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Strategie / La società che si difende dalla pandemia

13 Dicembre 2020

Uno schema interpretativo della grande crisi in corso sfugge a gran parte degli analisti. Gli economisti sono i più sprovveduti: faticano a spiegare l’economia, figuriamoci di fronte a un evento in cui si sommano grandezze extraeconomiche, sociali, psicologiche, morali. Anche la psicologia vede solo l’aspetto del disagio personale, ma non lo ricomprende entro coordinate più ampie. Infine le scienze esatte misurano curve e andamenti, ma non colgono gli aspetti interpretativi, comportamentali, sociali che queste grandezze esprimono.

Sarebbe necessario un modello circolare, come quello di seguito proposto, che in quattro tappe unisca fattori economici ed extraeconomici.

 

 

1 Massimizzazione del profitto e salute

 

Nelle attuali società del “capitalismo estremo”, di occidente e oriente, la massimizzazione del profitto individuale è un tabù intoccabile. Anche quando provoca squilibri estremi, alimenta crisi permanenti, causa disastri ecologici, favorisce eventi pandemici. Ad esso è subordinato ogni altro comportamento, individuale e soprattutto collettivo. Invece nelle società industriali classiche il perseguimento del massimo profitto si era fatto strada tra dimensioni diverse e contrapposte, come la cura dei beni comuni delle comunità locali (acqua, pascolo, bosco, risorse naturali) e quella del benessere collettivo degli strati sociali subalterni (cooperative, società di mutuo soccorso, istituti di welfare). Il temperamento dell’interesse privato era del resto alla base delle Costituzioni moderne e contemporanee. La sopravvivenza di questi istituti di protezione di mediazione sociale ha permesso in passato di regolare l’uso dei beni collettivi per evitare lo sfruttamento forsennato della Natura, e di fronteggiare eventi sociali distruttivi come disoccupazione, povertà e malattie. Poi a partire dal 1980, in singolare coincidenza ad occidente e a oriente, tutto questo è stato attaccato e via via dismesso. In occidente il neoliberismo, in oriente il capitalismo politico hanno imposto alle rispettive società il punto di vista del massimo profitto come unico parametro dell’azione.

 

Tutto questo ha avuto sensibili conseguenze sul welfare collettivo. La spesa sociale tra 1980 e 2019 è sì salita dal 15% al 20% del PIL nei paesi OCSE, ma la componente privata della spesa sociale è raddoppiata, toccando punte del 12% negli Stati Uniti e del 13% in Olanda (in Italia è al 2%). La spesa sanitaria è una parte importante della spesa sociale, ne vale quasi la metà: ammonta al 9 % del PIL nei paesi OCSE, con una crescita della componente sanitaria privata soprattutto negli Stati Uniti (che hanno la spesa procapite maggiore nella sanità, quasi 10.000 dollari annui con fortissima incidenza della sanità privata) e in Cina (qui il paradosso del capitalismo politico è che i valori della spesa sanitaria sul PIL sono molto bassi, ma la quota della sanità privata eccede quella della sanità pubblica). Il welfare privato è un ossimoro, perché il benessere di una società è solo collettivo. Invece molte energie sono state dedicate a sviluppare un “secondo welfare” privato e aziendalistico, il cui esito è stato di privatizzare anziché socializzare la ricerca del benessere. Gli esiti di questa privatizzazione del benessere sono divenuti improvvisamente evidenti nell’esplosione pandemica, mettendo in luce – come in Lombardia – l’abbandono della sanità territoriale e la carenza di forme pubbliche di monitoraggio, prevenzione e cura.

 

La massimizzazione del profitto nella sanità è il tema fondamentale. Non riguarda solo la straordinarietà pandemica, ma il funzionamento ordinario del sistema di assistenza e terapia, l’erogazione dei farmaci e dei trattamenti sanitari per popolazioni povere, il ruolo di settori come quello farmaceutico e della ricerca farmacologica, il modo in cui il capitalismo si è appropriato della sanità pubblica. Il ruolo dei grandi gruppi assicurativi fa parte del quadro. Tra tutti Allianz, il maggiore in Europa, assicura che in quanto paziente privato in Inghilterra (presa ad esempio) ci si può aspettare: di evitare le liste di attesa per l’NHS (il sistema sanitario nazionale); una data di ammissione garantita; di essere curati da un chirurgo specializzato; strutture di prima categoria; cure presso una gamma di ospedali privati; il rimpatrio nel vostro Paese qualora dovesse essere necessario. L’intera vicenda della sanità lombarda – con la massiccia privatizzazione a favore di grandi gruppi del settore realizzata negli scorsi decenni – andrebbe riletta in questa chiave di massimizzazione del profitto. 

