Strategie e trovate / Podemos, una certa ikea di politica

24 Giugno 2016

La politica sta cambiando, questo ormai dovremmo averlo capito. Un cambiamento totale, devastante, che mette in discussione tutto e tutti sotto due potenti spinte: quella dei cittadini, che non sono più disposti a far finta di niente, ma soprattutto quella della comunicazione, che ha trasformato il modo di farla. E non parlo solo di internet e dei suoi effetti, della costruzione del consenso a forza di post e like o della pratica della consultazione diretta per scegliere qualunque cosa, dal colore delle pareti della sede del partito alle aliquote della pressione fiscale, ma di tutta la comunicazione, anche quella che si basa su artefatti del tutto tradizionali come un programma elettorale. Avete presente quei volumoni che si facevano una volta, fitti fitti di righe di testo, qualche tabellina e una certa quantità di dati che nella migliore delle ipotesi si presentavano già sotto forma di torta pronta da spartire? Dimenticateli. O almeno, dimenticateli se siete spagnoli. Con Podemos, il partito (movimento? gruppo? iniziativa? di questi tempi si offendono tutti così facilmente) che parteciperà alle prossime elezioni del 26 giugno, anche questo baluardo del vecchio modo di comunicare la politica è saltato. Niente più complicate spiegazioni, dati astrusi, pagine e pagine di “nero su bianco” in Times corpo 12, al suo posto visualità a tutto spiano: colori, fotografie, font accattivanti, qualche disegnino ma soprattutto tanti, tantissimi oggetti. E un modello preciso. Se per Woody Allen era Dio, per gli ex indignados è Ikea e, in particolare, il suo famoso catalogo di mobili.

 

È proprio così, il programma di Podemos si presenta tale e quale al catalogo della multinazionale svedese del mobile. E non parlo della copertina, in cui un’immagine a pagina intera mostra lo scorcio di un ambiente domestico tutto ingombro di giocattoli (giocattoli?!), ma dell’insieme delle soluzioni che adotta la pubblicazione più diffusa al mondo (220 milioni di copie, più della Bibbia per capirci). Dalla grafica alle immagini passando per la struttura stessa. E così dall’indice scopriamo che ogni problema è associato a un ambiente della casa. Le questioni finanziarie, le politiche in materia di scienza, giustizia e diritti umani e i servizi sociali sono riferiti alla cucina, mentre pensioni, dipendenze e disabilità (sic), cultura e sicurezza al salone e così via. Podemos non vuole insomma solo scimmiottare Ikea, lo assume a vero e proprio modello, incurante degli effetti di senso che la trovata (e ogni singolo aspetto di questa) porta con sé. Eco diceva sempre che le figure (per lui non erano solo fotografie ma ogni forma di figurazione, anche quella verbale) non sono mai innocenti, portano sempre con sé altri significati, e per questo bisogna stare molto attenti a usarle. Al di là dell’effetto sorpresa, del sorriso che non può non spuntare sul viso di chi incontri il programma di ikea-Podemos e delle inevitabili considerazioni circa quello che può succedere dopo che questo sorriso sia scomparso (solo gli stupidi ridono sempre), bisogna fermarsi a pensare al senso che un’operazione come questa può assumere. Perché un movimento politico dovrebbe assimilare la sua comunicazione a quella di un colosso del design?

 

 

 

La prima associazione che viene in mente è piuttosto ovvia: così come Ikea ha democratizzato l’arredo rendendolo accessibile a tutti, così Podemos ha in mente di riprogettare la politica. Ma non si trattava di riprogettare il paese? Un attimo, ma cosa ci vogliono vendere? Già, vendere, per quanto possiamo amare Ikea, i suoi oggetti, la sua filosofia del basso prezzo e dell’alta qualità (ma quanto alta? Per molti Ikea è sinonimo dell’opposto) nonché la sua attenzione per l’ambiente, si tratta pur sempre di un’attività commerciale, di una multinazionale il cui obiettivo, per definizione e senza possibilità di equivoco, è uno solo: il profitto. Ikea vende, non regala. E lo fa per guadagnare il più possibile. Voglio essere chiaro, le mie non sono considerazioni politiche, o almeno non lo sono di principio. Personalmente faccio fatica a capire quello che succede in Italia, figuriamoci se mi permetto di entrare nel merito di quello che succede in un altro paese. Le mie considerazioni riguardano la comunicazione e solo quella, nonché gli effetti di senso che certe scelte possono produrre.

