare la petizione contro l’editore Samuel Roth che l’aveva messa in circolazione; sia all’uscita di un romanzo come Tropico del cancro di Henry Miller, da lui giudicato osceno ma in grado di sistemare Joyce al proprio posto (p. 347); e sia infine quando, ad anni di distanza, dall’ospedale St. Elizabeth dove stava scontando la sua pena, egli avrebbe parlato con insofferenza di “inflazione joyciana” (p. 348) sostenendo, con implicita parodia della tecnica dello stream of consciousness di cui Joyce si era dimostrato maestro incontrastato, “questa roba del flusso di conScemenza Girtie/Jimmee è FLUITA abbastanza” (p. 347).

D’altra parte Joyce non aveva fatto granché per evitare quella che si poteva definire in certe occasioni una situazione di reciproco imbarazzo e si ha come l’impressione che, una volta raggiunto il successo, la presenza del suo nume tutelare fosse diventata un po’ ingombrante. Senza contare che, a partire dal momento in cui Pound aveva cominciato a interessarsi di economia e a manifestare simpatie per il fascismo italiano, Joyce, forse non con tutti i torti, aveva cominciato a nutrire qualche dubbio sulla sanità mentale dell’amico, al punto che una sera, dovendo cenare assieme a lui, aveva pregato Hemingway di accompagnarlo perché gli sembrava che Pound stesse diventando pazzo e “aveva sul serio paura di lui” (p.348).

Rimane però da stabilire cosa pensasse effettivamente Joyce di Pound. È difficile dirlo. Certo, in svariate occasioni non aveva lesinato i suoi apprezzamenti per l’aiuto che aveva da lui ricevuto nel corso del tempo ma sempre trattenendosi dal dare un giudizio sul suo valore come poeta, come se lo sentisse lontano da sé, o non lo capisse; e questo nonostante anche Pound avesse lavorato sulla scorta delle stesse suggestioni mitologiche su cui Joyce aveva basato il suo maggiore sforzo letterario: basti pensare infatti che il primo dei Cantos, secondo un’idea di traduzione tutta poundiana intesa come omaggio mimetico, era per gran parte costituito dalla versione in inglese della versione in latino dell’undicesimo canto dell’Odissea.

O tutt’al più, solo una volta, Joyce si era espresso in proposito e in privato, definendo i versi di Pound “divertenti e spiritosi” (Lettere, cit., p.307), che non era comunque il massimo dei complimenti. E anche quando, nel 1925, Ernest Wash gli avrebbe chiesto di scrivere un elogio da inserire nel numero della rivista “This Quarter”, interamente dedicato a Pound, Joyce avrebbe di nuovo messo in rilievo le qualità umane di Pound aggiungendo stavolta un cenno anche alla sua “mente tanto brillante e acuta” (p. 305), ma con parole per l’appunto che sembrano derivare più dai modi cerimoniosi di Joyce, che da una vera e propria stima. Del resto, sono comunque rari i casi in cui Joyce ha espresso giudizi favorevoli su scrittori a lui contemporanei e può benissimo darsi che questa sua reticenza facesse parte proprio di quella strategia che fin da giovane egli aveva deciso di mettere in atto e che si basava sulle tre armi del silenzio, dell’esilio e dell’astuzia.

Ma forse è più probabile che fin dall’inizio, quando Pound gli si era presentato chiedendogli, su suggerimento di Yeats, alcuni testi poetici per l’antologia degli Imagisti che egli stava editando all’epoca, e anche successivamente quando si sarebbe dato da fare per pubblicarne le opere o controbattere per iscritto alle recensioni negative che di esse erano apparse, Joyce avesse sempre continuato a fraintendere l’interessamento di Pound, guardandosi bene dal considerarlo come quello di un autore a lui complementare.

E nonostante ammettesse, come avrebbe fatto con Padraic Colum, che era stato Pound ad averlo “tirato fuori dalla fogna” (citato in John McCourt, James Joyce. Gli anni di Bloom, Mondadori, p. 337), non si sarebbe trattenuto in un’altra occasione, e stavolta in maniera un po’ meschina, dal chiedere allo scrittore ed editore Robert McAlmon se Pound e Eliot fossero davvero importanti (p. 367), quasi a lasciar supporre che lui avesse i suoi buoni dubbi al riguardo o non fosse in grado di giudicarlo da sé, cosa che per certi versi poteva sembrare altrettanto offensiva.

