Speciale

Bergamo / Il virus visto da dentro

3 Aprile 2020

Ho attraversato l’esperienza del virus, proprio questo virus, a Bergamo, in questi giorni. Chissà quanti l’hanno attraversata senza neppure averne consapevolezza, alcuni, i più giovani, senza conseguenze, altri morendo senza causa efficiente, senza che il tampone fornisse loro il sigillo di morte “autentica”. Le pagine dei necrologi sono lievitate da una a dodici, le notizie degli amici, dei conoscenti, dei giornali si diffondono, senza remissione. Io sto meglio, ma non è questo il punto. Chi, come me, il virus lo sta attraversando ha fatto un’esperienza sui generis. La descriverò qui con parole mie, che voglio condividere con il lettore. 

Per la mia esperienza – sto attraversando il virus e sto sopravvivendo – non è tanto il fatto di essere stato inserito in una sala d’emergenza gremita; il non avere avuto un luogo dove stare, finché qualcuno non ti dà un giaciglio su cui coricarti, inadeguato, il tuo primo privilegio; neppure stare dentro al lazzaretto degli appestati, dove, se devi pisciare – poiché sei già attaccato a due tubi, liquido e gassoso – lo devi fare lì, in un contenitore di cartapesta, davanti agli altri, che ti guardano, come tu guardi loro. Fai un piccolo sorriso pudico, ti copri il più possibile, senza però bagnare i tuoi indumenti e… Finché arriva il momento in cui ti danno un letto e una stanza, da condividere con altri tre. 

Non è questo ciò che conta: può capitare; e anche di peggio ho visto nei miei viaggi – e la storia mostra – cose ben più gravi, sempre che abbia senso misurare il disagio e la sofferenza. 

 

L’esperienza del virus ha una qualità propria, difficile da descrivere: l’io si disperde. L’io è la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo, scrive, se ben ricordo, Italo Calvino. Chi sta dentro il virus assume questo sguardo in modo singolare, il virus, infatti, è una finestra ingannevole, come quando, durante la notte, guardi fuori e vedi, insieme al paesaggio notturno, in sovrapposizione, te stesso che guardi fuori.

La finestra e lo specchio sono portatori di luce, ma lo specchio “riflette” la luce, la finestra “lavora”: porta la luce da fuori, attraverso i vetri, quando è giorno. Quando è notte la finestra diventa ambigua, inquietante. Dentro la stanza illuminata, la finestra raccoglie sguardi esterni, indiscreti, voyeuristici, malintenzionati, che spiano i movimenti per derubare e assalire, oppure sguardi curiosi e pietosi, che osservano le forme della vita umana dentro i grandi palazzi delle aree metropolitane, piccoli focolari domestici, come alveari illuminati, prodotti dell’architettura progressista. 

Abbiamo fatto tutti l’esperienza di guardare fuori dalla finestra, nel buio; la stiamo facendo ancor di più in questi giorni di solitudine, ognuno dalla propria stanza, dove possibile. Proviamo a rifarla ora, o a ripensarla, questa esperienza: se la luce in casa è accesa, da lontano non vediamo che noi stessi e la stanza in cui siamo; man mano ci avviciniamo ai vetri, vediamo anche, in sovrapposizione, il fuori: le case, gli alberi, i cancelli, il viale di casa. Vediamo ombre, cose che ci chiedono di essere messe a fuoco; se spegniamo la luce di casa, lo sfondo esterno si avvicina e la nostra immagine si affievolisce e allora le ombre degli alberi, delle palizzate, delle case si mostrano meglio, ma sempre un poco informi, magmatiche. 

 

Opera di Andrew Wyeth.


L’io, quando fa buio, si perde in questa sovrapposizione che rende la finestra, dunque se stesso, ben più inquietante dello specchio. Ci voleva un grande scrittore per intuire che, se la “posizione dello specchio” è dentro l’intimità del rapporto con mamma e papà, la finestra è la nostra prima interfaccia con il mondo là fuori, con i continenti, le moltitudini, i deserti e gli oceani. Oggi, chiusi in casa, separati l’uno dall’altro, ce ne rendiamo conto più che mai, ci avviciniamo, quando fa sera, alle finestre e vediamo la nostra immagine sovrapposta al mondo.

Così sembra mostrarsi il virus per chi ne è abitato, come una finestra nell’oscurità. Non si tratta solo di me: io non sono che la finestra sul mondo, l’io e il mondo stanno subendo la stessa sorte, si vedono in sovrapposizione, sono mescolati, a tratti agglutinati, l’uno all’altro. 

Gli è che, quando sei là, diventi parte della moltitudine, la discrezione che ti garantiva la finestra si dissolve in un agglomerato, si guardano gli altri guardando se stessi, non c’è più differenza, né separazione. L’io e il mondo non si relazionano più nei termini di una finestra, perché l’io e il mondo sono diventati uno, non sono più separati dalla finestra. Solo quando rientri a casa ti puoi permettere, guardando fuori, nel nuovo regime di separazione dal mondo, di ricollocare te stesso come esistenza discreta.

 

Ma l’esperienza vissuta ti rimane dentro, anche perché, se il tuo miglioramento è un dato clinico, il dato del virus diverge dal tuo, si espande, si diffonde tra tuoi conoscenti, che muoiono, amici, che si ammalano, qui e altrove, a Madrid, a New York. E sai di amici – coetanei, più giovani, o più anziani – che hanno, come te, altre malattie pregresse e che vivono in un mondo meno “affidabile” sul piano della salute pubblica, che possono ammalarsi e morire. 

Ogni giorno, in clinica, quando il peggio è passato e vieni collocato in una struttura adeguata e accogliente; ogni giorno, quando piano piano i tuoi dati clinici vanno migliorando, ti riducono l’ossigeno, il flusso respiratorio ritorna, e tu, fisicamente, stai meglio; ogni giorno non puoi fare a meno di essere parte di un tutto, guardi il cellulare – nuova finestra che ti unisce al mondo – i dati nel mondo, i dati di dove sei tu, a Bergamo, Brescia, a Milano. L’ecatombe cresce, l’epidemia continua a diffondersi e l’io non sa se, quando esce, diventa parte del ciclo di morte che lo potrebbe fare tornare là; perché l’io – questo nuovo io, contaminato – non è solo qui, è anche là, ormai a disagio, come nel titolo di un romanzo di Chinua Achebe.

 

Tu stai meglio, ma il virus è ancora là fuori, ti sta aspettando attraverso le moltitudini che vengono contagiate, le moltitudini che ripercorrono quel che è accaduto a te, giorno dopo giorno. L’io perde la propria differenza, si amalgama al mondo, la finestra scompare, perde la luminosità diurna e anche l’ambiguità notturna. Io non sono più io e il mondo non è più il mondo. 

Quanti virus si sono diffusi, addensandosi sempre più nel tempo, quanti segni di devastazione devono giungere ancora, da antropocene, per far capire all’uomo che siamo di nuovo sul far della sera, dove le trasparenze si confondono e le ombre nascondono insidie letali? Un tempo la natura si mostrava come potenza divina; gli antichi sapevano che doveva essere placata, avevano trovato l’espediente (Poros) – gesto d’amore – del sacrificio: la sostituzione dell’animale al figlio. Oggi l’animale, attraverso la trasmissione del virus, sostanza che trasforma le cellule in aggressori, ci sta restituendo l’incombenza dell’ecatombe. Che fare?

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