Lorenza Pieri, Erosione

18 Agosto 2022

Non appena oltrepassata la porta di ingresso bisogna scansare il cumulo di posta, opuscoli e cataloghi diligentemente trasportati da un postino che si è arrampicato fin lassù per mesi, consegnando inutile carta in una casa disabitata. 

Gli interni, arredati con “combinazioni di materiali che non avevano seguito nessun principio, tranne la funzionalità e l’accumulo”, quasi combaciano ancora con il ricordo di chi li ha vissuti in un tempo diverso, ma si indovinano i punti dei muri mangiati dalla salsedine, si sentono il vento che fischia tra le intercapedini e il rumore sinistro delle onde che rimbombano sotto il pavimento. 

Anche la natura intorno è cambiata: “prima tutto scintillava. Oggi ogni cosa è opaca. Al posto dell’argento e del verde brillante, fuori ci sono solo grigi e marroni”; gli stupendi animali che la abitavano prima, gli eleganti uccelli, garzette, aironi cinerini, piccoli trampolieri, le centinaia di granchi blu con le loro cinque paia di zampe, i cavalli liberi nel parco, hanno lasciato il posto alle bestie più sgraziate: zanzare, cimici, blatte, scolopendre, scutigere, bisce d’acqua, ratti e distese di limuli morti.

L’implacabile processo di erosione che minaccia quel lembo di costa atlantica degli Stati Uniti e che dà titolo al romanzo di Lorenza Pieri (Erosione, E/O, 2022) sembra avere al suo centro la vecchia villa di famiglia di Anna, Bruno e Geoff, aggrappata alla punta del promontorio, con il mare di fronte a mangiarle le fondamenta e il più grande estuario nordamericano che le incombe alle spalle.

I tre fratelli si ritrovano per l’ultima volta nella casa delle vacanze nel Maryland, insieme alla madre, ferma davanti alle vetrate che danno sull’oceano, con pensieri e ricordi rubati dall’acqua e dalla malattia.

La vecchia villa lentamente si offre all’oceano, alla terra, al vento, rosicchiata dalla salsedine e dalle maree ed è ormai troppo oneroso arginare il processo di disgregazione provando a salvarne un pezzetto alla volta. “La cura – dice Anna – privata della gioia di un avvenire, rimane prodromo di una mancanza definitiva. E le azioni senza futuro sono le più difficili da compiere, devi lottare contro la loro inutilità, contro la loro tristezza”. Vale per la madre, ormai persa nella nebbia dell’Alzheimer, e vale per la casa di Cape Charles, venduta con qualche sotterfugio a due nonni miliardari e boccaloni.

Lasciare la villa significa separarsi definitivamente dal luogo dell’infanzia, dalle mura che ancora custodiscono il ricordo delle estati in barca, del pontile con attraccato il Siracusa, il motoscafo di nonno Giovanni, detto Joe, e che conservano anche un pezzo della loro storia, delle loro radici di immigrati di terza generazione, con la memoria di una Sicilia ormai intangibile, che resiste solo “in qualche traccia della bellezza lontana, come quella delle chiese di Noto” nei vecchi racconti dei nonni, nell’accento di un cognome e nei nomi di battesimo, nella musica di qualche parola in dialetto che risuonava nella casa al mare, “Minghie!”, “Zittuti!” e in quell’avverbio italiano, “Ormai”, intraducibile in inglese, che nonno Joe ripeteva sempre quando i bambini combinavano un guaio a cui non c’era rimedio e che significava che da quel punto non si poteva più tornare indietro.

È il nonno che ha costruito la casa, è il suo carisma che l’ha abitata e tenuta in piedi e da quando se n’è andato, la casa ha iniziato a disfarsi. “Da quando è morto nonno l’acqua ha iniziato a berci” sostiene Anna, convinta che il nonno “in qualche modo avesse deciso di portarsi la casa con sé, con l’aiuto delle maree, degli uragani, dei tornado; che pezzo a pezzo avesse iniziato a spargerla un po’ in mare, un po’ nella sabbia, un po’ in cielo, ovunque, in quella dimensione immateriale che chiamiamo più comunemente morte”, e nel “continuum di concause che legavano la morte del nonno al deterioramento della loro casa al mare, era come se ogni chiodo che si era arrugginito, ogni trave che si era lasciata gonfiare dall’umidità, ogni oggetto che aveva iniziato a farsi attaccare dalla salsedine fossero parte del processo di sparizione della loro infanzia”.

È per onorare quell’addio, che Anna insiste per ritrovarsi quell’ultima volta insieme, perché se le prime volte della vita restano generalmente incise nel ricordo, lo stesso non vale per le ultime volte, vissute troppo spesso inconsapevolmente.

