I rami di attività economica / La casalinga di Voghera e le attività essenziali

La rottura della lavatrice

 

L’incommensurabile Alberto Arbasino è, ahinoi, morto, ma la casalinga di Voghera è viva. Da ultimo ha dovuto studiare i rami di attività economica. Il 21 marzo suo marito, nel tentativo maldestro di aiutare nei lavori domestici, aveva rotto la maniglia della lavatrice. La casalinga ha prima urlato; ha poi letto con attenzione il decreto del Presidente del Consiglio del 22 marzo, in particolare la lista delle attività economiche definite essenziali. Con sollievo (anche del marito) la casalinga ha scoperto che il ramo di attività economica “Riparazione di elettrodomestici e di articoli per la casa” era stato incluso dal Governo tra le attività essenziali. L’operaio è potuto venire a casa, rigorosamente con la mascherina, e ha aggiustato la lavatrice (90 euro, con ricevuta fiscale, pagati naturalmente dal marito: chi rompe paga).

Rimane un dubbio nella testa della casalinga: a che cosa cavolo servono questi rami di attività economica?  

In tutte le scienze la classificazione è indispensabile. Gli zoologi classificano i vertebrati in cinque ordini: mammiferi, anfibi, pesci, uccelli e rettili. Classificano i loro oggetti gli archivisti e i bibliotecari.  È interessante mettere a confronto la loro attività. Sembrano operazioni analoghe ma in realtà nascondono differenze importanti. 

 

Come i bibliotecari classificano i libri

 

Per il bibliotecario, classificare significa dare un ordine agli oggetti conservati da una biblioteca: si tratta di individuare alcune caratteristiche di un libro che consentono di ricondurlo a un piano di classificazione standard, comunemente accettato. Il più noto è forse quello inventato dal bibliotecario americano Melvil Dewey nel XIX secolo: la classificazione decimale che prende il suo nome. Si tratta di una mappatura gerarchica del sapere, un albero concettuale – con i suoi rami, naturalmente – al quale possono essere ricondotti i libri che troviamo sugli scaffali di qualsiasi biblioteca: qualsiasi biblioteca che l’abbia adottata, in qualsiasi parte del Mondo, classifica Il visconte dimezzato di Italo Calvino col codice 853.914. In questo caso l’albero è metaforicamente l’albero del sapere, sul cui tronco la classificazione Dewey disegna dieci grandi rami (da 0 a 9). Il numero 8 è la letteratura, quella universale, di tutto il mondo. Quella italiana ne costituisce un ramo che fuoriesce rigoglioso, il 5, che a sua volta sorregge rami ancora più piccoli, come quello della narrativa, il 3, cosicché il codice 853 indica la narrativa italiana. Ma non ci accontentiamo: vogliamo un ramoscello ancor più piccolo per indicare il periodo in cui fu pubblicata una data opera; in particolare 914 indica il lungo dopoguerra, dal 1945 al 1999. È qui che ha germogliato e vegeta la piccola grande foglia di Il visconte dimezzato.

 

Come gli archivisti classificano i documenti

 

Anche l’archivista classifica, ma la classificazione in questo caso è un’operazione diversa rispetto a quella bibliotecaria: essa non ha il requisito dell’universalità. La classificazione archivistica non è unica e non è universalmente valida. Guai se lo fosse. Essa è legata al contesto. A differenza del bibliotecario, l’archivista non si propone di inquadrare ogni singolo documento all’interno di una tassonomia universalmente condivisa. Qui entra in campo il cosiddetto soggetto produttore: la persona o l’ente che, operando, produce quei documenti; la classificazione deve rispettare i criteri di classificazione che tale soggetto eventualmente utilizza per organizzare la propria attività. Se i documenti non sono classificati all’origine (e capita, soprattutto negli archivi personali), l’archivista storico non si sostituisce all’autore dei documenti in tale attività. Se esiste, la classificazione delle carte di un archivio fa parte delle testimonianze che si vogliono conservare e tramandare.

 

Ci sono dunque punti di vista diversi

 

Il bibliotecario classifica con criteri esterni agli oggetti considerati, con in mano una mappa del sapere universale (una delle tante possibili); al contrario, l’archivista non impone una classificazione: è agnostico, cerca di ricostruire l’ordine originario, il contesto che ha dato origine al documento. La classificazione archivistica, se c’è, non è universale, è specifica del singolo soggetto che ha prodotto i documenti. Nonostante la conformità letterale e formale, una lettera di Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Banca Commerciale italiana, inviata alla Banca d’Italia e da essa classificata, non può essere considerata come lo stesso documento che troviamo conservato in copia (la velina) presso l’Archivio della Banca Commerciale. È chiara la differenza rispetto all’esempio di Il visconte dimezzato: lo stesso testo assume un valore diverso a seconda del contesto.

