La decostruzione dell’espressione

24 Dicembre 2013

Anticipiamo un estratto dal nuovo numero di Riga Le scarpe di Van Gogh a cura di Riccardo Panattoni ed Elio Grazioli

 

“Le scarpe della contadina”

 

Inizieremo con una delle opere canoniche del modernismo avanzato nelle arti visive: il celebre quadro di Van Gogh che ritrae le scarpe di una contadina, un esempio che, come si può immaginare, non è stato scelto innocentemente o a caso. Voglio proporre due modi di leggere questo dipinto, che in un certo senso ricostruiscono entrambi la ricezione dell’opera in un processo in due fasi o su un duplice livello.

 

Innanzi tutto, vorrei osservare che, se quest’immagine abbondantemente riprodotta non intende scadere a livello di pura decorazione, bisogna ricostruire una qualche situazione iniziale da cui emerga l’opera finita. Finché questa situazione – che si è dissolta nel passato – non viene in qualche modo ricostruita mentalmente, il dipinto resterà un oggetto inerte, un prodotto finale reificato, e non potrà essere colto nella sua prerogativa di atto simbolico, come prassi e come produzione.

 

Quest’ultimo termine suggerisce che uno dei modi di ricostruire la situazione iniziale rispetto alla quale l’opera costituisce in qualche modo una risposta sta nel sottolineare i materiali grezzi, il contenuto iniziale che essa affronta, rielabora, trasforma e assimila. Direi che in Van Gogh questo contenuto, questi materiali iniziali grezzi siano da individuare semplicemente nell’intero mondo oggettuale della miseria agricola, della dura povertà rurale, e in tutto il rudimentale mondo umano della massacrante fatica contadina, un mondo ridotto al suo stato più brutale e fragile, primitivo ed emarginato.

 

In questo mondo, gli alberi da frutto sono bastoni antichi e spossati che spuntano dalla terra povera; i volti consunti dei contadini sono teschi, caricature di un’estrema tipologia grottesca di tratti umani elementari. Allora che succede in Van Gogh, se vediamo esplodere cose come quei meli in una superficie allucinatoria di colori, mentre il paese coi suoi stereotipi contadini trabocca all’improvviso di rossi e verdi sgargianti? La prima opzione interpretativa che vorrei proporre è che la deliberata e violenta trasformazione del grigio mondo oggettuale contadino nella più splendida materializzazione di puri colori del dipinto a olio va vista come un gesto utopico, quale atto di compensazione che finisce per generare tutto un nuovo utopico regno dei sensi, o almeno di quel senso supremo – la vista, il senso visivo, l’occhio – che per noi si ricostituisce ora nella sua prerogativa di spazio quasi autonomo, parte di una nuova divisione del lavoro nel corpo del capitale, di un’incipiente nuova frammentazione delle funzioni sensoriali che replica le specializzazioni e le divisioni della vita capitalistica nello stesso momento in cui cerca in quella medesima frammentazione una disperata compensazione utopica.

 

C’è sicuramente una seconda lettura di Van Gogh che difficilmente si può ignorare allorché si guarda questo dipinto in particolare, ed è l’analisi fondamentale che ne ha fatto Heidegger in Der Ursprung des Kunstwerkes, che ruota intorno all’idea che l’opera d’arte nasce nello scarto tra Terra e Mondo, termini che preferirei tradurre rispettivamente con materialità priva di significato del corpo e della natura, e attribuzione di significato della storia e del sociale.

