Riscoprire l’insegnamento / Le proposte di Gert J.J. Biesta

25 Maggio 2022

Grazie all’intuito dei suoi curatori, Francesco Cappa e Paolo Landri, questa prima traduzione del volume di Gert J.J. Biesta The Rediscovery of Teaching – Riscoprire l’insegnamento arriva in Italia al momento giusto in concomitanza con l’ultimo colpo di coda – si spera – di una pandemia che ha riportato la scuola e l’insegnamento al centro della discussione pubblica ed accademica. Una discussione che pare, però, rimanere asfitticamente polarizzata, anche grazie a toni comunicativi “da social”, tra una visione più conservatrice che aspira al recupero della centralità dell’insegnamento e del ruolo forte dell’insegnante e del suo tradizionale potere disciplinare e una più progressista e sensibile al fascino della nuova norma tecnocratica che punta tutto sull’apprendimento, auspicando una trasformazione dell’insegnante in facilitatore. Sullo sfondo, la solita narrativa populista che tende, in una sorta di litania, a prendersela con i “cattivi” insegnanti, quelli che non vogliono cambiare, che lavorano poco, che si oppongono alla formazione, alla didattica per competenze, alle tecnologie e a tutto ciò che renderebbe la scuola italiana finalmente “moderna”. 

Come si fa allora a tornare a parlare di insegnamento senza essere “di destra”? Come si fa a rimetterlo al centro del dibattito senza cedere al canto delle sirene del neoliberismo o di inutili retrotopie? È questo l’interrogativo fondamentale al quale prova a dare una risposta Biesta che, come sottolinea Cappa nella sua introduzione, è “una delle voci più interessanti del panorama culturale internazionale nel campo della filosofia dell’educazione” (p. VIII). 

 Una voce che tende autorevolmente a riconsiderare priorità e valori relativi ed infatti scrive che “Il punto fondamentale di questo libro è che l’insegnamento conta” (p. 7). Una dichiarazione di apertura che, da un lato, vuole ribadire l’urgenza e la complessità del compito di riscoprire l’insegnamento; dall’altro, “fornire delle argomentazioni progressiste per un’idea conservatrice” (p. 4). Fin dal prologo, Biesta dichiara, infatti, di essere mosso dall’idea che l’insegnamento non sia necessariamente un elemento conservatore, né che consista in una mera limitazione della libertà del bambino, o dello studente. Il suo intento è proprio quello di costruire una “terza via” che sfugga alle fallacie dei conservatori e dei progressisti, riconsegnando l’insegnamento all’educazione e, come osserva Cappa, “riconoscendo la centralità dell’insegnamento e del ruolo dell’insegnante, non solo inteso come figura legata al mondo della scuola, ma come una presenza e una professione strategica a livello sociale e politico (…)” (p. XV).

In tale cornice, il ragionamento si snoda attraverso cinque capitoli molto densi, che catturano immediatamente l’attenzione e rendono piacevole la lettura, anche grazie alla selezione attenta dei titoli, all’uso sapiente di termini chiave, all’abilità nel fondere riflessioni teoriche con esperienze ed esempi pratici, alla scelta di ripetizioni introduttive e conclusive di tipo heideggeriano che arricchiscono quanto detto precedentemente nei capitoli. In questo modo, il lettore viene accompagnato per mano riuscendo così non soltanto a cogliere il messaggio profondo del testo, ma a prendere fiato, per ritornare su alcune idee e metabolizzarle senza sforzo.

Il testo si apre con una riflessione sull’utilità dell’educazione e, in particolare, su quale sia il compito degli insegnanti in quanto educatori (capitolo 1). La risposta che l’autore propone è che il compito dell’educatore sia quella di suscitare, in un altro essere umano, il desiderio di voler esistere e stare al mondo in un modo adulto. Nella sua ottica essere adulti non si traduce però nel traguardo di un percorso evolutivo e educativo volto all’accumulazione di sapere ed esperienze, bensì in un processo esistenziale attraverso il quale i nostri desideri sono ridimensionati dalla “resistenza” della realtà. Adultità significa la logica dell’ego che prende atto dell’esistenza dell’Altro. 

Nel capitolo “Liberare l’insegnamento dall’apprendimento” (capitolo 2),  a seguire, sostiene che l’apprendimento sia soltanto una delle possibilità esistenziali delle quali disponiamo in quanto essere umani. Una possibilità che, al contrario di quanto ritengono pedagogisti come ad esempio Dewey, non esaurisce affatto la questione educativa, ma come osserva Landri nella sua postfazione, “La learnification, espressione non traducibile in italiano, è la marginalizzazione della questione educativa (…) È una tendenza riduzionista e totalizzante che crea una conflazione tra educazione e apprendimento” (p. 131). Quando tutto si riduce a essere misurabile perché ciò che non è misurabile non ha valore, i processi di soggettivazione sono interdetti. Per questo motivo, Biesta ritiene che il linguaggio dell’apprendimento soffra degli stessi limiti dell’insegnamento tradizionale: non è in grado di favorire la nascita di soggetti adulti.

Riprendendo e sviluppando le tesi del capitolo precedente, attraverso un’attenta lettura del lavoro di Emmanuel Levinas, suggerisce che il divenire soggetti non passi attraverso atti di significazione ma processi di interruzione (capitolo 3). Per usare una bella metafora di Paul Valéry, «Tout commence par une interruption». 