 

Le classificazioni sono convenzioni

 

Però attenzione: sarebbe errato trarre la conclusione che sia possibile distinguere con nettezza le classificazioni obiettive e universali da quelle soggettive, ancorate a un contesto. No. In realtà, qualsiasi classificazione è frutto di un punto di vista e quindi di un contesto, di obiettivi conoscitivi, a volte di bias cognitivi; come è stato sostenuto ad esempio proprio nel caso della classificazione Dewey, da più parti accusata di rappresentare una visione molto parziale della cultura mondiale, per l’attenzione privilegiata che concede al mondo occidentale anglofono cristiano. Si è giunti persino ad accusarne l’impianto di omofobia

E del resto la stessa biologia, regina delle tassonomie almeno dai tempi di Linneo, ha sempre riflettuto sulla solidità e sulla stessa utilità delle proprie classificazioni, sul realismo del concetto di specie.  

Se la classificazione è metaforicamente un albero, dobbiamo essere consapevoli che l’albero cui facciamo riferimento non è specchio oggettivo della realtà ma uno strumento più o meno potente (più o meno fallibile) per perseguire determinati fini conoscitivi. 

 

 

Le classificazioni degli statistici

 

Gli statistici non sono da meno nell’amare le classificazioni. Dividono l’economia in cinque settori: imprese non finanziarie (tipo la FIAT), società finanziarie (tipo le banche), famiglie, amministrazioni pubbliche e resto del mondo. Poi, come una specie di matrioska, i settori vengono divisi in sotto-settori. Ad esempio, all’interno delle amministrazioni pubbliche si distingue tra amministrazione centrale, enti locali ed enti di previdenza (l’Inps è il principale). Ma la matrioska non finisce qui. L’Istituto italiano di statistica – l’Istat – è responsabile della classificazione delle attività economiche. Si tratta di regole europee, che i paesi recepiscono. In estrema sintesi tutte le unità che gestiscono un’attività economica – siano esse una grande impresa, un’impresa familiare, una società finanziaria o un’amministrazione pubblica – sono divise in branche di attività economica. Solo per citare le principali si va dalle attività manifatturiere alle costruzioni; dal commercio all’ingrosso e al dettaglio alla fornitura di energia elettrica, gas, vapore, aria condizionata; dalle attività scientifiche, professionali e tecniche all’agricoltura, silvicoltura e pesca. 

 

Le branche, come tutte le classificazioni, sono delle convenzioni. Non sono scolpite nella pietra. Cambiano seguendo le modificazioni della società e dell’economia. Fino ad alcuni anni fa, le branche usate per presentare la destinazione dei prestiti bancari erano 23; poi sono state riaccorpate in 14, con aggregazioni e riaggregazioni delle singole attività (delle quali non è qui il posto giusto per disquisire). 

Ma la matrioska contiene anche delle bambole piccole, anzi piccolissime. Le branche sono infatti divise in una grana sempre più fina, i rami di attività economica, che a loro volta possono essere suddivisi in chicchi sempre più minuscoli, assegnando un codice, in maniera simile alla classificazione Dewey: maggiore è il numero delle cifre del codice, più piccola è l’attività produttiva identificata. Sono i famigerati codici ATECO. I rami più sottili in assoluto hanno un codice a sei cifre. Eccone alcuni esempi: allevamento di cammelli e camelidi; corsi di danza; noleggio di biciclette; mense. Se avete una mente così perversa da voler andare al di sotto di queste classificazioni, non potete farlo. I rami di attività economica non arrivano a distinguere tra corsi di danza acrobatica e corsi di tango; o tra noleggio di mountain bike o di tricicli per bimbi. A tutto c’è un limite, anche alla perversione di noi statistici.