 

Tornerò più oltre su questo particolare scarto; qui basti richiamare le frasi famose che modellano il processo mediante il quale queste scarpe contadine, ormai illustri, ricreano lentamente intorno a sé stesse l’intero mondo oggettuale perduto che un tempo ne costituiva il contesto vissuto. “Per le scarpe”, dice Heidegger, “passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale”. “Questo mezzo”, prosegue, “appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce [...]. Il quadro di Van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è [ist] in verità. Questo ente si presenta nel non-nascondimento [Unverborgenheit] del suo essere” tramite la mediazione dell’opera d’arte, che intorno a sé porta alla rivelazione tutto un mondo e una terra assenti, insieme al passo pesante della contadina, alla solitudine del sentiero nel campo, al casolare nella radura, agli strumenti di lavoro consumati e rotti nei solchi e vicino al focolare. La descrizione di Heidegger deve essere completata insistendo sulla rinnovata materialità dell’opera, sulla trasformazione di una forma di materialità – la terra stessa, i suoi sentieri, gli oggetti fisici – in quell’altra materialità di pittura a olio affermata e portata in primo piano per sua prerogativa e per quella delle emozioni visive; ma cionondimeno costituisce una lettura abbastanza plausibile.

 

“Diamond Dust Shoes”

 

In ogni caso, entrambe queste letture possono essere descritte come ermeneutiche nel senso che l’opera nella sua forma inerte, oggettuale, è considerata come l’indizio o il sintomo di una realtà più vasta, che si sostituisce a essa come sua verità ultima. Ora dobbiamo volgere lo sguardo a un diverso tipo di scarpe, ed è una fortuna poter ricorrere per quest’immagine all’opera recente di quella che è stata la figura centrale dell’arte visiva contemporanea. è evidente che le Diamond Dust Shoes di Andy Warhol non ci parlano più con l’immediatezza del paio di scarpe di Van Gogh: anzi, sarei tentato di dire che in realtà non ci parlano affatto. Nulla in questo quadro prevede un benché minimo spazio per lo spettatore, che se lo trova davanti svoltando nella sala di un museo o di una galleria con tutta la contingenza di un incontro con un inspiegabile oggetto naturale. A livello di contenuto, abbiamo a che fare ora con quelli che sono chiaramente dei feticci, in senso sia freudiano che marxiano (Derrida osserva da qualche parte, a proposito del Paar Bauernschuhe heideggeriano, che quel paio di scarpe di Van Gogh è eterosessuale, che non tiene conto né della perversione né della feticizzazione).

 

Qui tuttavia ci si trova di fronte a una raccolta casuale di oggetti morti, che pendono insieme sulla tela come altrettante rape, privati del loro precedente mondo vitale come il mucchio di scarpe rinvenuto ad Auschwitz, o i resti e i segni di un qualche incendio tragico e incomprensibile in una sala da ballo affollata. In Warhol, dunque, non c’è modo di completare il gesto ermeneutico e di restituire a questi resti l’intero, più ampio contesto vissuto della sala da ballo o della festa, il mondo del jet set e delle riviste patinate.

 

Andy Warhol, Diamond Dust Shoes

 

Ma ciò risulta ancora più paradossale alla luce di alcuni elementi biografici: Warhol iniziò la sua carriera artistica come illustratore pubblicitario di scarpe alla moda e come designer di vetrine in cui erano esposte soprattutto ballerine e altri tipi di scarpe da ballo. A questo punto, in effetti, si sarebbe tentati di trarre – troppo in anticipo – una conclusione importante sul postmodernismo e sulle sue possibili dimensioni politiche: in effetti l’opera di Andy Warhol ruota essenzialmente attorno alla mercificazione, e le grandi immagini da cartellone pubblicitario della bottiglia di Coca-Cola o della lattina di Campbell’s Soup, le quali portano esplicitamente in primo piano il feticismo della merce nel momento della transizione al tardo capitalismo, dovrebbero essere dichiarazioni politiche critiche ed efficaci. Se non lo sono, allora si vorrà certamente conoscerne il perché e ci si comincerà a interrogare un po’ più seriamente sulle possibilità di un’arte critica o politica nel periodo postmoderno del tardo capitalismo.

 

Tra modernismo avanzato e postmodernismo, tra le scarpe di Van Gogh e le scarpe di Andy Warhol, vi sono tuttavia altre differenze di rilievo, su cui è necessario soffermarsi brevemente. La prima e più evidente è la comparsa di un nuovo genere di piattezza, di mancanza di profondità, un nuovo tipo di superficialità nel senso più letterale del termine, forse il supremo aspetto formale di tutto il postmodernismo, sul quale avrò occasione di tornare in diversi altri contesti.