 

Ma torniamo al catalogo, e in particolare alle tante immagini che lo popolano e alla retorica più o meno volontaria che le pervade. Ce ne sono talmente tante che l’unico criterio scientifico per scegliere quella di cui parlare non può che essere il numero di pagina. E così, dopo l’indice, troviamo una bella foto di Julio Rodríguez, generale dell’aviazione spagnola ed ex capo dello Stato maggiore della Difesa durante il governo Zapatero, che lava i piatti in cucina. Già. Ed ecco i pensieri in libertà: ma sarà una cucina Ikea? Perché è vestito di verde? Non sarà mica perché è un militare… È insalata quella che sta ripulendo? E perché sorride? Perché viene via o perché era buona? E la moglie? Non ce l’ha una moglie? E i disegnini dei bambini sulla parete a destra? Nipotini? Ma allora una moglie deve avercela. Ma che bravo, lava lui i piatti e lei guarda la TV. Oppure è morta. Speriamo di no. Però si vede che è un miltare, guarda come sta dritto. E gli piace la musica: c’è la radiolina. Per non parlare della tazza a forma di scoiattolo sulla cappa, è adorabile. Vi prego, fermatemi! Ma funziona così, non c’è verso, Barthes lo chiamava punctum, è ciò che in una immagine ti colpisce, e non è detto che sia una cosa sola. 

 

Poi subentra lo studium, la ragione per la quale guardo l’immagine, ed è allora, forse, che andiamo con gli occhi alla scritta, in cerca di cosa una cucina abbia a che fare con una Spagna nuova. È arrivato il momento di cambiare il modo in cui si producono e si trasformano i beni, dicono quelli di Podemos, e per questo la cucina di Spagna deve modernizzarsi. Ecco perché la cucina, perché è il luogo della trasformazione, è questo il filo. Il motivo per cui, allora, il generale lavi i piatti e non stia cucinando rimane un mistero, ma sembra che la metafora – ecco cosa è il catalogo di Ikea, una metafora – funziona. O almeno, lo fa per una intera pagina. Perché basta sfogliare e troviamo Rafael Mayoral, segretario delle relazioni con la società civile di Podemos, intento a stendere i panni in uno stendino che – colpo di scena – si trova in cucina. Il tema della pagina sono le banche e la gestione finanziaria, anzi, più in dettaglio, la proposta di eliminare il segreto bancario privilegiato dei paradisi fiscali. Capito? Eliminazione del segreto bancario…panni sporchi…sagace. Ma è quello che volevano dire o è quello che ho voluto vederci io? Non lo sapremo mai. Ma soprattutto, che c’entra la cucina? El señor Mayoral non ce l’ha una lavanderia, un balcone, qualcosa? E perché anche lui sorride? Oddio, ancora il punctum: che ci fa quella moka gigantesca nella sua cucina? Ama il caffè italiano? Carine le piastrelle con i fiorellini gialli…e la moglie? Eccetera eccetera eccetera.

 

È questo il punto, anche quando riuscite a indovinare la relazione fra ciò che viene fotografato e ciò di cui si parla (o siete convinti di averlo fatto), tutta quella enorme mole di dettagli che una fotografia più o meno ingenua porta con sé, sarà sempre lì a produrre senso, a creare corrispondenze, a suggerire chiavi di lettura. Le parole raccontano una storia ma le immagini ne raccontano un'altra. Anzi peggio, ne raccontano molte altre. Possiamo pensare che sia un modo per rappresentare i protagonisti del movimento nella vita vera – una sorta di contrappasso rispetto alle tipiche fotografie da campagna elettorale – ma la verità è che ogni fotografia è una macchina che produce interpretazioni. E poi, siamo davvero sicuri che siano le loro case? Davvero un magistrato in aspettativa come il Juan Pedro Yllanes di pagina 19 passa le sue giornate a far torte? (sta tagliando del burro, a cosa può servirgli?). Il problema ovviamente non è sapere se lo fa davvero, se ha una moglie che cucina torte per lui o se è un uomo di casa perfetto, il punto è che inevitabilmente si prende a pensare a tutto questo e che tutto questo non c’entra niente con la politica. Non c’è niente di peggio di prendere una metafora in senso letterale, significa distrarsi, non capire più ciò di cui si sta parlando, ed è proprio questo il problema qui. Dopo un po’ questo librettino smette di essere un programma politico e diventa un diario fotografico. La vera domanda allora è: quanto si può rimanere concentrati sulle questioni politiche così? Quanto la metafora-gioco del catalogo non diventa l’ennesima arma di distrazione di massa? E siamo solo alle prime pagine.

