NO MORE WAR

15 Settembre 2022

“Come fotografo, ho sempre pensato di fare la cosa giusta; come uomo, mi sono spesso sentito un avvoltoio, colpevole di fare il mio lavoro. Eppure ho sempre perseverato, riuscendo in qualche modo a distaccarmi”. È con queste parole che Giles Duley descrive il conflitto interiore che strazia la coscienza di ogni fotoreporter: stare dietro a una fotocamera per dare testimonianza di ciò che accade, o intervenire per cambiare la realtà? 

Il lacerante conflitto che si percepisce nelle sue parole evoca la vicenda di Kevin Carter, un altro fotoreporter. Durante la carestia che nel 1993 colpì il Sudan, realizzò una fotografia divenuta celebre, una bimba denutrita e affamata, china sul terreno, e sullo sfondo un avvoltoio che sembrava attendere la sua morte.  Carter vinse il premio Pulitzer, ma ricevette spietate accuse per essersi limitato a osservare la scena.

Un anno dopo, a soli 33 anni, scelse drammaticamente di togliersi la vita, forse perseguitato dalle troppe scene di morte e violenza a cui aveva assistito e forse dai sensi di colpa generati da quell’immagine. L’interrogativo di Duley è fondamentalmente: perché fotografare la sofferenza, che differenza può fare una fotografia? “Se la mia fotografia non fa alcuna differenza, perché puntare la macchina fotografica su un bambino che è appena stato ferito?”.

Perché, ciò che conta, è raccontare le storie di coloro che hanno subito i danni più atroci e duraturi. Se è vero che fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona, nelle immagini di Duley non c’è la morte, bensì il dramma di coloro che rimangono. “Le mie immagini non hanno valore di per sé: possono essere distrutte, stravolte, strappate o copiate. Ciò che ha valore è la persona nell'immagine e la sua storia. Questo è ciò che deve essere rispettato”.

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©Duley, Mosul. Darwood Salim solleva le dita in segno di vittoria.
Darwood Salim raises his fingers in a victory sign.
Centro chirurgico di EMERGENCY
EMERGENCY Surgical Centre

Ed anche la sua storia merita di essere raccontata. Fotografo documentarista e scrittore, nato nel 1971 a Londra, dopo avere a lungo lavorato nella moda, ha iniziato a viaggiare in teatri di guerra come Iraq, Afghanistan, Sudan, Angola, Bangladesh, Kenya, Ucraina, Giordania, Libano, Colombia, Vietnam e Nigeria. Nel 2011, mentre lavorava in Afghanistan, Duley è rimasto gravemente ferito da una mina, subendo una tripla amputazione. Ciononostante, nel 2012, è ritornato in quel Paese per continuare il suo lavoro. “Una fredda mattina del febbraio 2011, mentre mi trovavo nella provincia di Kandahar, tutto cambiò: mentre accompagnavo un’unità di pattuglia territoriale dell’Aeronautica statunitense, misi il piede su uno IED, un ordigno esplosivo improvvisato.

Le mie ferite erano così gravi che alla mia famiglia fu detto di salutarmi per l’ultima volta. Quel giorno ho perso tanto, ma quell’esperienza mi ha anche permesso di avere una conoscenza dei feriti di guerra che pochi narratori possiedono. Ero letteralmente nei panni di coloro che volevo raccontare. Dal momento in cui ho ripreso conoscenza nel reparto di terapia intensiva del Queen Elizabeth Hospital di Birmingham, nell’aprile 2011, avevo un unico pensiero: in Afghanistan per fotografare i feriti civili come me”. Successivamente si reca a Kabul per documentare l’attività dell’ospedale di Emergency e mantenere così una promessa fatta a Gino Strada, che aveva conosciuto in Sudan. 

A proposito dell’orrore delle foto di corpi mutilati della guerra civile spagnola, Susan Sontag scrive: “Non si dovrebbe mai dare un ‘noi’ per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri”. Ma nel caso di Duley questo “noi” acquista un significato particolare. Il fotografo non si trova davanti al dolore degli altri, ma accanto a questo dolore, in una condizione di prossimità. Come gli altri, porta sul corpo i segni dell’orrore. 

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©Duley, Kabul. Said Karim
Un muratore che ha perso le gambe quando la sua macchina è passata sopra una mina.
A stonemason who lost his legs when his car drove over a landmine.
Centro chirurgico di EMERGENCY
EMERGENCY Surgical Centre

Cosa lo ha spinto a tornare dopo aver subito le stesse ferite che era stato costretto a fotografare in tanti scenari di guerra?

Le risposte possono essere tante, ma devono essere in ogni caso estremamente potenti e stringenti. Identificarsi nel ruolo di fotoreporter al punto di non pensare di vivere se non in quella veste, è una spiegazione che non convince fino in fondo. Forse maggiore senso può avere quella di un impegno etico talmente forte, e di una passione così coinvolgente da agire come farmaco contro il dolore che si prova nel cuore, prima ancora che nelle membra.

Davanti a una simile esperienza non è opportuno parlare di compassione, di condivisione del dolore, di cullarsi nella comune condizione di vittime. La compassione è un sentimento labile, tende a trasformarsi in indifferenza se la sofferenza degli altri si avvicina e minaccia la nostra tranquillità. Ciò che conta davvero, pensa Duley, è vivere con pienezza dentro una situazione di incertezza. “Le esperienze della vita che ci hanno spezzato, danneggiato, ferito, fatto soffrire; queste sono le linee della fortuna della nostra vita che dovrebbero essere riparate con l'oro. (…) Per molti anni mi sono vergognato e ho nascosto le cicatrici della guerra sul mio corpo; ma ora li ho accettati e li ho celebrati come miei Kintsugi”. 

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©Duley, Kabul, Zahra.
11 anni, ferita da un proiettile
11 years old, injured by bullet
Da Kabul
From Kabul

Per ciò che ci riguarda, davanti al dolore degli altri, non possiamo più essere degli immobili voyeur attirati dal fascino osceno della guerra, divoratori compulsivi di immagini atroci, come l’avvoltoio della foto di Carter. 

Affermare che siamo sommersi dalle immagini, che le immagini hanno anestetizzato i nostri sensi e le nostre coscienze, non è altro che un alibi comodo e per giunta ormai abusato. Si dovrebbe, invece, mettere in discussione la nostra comoda posizione di guardoni. Una fotografia è sempre il luogo di una scelta: ognuno di noi, davanti a una foto, deve decidere come farla partecipare, o non partecipare, alle nostre iniziative di conoscenza e azione. 

Mostra: “NO MORE WAR” di Giles Duley, Palazzo dei Musei di Reggio Emilia

Fino al 25 settembre 2022.

©Duley, Kabul. Una donna con le mani ferite da un colpo di mortaio caduto nel suo giardino mentre stava facendo il bucato.
A woman whose hands were injured when a mortar shell landed in her garden as she did the laundry.
Centro chirurgico di EMERGENCY
EMERGENCY Surgical Centre.

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