 

Dobbiamo poi sicuramente confrontarsi con il ruolo svolto dalla fotografia e dal negativo fotografico in questo genere di arte contemporanea, ed è proprio questo, in effetti, che conferisce all’immagine di Warhol la sua qualità mortuaria, la cui gelida eleganza da raggi x mortifica l’occhio reificato dello spettatore in una maniera che, a livello di contenuto, non sembrerebbe avere niente a che vedere con la morte, l’ossessione della morte o l’ansia della morte. è come se qui ci si ritrovasse davanti al capovolgimento del gesto utopico di Van Gogh: in quell’opera, per una specie di decreto e atto di volontà nietzschiani, un mondo prostrato viene trasformato nello stridore del colore utopico.

 

Qui, al contrario, è come se la superficie esterna e colorata delle cose – precedentemente degradate e contaminate dall’assimilazione alle brillanti immagini pubblicitarie – fosse stata strappata via per rivelare il mortuario substrato bianco e nero del negativo fotografico sottostante. Benché in alcune opere di Warhol, soprattutto nelle serie degli incidenti stradali e delle sedie elettriche, questa morte del mondo dell’apparenza venga tematizzata, non si tratta più, mi pare, di una questione di contenuto, bensì di una mutazione più profonda, sia nel mondo oggettuale – diventato ormai un insieme di testi o di simulacri – sia nella disposizione del soggetto.

 

Il declino dell’affetto

 

Quanto precede mi conduce alla terza caratteristica che intendevo sviluppare qui, ossia a ciò che vorrei chiamare declino degli affetti nella cultura postmoderna. Sarebbe certamente sbagliato sostenere che nella nuova immagine sia svanito ogni affetto, ogni sentimento o emozione, ogni soggettività. Anzi, c’è una specie di ritorno del rimosso nelle Diamond Dust Shoes, una strana forma di euforia compensatoria, decorativa, indicata esplicitamente dal titolo: si tratta ovviamente del luccichio della polvere d’oro, dello splendore della sabbia dorata che suggella la superficie dipinta e continua a brillare anche davanti a noi. Si pensi invece ai magici fiori di Rimbaud “Che ti guardano”, o al maestoso sguardo premonitore del torso greco arcaico di Rilke, che ammonisce il soggetto borghese a cambiare vita; niente di simile nella gratuita frivolezza dell’ultima patina decorativa.

 

Nell’esaminare il declino dell’affetto la cosa migliore forse è cominciare dalla figura umana. È ovvio che quanto si è detto a proposito della mercificazione dell’oggetto vale ancora di più per i soggetti umani di Warhol: le star – come Marilyn Monroe – che vengono esse stesse mercificate e trasformate nella propria immagine. E anche in questo caso un ritorno un po’ brutale al precedente periodo del modernismo avanzato offre una parabola vistosa e sintetica della trasformazione in questione. Il grido di Edvard Munch è ovviamente un’espressione canonica della grande tematica modernista dell’alienazione, dell’anomia, della solitudine, della disgregazione e dell’isolamento sociali, un emblema virtualmente programmatico di quella che un tempo si chiamava età dell’ansia. Qui non vorremmo leggerlo soltanto come l’incarnazione dell’espressione di quel tipo di affetto, ma piuttosto come una potenziale decostruzione della stessa estetica dell’espressione, che sembra aver dominato gran parte di quello che denominiamo modernismo avanzato e che invece – per ragioni pratiche e teoriche – sembra essere scomparsa nel mondo del postmoderno.

