La fantascienza mélo di Interstellar

19 Novembre 2014

Di case al termine dell'universo nella storia del cinema se ne è vista una, e quella sarebbe dovuta bastare per sempre. Era nel finale di 2001: Odissea nello spazio, ovviamente, e in quello spazio asettico e mentale l’uomo osservava la propria evoluzione passando da una stanza all’altra, invecchiando, morendo e rinascendo sempre diverso e sempre uguale.

 

 

Sarebbe dovuta finire lì, eppure di case che interpretino in termini spaziali la mente e l'animo umani il cinema americano ne ha costruite altre, in terra e nell’universo, nella realtà e nei sogni. In A.I. Spielberg si è addirittura permesso di rifare quella di Kubrick, salvo renderla più domestica e meno astratta, più borghese e americana. Lo spazio non più asettico si faceva luogo e una scenografia riconoscibile dava rifugio a un cuore in cerca di conforto, regalava una cornice nota alla raffigurazione dell’affetto e del sentimento.

 

Uno spostamento decisivo, che racchiudeva più o meno l'essenza del cinema americano nello slittamento dalla mente al cuore. E ancora in War Horse lo stesso Spielberg, situando la sua casa ideale non più nella fantascienza, non più alla fine del tempo, ma in Inghilterra nel 1918, ribadiva la volontà del cinema americano di imporre il proprio immaginario ovunque, nel futuro e nel passato, nel tempo e nello spazio. Un cielo rosso fuoco alla John Ford, che nulla c’entrava con la grande guerra, rimandava al western e interpretava in termini affettivi e cinematografici una tragedia storica. Ribadendo, soprattutto, come il cinema classico abbia inteso ogni forma di racconto, anche bellico, in termini di puro melodramma.

 

Non è strano, allora, che la fantascienza di Interstellar sia soprattutto mélo, che parli di amore e sentimenti. Home is where the heart is, si dice per l'appunto. E nel film una casa sta all’inizio e alla fine del racconto, alla fine e all’inizio dell’universo. Non più l'uomo, come in Kubrick, ma una sua creazione; non più il ciclo della vita, ma la vita infinita del cuore.

 

 

Che poi il cinema americano abbia sempre avuto bisogno di una casa, anche questo lo sappiamo. E anche in questo caso sarebbe dovuto bastare un film, Sentieri selvaggi ad esempio, con quella porta aperta e poi chiusa a incorniciare il tutto. Ma nonostante questo – e anzi proprio per questo, perché quella casa è un’ossessione ripetuta, svilita, continuamente riformulata – si è andati avanti nella rappresentazione domestica, borghese e americana, del cuore e dell’animo umani.

 

 

Nolan una casa alla fine di tutto l’aveva già messa in Inception, e quel piccolo edificio a due piani, uno sprazzo di Midwest in mezzo a una metropoli fatiscente, era l’unica costruzione a restare in piedi nel crollo della città ideale del protagonista. La mente era una città, il cuore una casa, e dentro quella casa c’era una stanza, e dentro quella stanza un cassetto con al suo interno un piccolo oggetto, una trottola, che girava, girava e non smetteva mai di girare…

 

 

Tutto è curvo e tutto gira, nel cinema di Nolan, il tempo, lo spazio, le trottole, le astronavi, i campi da baseball in salita. Solo una cosa poggia su una superficie immobile e piatta: la casa, ovviamente. I film di Nolan sono costruiti come quelli di Sirk, a scatole cinesi, a matrioska, con lo spazio privato che viene a patti con lo spazio pubblico e l’affetto che si chiude nel guscio rassicurante di una stanza. La matrioska della memoria, però, collassa ogni volta nei pezzi che la compongono, conducendo a un luogo ogni volta più piccolo e ogni volta più grande. In Interstellar quel luogo è ancora un luogo nel luogo, una stanza dentro una casa, una libreria che segna la fine e l'inizio del film, la fine e l'inizio della vita.

 

 

Tutto torna, tutto si chiude circolarmente. Salvo che questa volta il film non si limita a girare come una trottola, ma mentre gira, va avanti, si moltiplica all’infinito. Il cuore si placa, ma la mente non si ferma; Kubrick incontra Spielberg, allora. E nella sequenza dell’universo a cinque dimensioni tutto questo viene rappresentato, è uno spazio ideale che si fa scenografia, casa e stanza; è quella stessa stanza che si ripete all’infinito per ogni pensiero o sentimento speso in una vita. E proprio qui, in questa connessione di spazio e tempo, di immagini e di idee, sta il senso dell’ossessione per la casa, il motivo per cui anche questa volta è valsa la pena sentirsi ripetere che home is where the heart is: perché il cinema americano è racchiuso in quella ripetizione infinita di un unico luogo, un movimento in avanti che paradossalmente non si muove mai, ogni volta uguale, ogni volta diverso.

 

 

Nolan realizza al cinema l’idea filosofica del principio di associazione, dell’immaginazione come associazione di idee, delle connessioni di immagini per somiglianza, contiguità spazio temporale e causalità. Il suo cinema, come la mente umana, è spinto da una forza che rappresenta quello che la forza di gravità rappresenta per la natura. E quella forza gravitazionale è il cuore, una «dolce forza», l’avrebbe chiamata Hume (lo stesso che diceva che spazio e tempo non sono impressioni, ma modi con cui le impressioni si dispongono dinanzi lo spirito…), «che comunemente s’impone, facendo che la mente venga trasportata da un’idea all’altra».

 

 

Interstellar è un film che dispone dinanzi a sé lo spazio e il tempo, che dà loro una forma e una ripetizione; e attraverso una stanza che sta per tutta la casa, che sta per tutto il cinema, dà una rappresentazione cinematografica alla dolce forza che s’impone», situandola all’inizio e alla fine della più seducente, ideologica, ossessiva forma di immaginazione contemporanea.

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