L'immensità: un alieno vi guarda

29 Settembre 2022

Mi sono chiesta a lungo perché l’Immensità mi abbia commosso, sia durante la proiezione al Festival di Venezia, sia quando sono tornata a vederlo una seconda volta. Ormai sono tanti, infatti, i lavori dedicati agli anni Settanta, vale a dire al decennio da cui è passata anche la mia infanzia; eppure l’opera di Crialese mi ha procurato una risonanza speciale con certi aspetti di quel mondo lontano. Sono motivi che probabilmente agiranno in modo più empatico su chi è nato o vissuto attorno a quegli anni, tuttavia ne sto parlando perché mi pare che non riguardino soltanto un aneddoto privato. 

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Siamo nel 1974, a Roma, in una famiglia borghese, e il film racconta la vita di un’identità in transizione, vale a dire di una persona ragazzina chiamata Adriana (Luana Giuliani) ma che si sente di essere Andrea. Ha una madre spagnola molto bella e strana, nervosa, Clara (Penélope Cruz); poi ci sono un fratellino ciccione, una sorella piccola, e un padre, Felice (Vincenzo Amato), che incarna alla lettera i codici della patria potestà e del maschio italiano che se non fa il predatore con qualunque donna gli passi vicino non si sente abbastanza virile. Adri, che arriva in scena in attacco di film, e subito su uno spazio borderline esterno alla casa, vale a dire sul tetto, si crede una persona rotta, proveniente da un’altra galassia, e nel corso del film cerca il miracolo di qualcuno, qualcosa che ripari il suo corpo e il filo aggrovigliato delle sue emozioni, mentre intanto l’incontro con una ragazzina, di cui si innamora, è l’occasione di una prima esperienza di attraversamento (reale e simbolico) dei propri confini.

La forza del film, e la sua intensità, possono essere riassunte così: L’immensità non rappresenta la storia, nel senso di vicenda, di Andrea nato come Adriana, ma racconta come gli succede di vivere, di sentirsi, in quanto persona che percepisce sé stessa come creatura che ha qualcosa che non va, stando alle definizioni di sé provenienti dall’ambiente circostante. In questa situazione, fa quello che più fanno, di solito, le persone che si sentono/sono considerate strane, cioè guarda: guarda più che può, cerca di riflettersi, di trovarsi negli occhi di chi ha intorno, prima di tutto in quelli della madre. Il film del resto comincia proprio facendoci vedere due sguardi: quello di una figura ragazzina che guarda il cielo e, nella scena successiva, quello, in primo piano, di Clara: 

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Al gioco continuo tra questi due sguardi di cui vive, anche in senso drammatico, tutto il film, si aggiunge l’originale capacità di rianimare il sentimento del tempo attraverso le immagini sulle cose e delle cose, come se avessero occhi esse stesse. C’è, difatti, una particolare e diversa trama che L’immensità intende rianimare e far esistere, proprio attraverso la vita cinematografica degli oggetti.

Guardando i pigiami di tessuto sintetico indossati dai bambini nelle scene iniziali, per esempio, non ho visto, ma ho sentito di nuovo le scintille elettriche di quelle incredibili camicie di Nesso che ci hanno fatto indossare da piccoli. E le scenografie (di Dimitri Capuani) certo contano, ma non bastano a capire questo sentimento del tempo, perché a fare la differenza è proprio il modo irrequieto e non didascalico in cui queste immagini vivono nel film, attraverso la sceneggiatura (di Crialese con Francesca Manieri e Vittorio Moroni), i primi piani, i movimenti della macchina da presa, la fotografia, la scelta e la direzione delle attrici e degli attori. 

L’immensità è stato presentato a Venezia 79 assieme a un altro film italiano, Il signore delle formiche, di Gianni Amelio, dedicato al famoso «caso Braibanti», sull’intellettuale perseguitato e processato per la sua omosessualità. Sono due opere molto diverse, come altrettanto differente è il cinema e l’età dei loro autori. Il signore delle formiche racconta e rappresenta l’omosessualità come atteggiamento pasoliniano di solitaria contrapposizione eroica e ideologica alla società circostante.

Il film di Crialese, invece, fa una cosa diversa, anche rispetto a molte altre opere dedicate a questioni LGBTQI+, perché non tratta la differenza come un tema, o peggio ancora come una patologia da ammirare, ma fa esistere il soggetto altro, mettendolo davanti ai nostri occhi, cinematograficamente, come qualità di sguardo e di vita (e senza bisogno di rassicurarci su quanto la persona diversa sia d’altra parte tanto geniale o sensibile, o appartenga a un importante snodo storico). Qui, in questa mancanza di enfasi, sta uno dei meriti maggiori del film, anche la sua capacità di emozionarci; qui sta l’importanza, anche il nostro dovere critico, di guardare i film che parlano di identità e generi altri cercando possibilmente di ascoltarli attraverso codici intersezionali, per non rimanere dalla parte di protocolli critici modulati, fosse pure inconsapevolmente, in tempi di patriarcato e di omofobia. 

Di chi è lo sguardo all’opera nel film? Soltanto di Adri, o anche di un io che ricorda una stagione della propria vita? Le dichiarazioni che Crialese ha scelto di fare proprio durante la conferenza stampa circa la materia autobiografica del suo racconto forse chiedono, meritano di funzionare anche come chiave per capire meglio il doppio effetto che proviamo guardando L’immensità, vivendo simultaneamente un’esperienza di presa diretta sul mondo raccontato e di rammemorazione. Possiamo provare a parlare, proprio in senso cinematografico, di effetti di durata. Le cose che ci fa vedere L’immensità sono immagini movimento in quanto immagini di durata, che fanno rivivere, come presenti, fatti del passato. L’immensità, o, stando ai titoli di testa che usano una grafica disarticolata, “limmensità”, sa lavorare con un taglio originale dentro la memoria visiva del tempo trascorso, trattandola per un verso da memoria culturale e “durata” collettiva e, per l’altro verso e simultaneamente, come flusso visivo che scorre in una vita immaginosa interiore: che è del protagonista, ma, assecondando questo sentimento della scena come compresenza empatica, diventa anche una durata nostra.