 

Lo stesso concetto di espressione presuppone infatti una scissione all’interno del soggetto, e con essa tutta una metafisica dell’interno e dell’esterno, la muta sofferenza all’interno della monade e il momento in cui quest’“emozione”, spesso in modo catartico, viene proiettata fuori ed esteriorizzata come gesto o grido, comunicazione disperata e drammatizzazione estrinseca di un sentimento interiore. E qui è forse opportuno dire qualcosa riguardo alla teoria contemporanea, che si è assunta, tra l’altro, l’impegno di criticare e screditare il modello ermeneutico dell’interno e dell’esterno, e di stigmatizzare tali modelli in quanto ideologici e metafisici. Io sostengo però che ciò che oggi viene chiamato teoria contemporanea – o, meglio ancora, discorso teorico – è esso stesso un fenomeno postmodernista. Sarebbe dunque contraddittorio difendere la verità delle sue intuizioni teoriche in una situazione nella quale lo stesso concetto di “verità” fa parte del bagaglio metafisico che il poststrutturalismo tenta di abbandonare. Quel che vorrei almeno suggerire è che la critica poststrutturalista dell’ermeneutica, di quello che sinteticamente chiamerò modello della profondità, torna utile quale sintomo estremamente significativo della stessa cultura postmodernista di cui sto parlando.

 

Possiamo dire, grosso modo, che accanto al modello ermeneutico dell’interno e dell’esterno sviluppato dal dipinto di Munch, ci sono almeno altri quattro fondamentali modelli della profondità che sono stati rifiutati nella teoria contemporanea: il modello dialettico dell’essenza e dell’apparenza (insieme a tutti i concetti di ideologia o falsa coscienza che tendono ad accompagnarlo); il modello freudiano del latente e del manifesto, o della repressione (che è evidentemente il bersaglio del pamphlet programmatico e sintomatico di Michel Foucault La volonté de savoir); il modello esistenzialista dell’autenticità e dell’inautenticità, le cui tematiche eroiche o tragiche sono strettamente legate all’altra grande opposizione tra alienazione e disalienazione, anch’essa vittima del periodo poststrutturalista o postmoderno; 4) e infine, ultima in ordine di tempo, la grande opposizione semiotica tra significante e significato, che è stata rapidamente chiarita e decostruita durante il suo breve apogeo negli anni Sessanta e Settanta. A sostituire questi diversi modelli della profondità e in larga misura una concezione delle pratiche, dei discorsi e del gioco testuale, di cui più avanti esaminerò le nuove strutture sintagmatiche; per ora basti soltanto osservare che anche qui la profondità è sostituita dalla superficie, o da più superfici (in questo senso, ciò che spesso viene chiamato intertestualità non riguarda più la profondità).

 

Né tale mancanza di profondità ha un carattere esclusivamente metaforico: può essere esperita fisicamente e “letteralmente” da chiunque, salendo quella che era la Bunker Hill di Raymond Chandler dai grandi mercati chicano su per la Broadway e la Quarta Strada del centro di Los Angeles, si imbatta improvvisamente nella grande parete senza appoggi della Wells Fargo Court (Skidmore, Owings e Merrill), una superficie che sembra non esser sostenuta da alcun volume, o il cui volume presunto – rettangolare, trapezoidale? – risulta pressoché indecidibile per i nostri occhi. Questa grande lastra bidimensionale di finestre, che sfida la gravità, trasforma per un istante il solido terreno sul quale poggiamo i piedi nelle proiezioni di una lanterna magica, sagome fittizie che si profilano qua e là intorno a noi.

 

L’effetto visivo è lo stesso da ogni lato: fatale quanto il grande monolito del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, che è posto di fronte agli spettatori come un destino enigmatico, come un richiamo alla mutazione evoluzionistica. Se questa nuova downtown multinazionale ha in effetti abolito il precedente tessuto urbano in rovina sostituendosi violentemente a esso, non si può dire qualcosa di analogo riguardo al modo in cui questa strana nuova superficie, alla propria maniera perentoria, rende in un certo senso arcaici e inutili i nostri vecchi sistemi di percezione della città, senza offrircene un altro al loro posto?