 

 

 

Quando scopriamo che gli stessi personaggi li ritroviamo in salotto o in bagno, la lettura diventa una sorta di romanzo epistolare in cui ricostruire la trama di tante storie raccontate per immagini. Sapete che il mio generale preferito in salotto ha un divano marrone e dei modellini di aereo? La cosa che trovo più interessante è che non ci si limita a mostrare i volti di chi fa politica, sono uomini e donne in azione, gente che fa, ma soprattutto che vive in contesti complessi, popolati da oggetti. Sono loro la cosa più interessante: vedere quali sono, dove sono messi, in che modo somigliano ai loro padroni. Ma ancora una volta, rispetto al manifesto è un’altra storia. 

 

Potremmo star qui a discutere delle fotografie per ore, fare considerazioni su cosa succede a una pubblicazione commerciale quando diventa un genere e a come, per questo, possa essere usata come una metafora per raccontare tutt’altro. D’altronde, che Ikea sia diventato un genere lo sanno pure quelli di Ikea, che infatti hanno convertito la loro prima, storica sede di Älmhult in Svezia in un museo che aprirà i battenti il prossimo 30 giugno. Ancora si sa poco di quello che ci sarà dentro, ma una anticipazione la possiamo dare: ci sarà un set fotografico grazie al quale chiunque potrà avere una copia del catalogo con la sua faccia stampata sopra. Peccato per quelli di Podemos, avrebbero potuto risparmiare un sacco di tempo e ottenere risultati migliori con un semplice biglietto.

 

Ma torniamo a noi. Il problema vero rimane però quello della comunicazione e delle trovate come questa. Come chiamare altrimenti questa scelta? Mi dispiace ma non me la sento di usare parole come strategia comunicativa, soluzione progettuale, invenzione creativa. Una trovata, dice il dizionario Treccani, è un “espediente, ripiego, ingegnosamente escogitato per togliersi d’impaccio, per superare una difficoltà”. Non è qualcosa che si dà in positivo ma come risposta a una condizione negativa. Una soluzione più o meno ingegnosa che sembra riuscire solo se c’è un pizzico di fortuna, solo se il trucco funziona. Non il risultato del lavoro di un professionista ma di qualcuno che si improvvisa, che non possiede un saper fare e, per strane ragioni congiunturali, è messo in condizione di poter fare (già, podemos). Ecco, credo sia questo il problema, in comunicazione e anche in politica. Nella seconda abbiamo visto tanti “politici professionisti” che non sono stati in grado di assolvere ai doveri che si erano assunti, che hanno interpretato la propria professionalità (parlo dell’Italia ovviamente) come capacità di tenere stretta la poltrona e non di dar seguito al proprio mandato, con il risultato che non vogliamo più vedere professionisti ma solo dilettanti.

 

Quanto alla comunicazione, il problema è diverso: abbiamo visto solo dilettanti e non sappiamo cosa sia la professionalità. Salvo di tanto in tanto stupirci di quanto ci piaccia il catalogo di una multinazionale del mobilio o i telefonini di un' azienda che, malgrado il suo logo, non vende mele. Magie che, come qualunque prestigiatore sa bene, sono il frutto di un lavoro attento, paziente, di conoscenza e capacità di applicarla. Ma che, soprattutto, non possono essere riutilizzate tali e quali al di fuori degli ambiti per le quali sono state sviluppate. Non abbiamo bisogno di trovate, solo di gente che sappia fare il suo lavoro a cui venga data la possibilità di farlo davvero. Comunicatori così come politici. Stiamo provando tutto, proviamo ad affidarci a dei professionisti.

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