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Ed è per questo che Anna propone di recuperare la tradizione che, da bambini, accompagnava le partenze verso la casa al mare, quando all’inizio di ogni estate la madre consegnava loro tre scatole in legno di cedro e diceva loro che tutto ciò che avrebbero potuto portare con sé avrebbe dovuto stare lì dentro. Questa volta, invece, le scatole dovranno fare il tragitto inverso, riempirsi di ricordi da salvare, raccogliere tutto ciò che del passato, Anna, Geoff e Bruno intendono portare nelle loro vite e nel loro futuro.

Ognuna delle tre parti in cui è diviso il romanzo è dedicata a una scatola, inizia elencandone il contenuto e accompagna poi ognuno dei tre fratelli tra le stanze cariche di ricordi, inizi e cause, rintracciando negli angoli di quella casa gli inneschi di tutti i percorsi delle loro vite, le definizioni e le etichette indossate controvoglia, che nel tempo hanno finito per abitare facendole proprie (lo “sfortunato, povero” Geoff, Anna “l’evaporata”, Bruno “disordinato e prepotente come l’oceano”).

Se per Anna la casa conserva ancora il senso di un miracolo che lì l’ha investita e mai abbandonata; per Geoff è il risvolto negativo del ricordo, tutto è mutato di segno, tutta la luce che lo avvolgeva e rassicurava da bambino è stata inghiottita da un oceano minaccioso e incombente e lui stesso sente che in sé tutto è mutato e che quella casa è il rimpianto di ciò era e non è più. Bruno, invece, a stento riconosce gli oggetti, non lascia che i ricordi affiorino, con gli auricolari premuti nelle orecchie quasi non interrompe il dialogo con la donna che è fulcro di ogni pensiero e più che cimeli, nella sua scatola, si accumulano desideri, oggetti spogliati da qualunque antico valore affettivo, non surrogati della memoria, ma vergini doni per la donna che ama.

Ognuna delle tre parti del libro si caratterizza anche per la diversa focalizzazione con cui segue il personaggio che ne è protagonista: la terza persona per Anna, capace di scorgere i fili invisibili che tengono insieme le cose e leggerne il senso; la prima persona per Geoff, ripiegato su sé stesso, impegnato nel tentativo di liberarsi dalla prigione dei suoi rimpianti; mentre per Bruno, tutto proiettato verso un desiderio tormentato, una terza persona continuamente scalzata dalla seconda, una serie di note vocali senza risposta, un dialogo mutilo che ha preso il posto anche dei suoi pensieri.

Anche l’amore trova origine tra gli spazi di quella casa, la qualità dei primi sentimenti affiorati in quelle stanze sembra segnare come premonizione o condanna anche quelli a venire. Per ciascuno è diverso: per Anna è un amore che dà origine e inizio e cambia la percezione di tutto, come una rivelazione; per Geoff è un amore che porta distruzione e fallimento, ma lascia una luce e una ragione per non soccombere, e per Bruno è una sfida, una conquista che dipende dal proprio valore e dalla propria determinazione.

Ma per tutti e tre l’amore è un abbaglio: che sia la sagoma di un ragazzo in lacrime nella luce arancione di un tramonto lentissimo, i capelli rossi di una ragazza in un bosco d’autunno, che rimano con i faggi nel bosco, o uno chignon e un paio di occhiali con una montatura trasparente con dentro uno sguardo di sfida a una svendita di oggetti in una casa di Boston, si tratta sempre di amori impossibili, perseguiti con un’ostinazione che riesce solo a differire un’inevitabile perdita.

Sembra essere un destino di famiglia, perdere ciò che è casa (la patria, l’amore), allevare i figli senza un compagno, trovarsi nella stessa condizione di coloro i quali “generazione dopo generazione avevano usato le radici che li legavano al passato per farne legni su cui galleggiare mentre la corrente li trascinava via”, lasciar naufragare pezzi di sé.

Adesso anche la casa di famiglia sta perdendo pezzi, la spiaggia è quasi sparita, la costa mangiata da mare, uragani e tornadi; come un anziano malato, la villa di Cape Charles non ha più un futuro, fronteggia il mare non più sfacciata e audace, come se dovesse sfidarlo, ma inerme, vulnerabile e arresa, come se fosse pronta ad abbandonarvisi, a essere trascinata via con la marea da un momento all’altro.

Scomparso nonno Joe, persa anche la memoria della madre, abbandonata anche la casa al suo destino, resta solo una domanda lavata via dal mare: cosa rimarrà della memoria di quel luogo, della terra d’origine in loro tre e nei loro figli che hanno nomi, ricordi e sogni americani, cosa resterà di quella Sicilia in qualche modo conservata in quella casa nel Maryland, se non qualche manciata di ricordi intraducibili e la musica di due sillabe sentite pronunciare un milione di volte, il suono di un “ormai” che chiude il passato in una scatola e lascia spazio solo al futuro.

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