 

Come Paolo Baffi litigava sulle classificazioni delle attività economiche

 

Punti di vista, appunto, ognuno dei quali va valutato non in astratto ma in base ai concreti obiettivi conoscitivi che si propone. È sempre opportuno ricordare le virtù del pragmatismo: la bontà di una teoria scientifica, e di una classificazione, si valuta in base ai risultati conoscitivi che consegue. Nel 1936 alla Banca d’Italia venne assegnato il compito di vigilare sulle aziende di credito. Il Servizio Studi, in particolare il giovane Paolo Baffi, che sarebbe diventato Governatore nel quadriennio 1975-1979, studiò i modi di classificare le imprese alle quali le banche concedevano credito. Baffi, in vivace dialettica col suo maestro, lo statistico Giorgio Mortara, elaborò la griglia delle statistiche sul credito per rami di attività, uno strumento per misurare il rischio dei crediti bancari. 

 

Baffi scelse di adottare un punto di vista diverso da quello odierno. Il suo punto di vista era quello delle filiere produttive, cioè le produzioni che si concatenano per dar luogo a un prodotto finale. Scriveva Baffi in un appunto del marzo 1936: «Nella voce ‘cereali’ ad esempio, vanno riuniti i granicultori, i commercianti di grano, i molini, i panifici, i commercianti di farina, semole e crusche, i panifici, ecc.» 

Il punto di vista di Baffi prevalse su quello del direttore generale dell’Istat, Alessandro Molinari, che avrebbe preferito un punto di vista concentrato sull’appartenenza alle corporazioni. Baffi, in questo spalleggiato dal suddetto Raffaele Mattioli, aveva chiara una questione: quando ci accingiamo a classificare qualcosa dobbiamo prima di tutto aver chiaro perché lo facciamo. A Baffi sembrò giusto guardare alle filiere produttive. Oggi l’obiettivo di Baffi è assicurato da un’altra diavoleria statistica, le tavole input-output, che appunto misurano, da molti anni, le interdipendenze tra diverse attività produttive.

In Italia una tendenza maniacale alla classificazione delle attività economiche può essere fatta risalire addirittura al censimento della popolazione del 1871, che conteneva classificazioni sia di “attività” sia di “professioni”. In quell’anno si trovano così riferimenti alla categoria degli “agricoltori, cavallanti e bifolchi” e si rimane colpiti dal numero elevato di spazzacamini o di cavamacchie.

 

Le attività essenziali

 

Nel decreto del 22 marzo le attività essenziali sono indicate utilizzando la classificazione dei rami a livelli diversi (ad esempio sia a 3 sia a 6 cifre). Non sono stati esplicitati i criteri con i quali un’attività è stata definita essenziale. Il decreto è consapevole che si tratta di una scelta convenzionale (come quelle dei bibliotecari, degli archivisti, dei biologi); le interdipendenze tra attività non sono state approfondite (sarebbe stato impossibile farlo in poco tempo).  E infatti il decreto è prudente, affermando – si veda il comma c) dell’articolo 1) – che restano consentite anche le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività essenziali. È un po’ come uno studioso che magari avrebbe preferito una classificazione diversa da quella Dewey, ma nella ricerca di un libro riconosce l’utilità di quella tassonomia, cercando di farne l’uso migliore.

Una gentile collega ci ha ricordato che dopo il primo elenco di attività “essenziali”, il 25 marzo il Ministero dello sviluppo economico ha pubblicato un nuovo elenco, a sostituzione del precedente, al fine di “consentire, da un lato, la maggior integrazione delle filiere già interessate dall’allegato 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 22 marzo 2020 e, dall’altro lato, la sospensione delle attività non ritenute essenziali”. Ci sono state circa 30 modifiche rispetto all’elenco originale. Per fare un solo esempio, mentre l’intera industria della carta era inizialmente ritenuta “essenziale”, il secondo decreto ha escluso la “carta da parati” e i “prodotti cartotecnici”, che includono i quaderni scolastici. Evidenze aneddotiche raccontano di genitori disperati che ormai barattano con i propri vicini verdure fresche e latte in cambio di quaderni, ormai divenuti rarissimi, per i propri figli…  

 

La parola alla casalinga di Voghera

 

Il pezzo che stiamo per chiudere ha goduto dei commenti preliminari della nostra eroina, che ci ha rivolto altre pressanti domande. Ecco l’ultima, che vogliamo condividere con i nostri lettori: “Grazie per il contributo, ho dovuto studiare, ma ho imparato tante cose. Però mio marito è un po’ rimbambito. Ieri ha fatto cadere un vecchio orologio, un cimelio di famiglia. Non ho trovato il codice ATECO dei riparatori di orologi … Lavorano in questi giorni? Mi date una mano? (per i curiosi, le riparazioni di orologi e di gioielli hanno il codice 95.25.00). È possibile distinguere all’interno del ramo?

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