Nicholas Carr. The Glass Cage

1 Luglio 2015

A un Ted Talk di Los Angeles del 2013 Sergey Brin, il cofondatore di Google, disse esattamente ciò che pensava dello smartphone: usarlo è “una forma di castrazione”, una fonte di “isolamento sociale”; Brin chiese al pubblico (attonito e imbarazzato?) se starsene “seduti ore e ore a strofinare un informe pezzo di vetro” fosse veramente quello “che volevamo fare al nostro corpo”. Strofinare un pezzo di vetro – ecco la frase più azzeccata, da tenere a mente quando si discute con i nuovi zelanti funzionari dei ministeri dell'istruzione di mezza Europa, in cerca più o meno inconsapevole di nuovi sbocchi commerciali per tablet e smartphone: parafrasando, direi: “volete veramente che i nostri figli e le nostre figlie passino le loro giornate a scuola a strofinare un informe pezzo di vetro?” Come è noto ormai da molti anni, i dipendenti di Brin hanno le idee chiare in proposito: i dirigenti di Google che possono permettersi le scuole Waldorf non esitano a mandarci i propri pargoli, e anzi vantano la bontà della propria scelta, sapendo che faranno loro dono di un ambiente steineriano in cui gli schermi sono rigorosamente proscritti e le mani in pasta non sono una metafora – visto che in quelle scuole la matematica delle frazioni la si impara cucinando, tagliando, distribuendo e mangiando torte vere.

 

Nicholas Carr, noto saggista americano che ha dedicato un libro fortunato e misurato al rapporto tra intelligenza e uso della tecnologia (Internet ci rende stupidi?) affronta ne La gabbia di vetro il tema del ruolo crescente dell'automazione nella nostra vita. Il saggio scaturisce da una serie di articoli lunghi pubblicati su riviste come New Atlantic o la MIT Technology Review (e forse per questo risente un poco di sovrapposizioni e ridondanze, ma è un prezzo che paghiamo volentieri, anche perché ampiamente compensato da una scrittura brillante e godibilissima). Gli studi di caso principali, assai documentati e messi in prospettiva storica, riguardano soprattutto l'automazione e l'informatizzazione del trasporto aereo, della medicina, della progettazione architettonica e della navigazione, mentre gli aspetti più speculativi del volume si rivolgono alle sempre crescenti situazioni in cui i robot, in quanto agenti autonomi, dovranno affrontare e risolvere dilemmi morali; nonché alla dimensione filosofica del ruolo di un soggetto attivo a fronte della delega massiccia di sforzi, lavoro e decisioni ai sistemi automatici.

 

Il vero tesoro contenuto nel saggio di Carr sono le decine di estratti da testi fondatori del grande progetto dell'automazione e della delega, un progetto che dietro la sua apparenza pratica e meccanica cela una complessità filosofica che non è sfuggita agli ingegneri, agli economisti e agli industriali. Sono testi a volte profetici, a volte vaticinanti e messianici, in alcuni casi lucidi – se non addirittura cinici e, verrebbe da dire, spietati. Automatizzare significa liberare l'umanità da compiti gravosi, e quindi secondo alcuni potenziare l'io, secondo altri creare i presupposti di un mondo senza lavoro, di svago e letture. Oppure, con leggera sfumatura: automatizzare significa liberare l'umanità dai suoi stessi errori, dalla sua imperfetta eredità biologica (non a caso Airbus si propone di progettare aerei “a prova di pilota”). E a questo punto, in un crescendo: automatizzare significa costruire macchine veloci e precise che inevitabilmente entreranno in concorrenza con gli operatori umani, sostituendoli ove possibile. Ecco il gran finale: ma la sostituzione, ovviamente, è sempre possibile; “è solo questione di tempo”, recita il ritornello.

 

Si ode in lontananza un controcanto sinistro. Il mondo dei robot guerreggianti è un mondo di guerre permanenti e diffuse, avverte un colonnello statunitense in pensione intervistato da Carr; se le perdite umane non saranno un deterrente all'inizio delle ostilità, le ostilità scoppieranno di continuo. E il mondo senza lavoro è in realtà un mondo senza lavoratori; qui i padroni delle macchine sono gli unici veri vincitori, serviti da uno stuolo multiforme di robot; gli altri esseri umani escono di scena perché irrilevanti e in fin dei conti pesi superflui, costosi e imperfetti. 

 

Suvvia, Sergey Brin non era seriamente preoccupato per l'atrofia intellettuale del miliardo di strofinatori di vetri che alimenta le casse di Google. Nel Ted Talk dirottato a scopi pubblicitari cercava di mandare in soffitta lo smartphone non tanto per invitare alla meditazione o al lavoro manuale, ma per far spazio ai Google Glass, e quindi sostituire una gabbia di vetro con un'altra (i Google Glass sono stati poi ritirati dal commercio quest'anno). Su questa falsariga è stata presentata anche la l'Auto Google che guida da sola (ma non è del tutto vero, rivela Carr, per il momento si porta nell'abitacolo guidatori addestratissimi pronti a intervenire in situazioni delicate): gli incidenti stradali sono la prima causa di morte tra i giovani americani, l'Auto Google è paludata filantropicamente da ausilio genitoriale, servirebbe a riportare a casa i sedicenni dopo una notte in discoteca, sarebbe il conducente che non ha bevuto e non si distrae. Scrive Carr: “È il caso di sottolineare che la preoccupazione di Silicon Valley per la sicurezza autostradale, benché indubbiamente sincera, è stata parziale.” Un quarto degli incidenti stradali è oggi da imputarsi all'uso del telefono/smartphone alla guida. “Tuttavia Google e altre grandi aziende tecnologiche non hanno fatto alcuno sforzo per sviluppare un software che eviti le chiamate, i messaggi o l'uso delle app mentre si è alla guida: un compito facile al confronto della costruzione di un'auto che si guida da sola... Siano pure benvenuti gli importanti contributi che le aziende tecnologiche possono offrire al benessere sociale, ma non dovremmo confondere gli interessi di quelle aziende con i nostri” (p. 231).

 

Quali sono i nostri interessi? Carr, pur non essendo affatto un nemico dell'automazione, si iscrive qui in un filone che va da Heidegger alla Arendt, da Merleau-Ponty ai propugnatori della cognizione situata (che sulla questione della delega tecnologica hanno peraltro posizioni instabili, ci raccontano una mente estesa e una percezione aumentata in modi che hanno alimentato la narrazione messianica e pubblicitaria dei manager di Google). Dovremmo riappropriarci del senso del lavoro artigianale, svolto dominando ogni singola sua fase, dovremmo essere aperti al mondo attorno a noi. Certo, le pagine dedicate alla navigazione assistita dal GPS e ai social network mostrano in modo eloquente come chi si collega al satellite si scollega dal suo ambiente, al modo in cui chi è sempre all'erta su Facebook finisce con il non parlare più con i propri figli. Ma oltre sollevare questo problema, sarebbe interessante anche proporre delle soluzioni e delle buone pratiche; altrimenti il solo vero effetto che si ottiene non è forse quello di colpevolizzare i lettori?

 

 

Il libro: Nicolas Carr, La gabbia di vetro, [The Glass Cage: Automation and us, 2014] Cortina, Milano 2015, 294 pp., 25 euro. Questo articolo è apparso sul Sole 24 ore.

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