Proprio come Adriana/Andrea, che è dentro e fuori, l’occhio della macchina da presa narra (dal di dentro) e descrive (dal di fuori): partecipa e osserva. È sguardo esterno (extradiegetico si direbbe) che coglie la vita delle cose – gli arredi gli abiti gli oggetti – dove aderisce la vita di tutti; e, contemporaneamente, il film è sguardo interno (intradiegetico) che indugia sul senso di un soggetto staccato e inconciliato. Quando ci emozioniamo, non riconosciamo soltanto un dettaglio magari visto tanto tempo fa, ma riconosciamo e sentiamo anche la presenza viva del corpo pensante di Adri accanto a quegli oggetti. 

Adesione e inappartenenza, dunque. Partecipazione e distanza. Questa condizione sdoppiata e mostruosa rimanda anche a una costante delle storie di Crialese, che sono sempre operazioni di straniamento e spaesamento formale dentro una vicenda famigliare (penso a Respiro, il secondo film, uno dei più belli, interpretato da Valeria Golino: una donna irregolare intrappolata e isolata, di nome e di fatto, nel ruolo materno di una cultura famigliare molto tradizionale, quasi arcaica). 

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«Io vengo da un’altra galassia e tu non hai i poteri per aggiustarmi», grida Adri alla madre, interpretata da una straordinaria Penelope Cruz, che sa essere insieme figura tragica e comica, certamente scelta perché il suo corpo è anche emblema vivo del cinema di Almodovar; ma Cruz è anche, linguisticamente, la straniera, dunque pure lei portatrice di una diversità da rinchiudere, una vitalità incendiaria e iscritta nel corpo, a cui rimanda anche il suo bisogno di ballare, di giocare, di scappare sotto il tavolo, o lo stesso linguaggio non sense della leggendaria canzone di Celentano citata dal film – e su cui torniamo tra poco. 

Che posto terribile, insomma, può essere la famiglia, se sei una donna, o se sei nata femmina e ti senti maschio, e per giunta un maschio che ha voglia di non assomigliare agli altri modelli maschili – come il padre, interpretato da Vincenzo Amato, che funziona ormai, col suo corpo attoriale, come formidabile macchina del tempo della cinematografia di Crialese. 

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Che incubo la famiglia, se la diversità diventa la sua nemica e l’odio transfobico o la misoginia il suo collante sociale e ideologico. Eppure quel tipo di famiglia non vale in assoluto, ma solo in un sistema fanatico dove la diversità è devianza da respingere; ci sono state e ci sono altre possibilità altri modelli culturali di famiglia, come mostra e ci ricorda L’immensità, dove la relazione con la madre, con quella stupenda e stranissima madre, non parla solo di un mondo soffocato, esattamente come, nella vita vera, la famiglia non mai una cosa sola. L’opera di Crialese racconta anche di che posto altro e meraviglioso, cinematografico anche al di fuori dello spazio del cinema, possa essere, e sia stata la famiglia. È un incubo e sogno che accompagnerà la nostra immaginazione per tutta la vita, luogo tremendo, dove tutto è sempre identico, ma dove tutto è in transformazione. 

C’è un particolare, però, che in questo film così pieno di rimandi all’immaginario degli anni Settanta, e dunque, in primo luogo, alla cultura pop, mi è sembrato, forse, non del tutto congruo. Riguarda il momento in cui Clara assiste, con i figli saltati nel suo letto, a quello che fu uno degli eventi più epocali della storia della televisione italiana, una vera mappa del tempo, vale a dire l’andata in onda, durante la quarta puntata di “Milleluci” (grazie agli archivi di RaiPlay si può ricostruire che era il 6 aprile 1974), della canzone Prisencolinensinainciusol, cantata e ballata da Adriano Celentano con Raffaella Carrà e il corpo di ballo del varietà. Il dettaglio che non convince è la scelta di girare l’apparizione di quella scena dentro lo schermo di un televisore in camera da letto.

Quel momento storico della tv italiana accadde infatti in un momento in cui nelle case di solito c’era ancora soltanto un apparecchio televisivo e stava nella sala. Anche se la famiglia dell’Immensità, che è una famiglia benestante, avesse avuto già un televisore in camera, meglio sarebbe stato forse mostrarcelo in sala, per rendere meglio il potere simbolico e la forza culturale profonda esercitata dalla tv e dai varietà della Rai in quegli anni, soprattutto per quanto riguarda la funzione proiettiva e liberatoria esercitata dal “rumore” di femmine aliene come Carrà, Pravo, Mina, su tutti i soggetti in cerca di identità.

Il film del resto si serve per tutto il tempo proprio di questa carica erotica delle immagini televisive, mentre Adriana/Andrea sogna a occhi aperti la madre nei panni della Carrà, o di Mina, o di Patty Pravo. La Tv si guardava come se fosse la Messa, e questa sovrapposizione dello spettacolo pop alla liturgia cattolica agisce anche nella scena in cui i bambini in Chiesa ballano le coreografie di Celentano e Carrà: le stesse che la nostra fantasia, come quella di ogni altra piccola persona degli anni Settanta, ha sognato per una vita.

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