Rifacendosi anche alle riflessioni di Hannah Arendt è appunto l’interruzione il principio fondamentale, secondo Biesta, di un’educazione che miri a rendere possibile l’esistenza adulta nel e con il mondo. Un’educazione che rimetta dunque al centro l’evento dell’insegnamento inteso come una “rottura” che interrompe l’egocentrismo e apre la possibilità di una soggettività che assume un senso in relazione all’Altro.

Su questa scia, prosegue poi il suo ragionamento “facendo i conti” con il ruolo che l’insegnante assume in tre concezioni di educazione emancipatrice (capitolo 4). Tali concezioni sono: la pedagogia critica neomarxista, l’opera di Freire e le idee proposte da Jacques Rancière nel suo libro Il maestro ignorante (1987). Alle posizioni di Freire, che propone una critica alle prassi educative monologiche parlando da insegnante e rivelando “che uscire dalla modalità depositaria di educazione emancipatrice è più difficile di quanto si pensi” (p. 90), Biestapreferisce quelle di Rancière. Al contrario di Freire, quest’ultimo non arriva affatto alla conclusione che sia necessario disfarci degli insegnanti, ma mette invece in evidenza i problemi inerenti all’idea per cui l’emancipazione “si alimenta” di conoscenze. È in questo senso che l’insegnante emancipatore può essere chiamato ignorante: “è ignorante perché non parte dalla conoscenza della presunta incapacità dell’allievo, ma dal presupposto dell’uguaglianza delle intelligenze” (p. 105).

Infine, suggerisce che l'insegnamento dovrebbe essere basato sul dissenso non inteso come semplice assenza di consenso, ma come introduzione, in uno stato di cose esistente, di un “elemento incommensurabile” (capitolo 5). Insegnare come dissensus, è chiedere l'impossibile, rifiutare qualsiasi pretesa di incompetenza e cercare un futuro aperto e imprevisto per gli studenti. Cerca così di mostrare come l'insegnamento possa essere orientato all'apertura di possibilità esistenziali impreviste attraverso le quali gli studenti possono incontrare la propria libertà, possono recepire la 'chiamata' ad esistere nel mondo in modo adulto, come soggetti. Al centro di questa visione, vi è un’idea di libertà molto potente: non la libertà di scelta e di autorealizzazione con le quali il mercato e “la società degli impulsi” provano continuamente a sedurci, ma una libertà più “difficile”, complessa: è libertà adulta, la libertà intesa come azione di cui facciamo esperienza “quando proviamo a esistere nel e con il mondo, non solo con noi stessi” (p. 127). Quella che ci aiuta a vivere nel mondo, senza occuparne il centro.

In questo passaggio, il ragionamento di Biesta fa emergere la forte valenza etica e politica dell’educazione, portando chi si occupa di insegnamento ad interrogare molto seriamente i presupposti antropologici ed epistemologici che guidano la propria pratica educativa e che, troppo spesso, vengono dati per scontati o restano schiacciati sotto il peso delle retoriche neoliberiste del there is not alternative. Retoriche che, anche nel dibattito educativo, tendono a neutralizzare la ragione politica, fondata sulla ricerca della mediazione tra divergenti valori e punti di vista soggettivi, a tutto vantaggio di un esercizio tecnocratico basato sulla verità, misurabilità e oggettività delle cose.

Proprio nel tentativo di rimettere al centro la ragion politica, il dissenso, inteso come movimento verso l’incommensurabile, l’invisibile, sembra avvicinarsi alla concezione di insegnamento come trasgressione, intesa come movimento contro e oltre i confini, proposta da bell hooks nel suo appassionato saggio sulla libertà di pensiero che l’insegnamento può offrire: Teaching to transgress: Education as the Practice of Freedom (Londra, Routledge, 1994, Trad. it. Insegnare a trasgredire, Meltemi 2020). Un testo con il quale sarebbe molto interessante mettere in dialogo il lavoro di Biesta per arricchire le sue preziose intuizioni con la meridiana concettuale di genere-razza-classe. Una meridiana che consentirebbe di “dare corpo” ai processi di soggettivazione di insegnanti e studenti auspicati. 

L’unico punto che, infatti, sembra restare in ombra nel processo di riscoperta dell’insegnamento è, a mio avviso, proprio quello della sua dimensione incarnata ed erotica. Una dimensione che nella pedagogia critica femminista rappresenta, invece, il fulcro di ogni pratica emancipatoria fondata sul riconoscimento reciproco. Riscoprire i corpi di insegnanti e studenti, imparare a entrare in aula “interi” e non come “spiriti disincarnati”, sottolineare il piacere, le emozioni e le passioni che la relazione educativa genera, rappresentano infatti la vera sfida a quei dualismi (mente/corpo, spazio pubblico/privato ecc.) che ancora impediscono di poter guardare, creare, immaginare alternative e costruire soggettività capaci di pensare e agire assieme per costruire nuovi orizzonti di azione e significato. Entrare in aula come esseri incarnati significa “metterci la faccia” e assumersi la responsabilità del nostro essere soggetti nella storia: “dobbiamo tornare tutti allo stato di esseri incarnati per decostruire il modo in cui il potere viene tradizionalmente utilizzato in classe, negando la soggettività ad alcuni gruppi ed accordandola ad altri” (hooks, 2020, p. 174).

 

 

Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, curatori Francesco Cappa e Paolo Landri, Milano, Raffaello Cortina Editore, pp. 153

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