Speciale

Tradizione / Esperienza, competenza

29 Marzo 2020

In questi giorni surreali e drammatici, scanditi da bollettini medici e trasmissioni giornaliere occupate dal contagio, l’assessore regionale lombardo Giulio Gallera ha fornito uno spunto di riflessione. Questo politico, catapultato come tutti in una realtà sconosciuta e imprevedibile, adempiendo al ruolo istituzionale di aggiornamento, ha annunciato in un’intervista che sarebbero stati banditi posti per gli ospedali lombardi a favore di medici anche non specialisti di altre regioni. Ed ha aggiunto che non si trattava soltanto di un meritevole intervento di solidarietà, ma di un’occasione unica. L’apprendere sul campo quanto non si conosce dai libri, utilizzare l’esperienza dei sanitari che già vi operano, ricevere le loro conoscenze per poi servirsene in un futuro pur non auspicabile.

Questo messaggio era annegato tra parole elementari, dati precisi, statistiche crudeli, numeri di consolazione. Non si tratta in verità di un tema contingente, legato alla eccezionalità del momento. È la questione, generale e tormentata, della trasmissione dell’esperienza da chi ne sa di più a chi ne sa di meno, sia nel campo interpersonale comune sia in quello professionale specifico. Questione resa attuale all’epoca della connessione mondiale, in cui l’orgoglio dell’uomo di poter sapere tutto, anche in solitudine, appare sconfinato.

 

 

Ma non è così. Non solo perché la conversazione è necessaria in generale, come ricorda Sherry Turkle (La conversazione necessaria, Einaudi, 2016), per un’infinità di motivi. Essa infatti non è solo epidermica, ma anche funzionale. Non è solo orizzontale tra persone sullo stesso piano, ma verticale tra chi sa e chi non sa. Già di per sé la strumentazione tecnologica ora disponibile inclina all’autosufficienza, al rapporto subalterno verso la macchina che ti fornisce quanto non sai, senza interpelli complicati ma con un semplice click che automaticamente sviluppa connessioni. Questa autosufficienza claustrale porta a sentire di non aver bisogno di altri, perché la molla narcisistica spinge a escludere gli altri. E se li si contatta è per dialoghi superflui, per un passatempo di stampo informativo, tra coetanei, mentre la conversazione verbale raggiunge i minimi storici.

 

Di certo rischia di scomparire la conversazione verticale, quella tra chi sa e chi non sa, corrosa dalla polemica tra padri e figli, tra maestri e discepoli, tra noi e l’altro differenziati per età, tra anziani e giovani. Questi ultimi da tutelare ed enfatizzare quasi per principio, perché sono la vita da vivere, la gioventù che tra poco sarà perduta, la sconfitta della morte che si avvicina. I primi invece sono da accantonare come rottami, come uno slogan politico senza mezzi termini indicava. Salta una connessione, quella della tradizione, sia essa memoria, patrimonio di valori, o conoscenze professionali. La nozione di ‘tradizione’ non gode oggi di buona fama, perché può significare irrigidimento, insensibilità verso il nuovo, tutela compatta di un patrimonio identitario che potrebbe essere. 

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