 

2 Alimentazione di rischi personali e sistemici

 

La moltiplicazione dei rischi, la risikogesellschaft annunciata da Ulrich Beck oltre trent’anni fa, si è materializzata con un crescendo: nei catastrofici cambiamenti climatici planetari, nel rischio finanziario che coinvolge tutti, nella caduta in povertà di ampi strati di ceti medi e bassi, infine nella prima pandemia per sua natura globale, Covid-19. La radice di questi rischi è comune. È il capitalismo nella sua “fase estrema”: quella attuale, in cui i fenomeni globali rendono impossibile circoscrivere le fonti del rischio. Come era invece possibile nelle società nazionali e locali del passato.

Questa nuova configurazione pone al centro la dimensione globale assunta dal rischio e la sua attuale “incalcolabilità”. Siamo lontanissimi da quando il rischio era calcolabile da un agente economico, da un governo, da una famiglia. La finanziarizzazione globale e l’economia delle imprese globali – le due entità fenomeniche che hanno sostituito la sovranità degli Stati – hanno contribuito a globalizzare il rischio. Il debito che esplode in un punto qualunque del sistema si propaga a tutto il mondo, esattamente come avviene con la pandemia e con la crisi ecologica. Siamo sull’orlo di una completa trasformazione dell’economia: il cambiamento climatico obbliga gli investitori a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna, ha sostenuto a inizio 2020 (quando la pandemia non era ancora scoppiata) Larry Fink, a capo di BlackRock, la più grande società mondiale di gestione finanziaria. Ciò significa che investire oggi in un’impresa o in un Paese comporta un rischio incalcolabile: non sappiamo cosa avverrà a causa del cambiamento climatico in quell’economia nazionale, quell’impresa, quella città. Saranno state inondate o distrutte dalla siccità, saranno state colpite da mutamenti irreversibili?

 

 

I fondi finanziari, quelli che chiamiamo “i mercati” si sposteranno caoticamente da una parte all’altra del mondo, ma l’intero pianeta è a rischio: dall’Artico all’Equatore, dalla California all’Australia. Poi è arrivata la pandemia, qualcosa nato in Cina, e colpevolmente occultato – il medico che ha denunciato la comparsa del virus a Wuhan è stato prima arrestato e poi mandato a morire in corsia – ha subitamente colpito l’intero pianeta. Qui ogni sistema politico si è mostrato impreparato, non avendo né elaborato strategie di monitoraggio e comunicazione del rischio, né adottato misure sanitarie per fronteggiare eventi eccezionali. I sistemi totalitari, come la Cina, hanno fatto meglio per la loro capacità di sorveglianza e di controllo sociale totale. Colpisce la grave inadeguatezza dell’organizzazione internazionale della salute, la WHO, così come in altri campi colpisce la crisi dell’organizzazione mondiale del commercio, la WTO, etc. Nel frattempo le catene globali del valore si sono fermate, l’intero pianeta si è arrestato. Un evento eccezionale, o solo l’inizio di una causazione circolare e cumulativa ininterrotta?

 

3 Mercati sregolati

 

La pandemia rende evidente, in qualche modo esaspera la “mancanza di regolazione” che ha colpito il mondo: come nel 2008 con la crisi finanziaria, come da molti anni con la crisi climatica. I mercati “sregolati” hanno sostituito quei mercati “autoregolati” che l’ideologia economica dominante ha sostenuto per decenni. Solo una profonda revisione del modello economico e sociale potrà introdurre una nuova forma di regolazione. Dovrà però trattarsi di una regolazione sociale, non autoritaria. Nel campo sregolato dei mercati della sanità, si dovrebbe introdurre un regolatore centrale (gli economisti neoclassici lo chiamavano segretario di mercato) in grado di raccogliere le informazioni ed elaborare tempestivamente le risposte, a partire dalla vaccinazione, cui le singole autorità sanitarie nazionali dovrebbero attenersi. Esattamente l’opposto dell’anarchia creativa che ha colpito il mondo durante la pandemia, affidandosi all’autorità caotica dei governi nazionali, e in Italia anche alle risposte differenziate delle singole regioni – palesemente incapaci di elaborare strategie contro un virus a circolazione globale.