Di ben altra natura e contenuto sono invece i testi scritti da Pound su Joyce che appaiono in questo volume inframmezzati alle lettere e che hanno forma sempre diversa a seconda dell’occasione per la quale erano stati concepiti. Ad accomunarli in ogni caso è sempre l’entusiasmo col quale Pound sembra voler perorare la causa di Joyce, prima nel cercare di imporlo agli editori e alla stampa; poi, una volta avvenuta la pubblicazione, nel difenderlo, come s’è detto, dagli attacchi o dalle recensioni maligne e negative. È il caso, ad esempio del testo intitolato James Joyce e i suoi critici, pubblicato nel giugno 1917 su “The Egoist” (qui alle pp. 172-175), nel quale egli si limita a riportare e in qualche caso a commentare, facendoli precedere da una dicitura sotto cui potrebbero essere catalogati, i vari giudizi coi quali era stato accolto il Portrait di Joyce, lasciando in tal modo che questi giudizi provvedessero da sé ad assumere i contorni dello schiocchezzaio. Vale la pena di riportarne alcuni:

CAUTELA: È davvero difficile sapere cosa dire di questo nuovo libro di Joyce. – Literary World.

FOGNE: Joyce è un romanziere intelligente, ma a nostro avviso darebbe il meglio di sé con un trattato sulle fognature. – Everyman.

ANIMA PURA: Questa pseudo-autobiografia di Stephen Dedalus, un debole e un sognatore, è una lettura splendida … Nessun uomo dall’anima pura potrà mai lasciare che sua moglie o i suoi figli ci si accostino. – Irish Book Lover.

IMMAGINAZIONE: Joyce mostra un’assenza di immaginazione e humour sorprendentemente non celtica. – Bellman (USA).

Comunque sia, il ritratto di Pound che esce da queste lettere è quello di un personaggio certamente bizzarro, pirotecnico, simile a un fiume in piena che tracima ovunque vi siano campi da fertilizzare, e in questo corrisponde in pieno all’immagine che di lui era stata data da Hemingway in Festa mobile, in cui pure se ne sottolineava l’altruismo e la generosità disinteressata. Il tempo ha poi fatto giustizia anche delle sue qualità di poeta visionario e sperimentatore, mostrando come egli fosse in netto anticipo sugli sviluppi che la poesia avrebbe avuto in seguito. Forse alla sua poetica era mancato un principio unitario, essendo sempre andata soggetta ad una continua trasformazione a seconda degli interessi che via via lo entusiasmavano (e soprattutto rispetto al rigore formale presente nelle opere di Joyce, nonostante pure quelle si differenziassero l’una dall’altra sul piano stilistico).

Anche il suo opus magnum, I Cantos, avrebbe mostrato alcune incertezze strutturali, dal momento che l’impianto su cui esso si basava sarebbe stato alterato dalle ben note vicende biografiche del poeta. Cosa che si rende soprattutto evidente nella rappresentazione dell’Inferno così com’è concepita e realizzata nei Canti XIV-XV , ossia nei termini di una costruzione puramente intellettuale; e come invece essa si sarebbe ripresentata nei Canti pisani, indiscutibilmente condizionata e ispirata dalla sventura e per questo più vibrante di autenticità. Ma pure la prima aveva un che di profetico e un non trascurabile contenuto di verità che, per quanto avrebbe fatto prendere a Pound la strada sbagliata, col suo brulicame di profittatori, accaparratori, guerrafondai, assassini, usurai, pervertitori del linguaggio e della religione, è attuale più che mai ancora oggi. Ne cito i versi iniziali (dal Canto XV) nella traduzione di Massimo Bacigalupo (Ezra Pound, XXX Cantos, Guanda, 2012):

 

I saccarinosi, affondati nel glucosio,

 i pomposi nella bambagia

 con un puzzo come di oli a Grasse, 

il grande scabro buco del culo che caca mosche, 

che scorreggia imperialismo, 

urinale estremo, latrina, pisciatoio senza cloaca, 

Balfour meno rissoso, Ingram Episcopus 

Londonensis, 

testa in giù avvitata nella sbobba.

 

Ezra Pound, Lettere a James Joyce, a cura di Forrest Read. Prefazione di Enrico Terrinoni. Traduzione di Antonio Bibbò. Il Saggiatore, pp. 474, euro 45,00.

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