 

La sregolazione ha anche esasperato un altro aspetto, quello della responsabilità individuale nei confronti della pandemia. Si è richiesto alle persone un comportamento attento e responsabile, senza fornire alle persone stesse un quadro affidabile e organico di risposte da parte delle istituzioni (sanitarie, scolastiche, dei trasporti, etc.). Si tratta di un aspetto essenziale in cui la responsabilità civica individuale si connette a quella istituzionale collettiva. Due dimensioni, individuale e collettiva, che sono state scisse e allontanate l’una dall’altra in primo luogo dalla attuale cultura del capitalismo. Essa è interessata a manipolare il consumatore individuale (come si vede nel campo dei consumi digitali, in cui Amazon detta legge) rendendolo estraneo e ostile a ogni soluzione collettiva alternativa al mercato (ciascuno si risolve i problemi affidandosi agli algoritmi delle piattaforme, non certo alle iniziative collettive). Nel caso della pandemia, la distanziazione e la rarefazione delle interazioni sociali ha aggravato il senso di isolamento; ci si è affidati alle piattaforme per necessità (shopping online, smart working) non certo per scelta. Una possibile creazione di reti su base locale, civica, e translocale, potrebbe rappresentare una risposta istituzionale (di città, di sistemi locali) augurabile rispetto alla privatizzazione digitale imposta dal modello dominante.

 

4 Densità sociale urbana

 

Questo ci porta al tema della città come luogo di elezione dei fenomeni pandemici. La densità sociale urbana non è una novità, è sempre esistita a partire dall’antichità. Ha accompagnato le epidemie del passato, accompagna la pandemia del presente. Wuhan, Milano, New York, etc. sono metropoli globali a elevata interazione con il resto del mondo, per la presenza di imprese globali e di flussi densi di funzioni assemblate e di merci globalizzate. Il resto lo fa la densità morale (Durkheim), l’intensità delle relazioni e degli scambi tra infinite cerchie sociali (Simmel). Possiamo immaginare una risposta nel decentramento urbanistico, una dissoluzione della città in comunità locali ecologiche, fornite di energie rinnovabili e basata su scambi remoti? La visione di Bruno Taut, il grande architetto e urbanista che nel ‘900 fece l’edilizia sociale per gli operai di Berlino e immaginò comunità ecologiche decentralizzate, è stata travolta dall’urbanizzazione selvaggia e dal consumo di suolo e di risorse naturali della nostra epoca. Anch’esse frutto del “capitalismo estremo”.

 

Oggi un ripensamento si impone, sui modi di abitare, lavorare (e pensare) in città. Un discorso nato quasi all’improvviso, il lavoro in remoto (si passerà dall’attuale 3-4% al 30-40% degli addetti a lavori smart non manuali nelle grandi città), potrà essere l’occasione di riflessione e sperimentazione. Ma occorrerà guardare alle diseguaglianze sociali tra lavoratori manuali e non manuali, tra inattivi e attivi, di genere etc. e ripensare il lavoro in senso più generale. Un futuro urbano diverso si impone, anche per fronteggiare il cambiamento climatico che trasformerà Milano in una Karachi tra pochi decenni. Ma nelle città dei Sud del mondo dove prosegue l’urbanizzazione massiccia e dove il virus si è presentato in forme differenziate, non è chiaro come si potrà rispondere alla sfida delle migrazioni, dei residenti in circolazione, di una popolazione sempre meno definita e rappresentata, senza impegni di lungo termine, che vive negli interstizi dell’informale e nella continua rinegoziazione della vita. L’orizzonte si allunga: il 2030, più oltre il 2050 diranno se questo immane sforzo ricostruttivo – fisico e morale – delle città sarà stato portato avanti.

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