 

Euforia e auto-annichilimento

 

Ritornando ancora per un momento al quadro di Munch, sembra evidente che Il grido smonta sottilmente, ma in modo elaborato, la propria estetica dell’espressione, pur restandovi sempre imprigionato. Il contenuto gestuale del dipinto pone già in rilievo la propria insufficienza, dato che la dimensione sonora, il grido, le vibrazioni naturali della gola umana sono incompatibili con il suo mezzo espressivo (circostanza in una certa misura sottolineata, all’interno del quadro, dal fatto che l’omuncolo è privo di orecchie). Eppure il grido assente ritorna, per così dire, in una dialettica di onde e di spirali che si stringono sempre più strettamente verso quell’esperienza ancor più assente di atroce solitudine e di angoscia che il grido stesso avrebbe dovuto “esprimere”. Tali onde si inscrivono nella superficie dipinta sotto forma di grandi cerchi concentrici, che rendono infine visibile la vibrazione sonora, come sulla superficie di uno specchio d’acqua, in un regresso infinito che promana dal sofferente per diventare la vera e propria geografia di un universo, in cui è ora lo stesso dolore a parlare e vibrare attraverso il tramonto e il paesaggio concreti. Il mondo visibile si trasforma nella parete della monade su cui è registrato e trascritto “il grido che attraversa la natura” (Munch); viene in mente quel personaggio di Lautréamont che, essendo cresciuto in una membrana sigillata e silenziosa, la lacera con il proprio grido alla vista della mostruosità del divino e si ricongiunge così al mondo del suono e della sofferenza.

 

Tutto ciò suggerisce un’ipotesi storica più generale: concetti come quelli di angoscia e alienazione (e le esperienze cui corrispondono, come nel Grido) nel mondo del postmoderno non sono più adeguati. I grandi ritratti di Warhol – Marilyn stessa, o Edie Sedgewick –, i celebri casi di esaurimento e di autodistruzione dei tardi anni Sessanta e le grandi esperienze dominanti della droga e della schizofrenia sembrerebbero avere piuttosto poco in comune sia con gli isterici e i nevrotici dell’epoca di Freud, sia con quelle esperienze canoniche di isolamento radicale e solitudine, anomia, rivolta individuale, follia alla Van Gogh, che hanno predominato nel periodo del modernismo avanzato. Si può definire tale mutamento nella dinamica della patologia culturale come una sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato.

 

Questi termini richiamano inevitabilmente uno dei temi più in voga nella teoria contemporanea, quello della “morte del soggetto” – la fine della monade autonoma borghese, dell’ego o dell’individuo – e una parallela insistenza, da intendersi come nuovo ideale morale, oppure quale descrizione empirica, sul decentramento del soggetto o della psiche precedentemente centrati. (Fra le due possibili formulazioni di tale nozione – quella storicista di un soggetto centrato, proprio del periodo del capitalismo classico e della famiglia nucleare, che oggi, nel mondo della burocrazia organizzata, si è dissolto; e la posizione poststrutturalista, più radicale, per la quale un soggetto siffatto non è mai esistito se non in qualità di miraggio ideologico – io propendo ovviamente per la prima; la seconda deve in ogni caso prendere in considerazione una sorta di “realtà dell’apparenza”.)

 

Dobbiamo aggiungere che il problema dell’espressione è strettamente legato a una certa concezione del soggetto quale contenitore monadico, all’interno del quale le cose percepite vengono poi espresse mediante una proiezione all’esterno. Ma ciò che ora bisogna sottolineare è la misura in cui la concezione del modernismo avanzato di uno stile unico, insieme agli ideali collettivi di un’avanguardia artistica o politica che l’accompagnano, si regge o cade insieme a quell’altra vecchia nozione (o esperienza) del cosiddetto soggetto centrato.

 

Anche qui il quadro di Munch si impone come una complessa riflessione su una situazione complicata: ci mostra infatti che l’espressione esige la categoria di monade individuale, ma al tempo stesso ci mostra l’alto prezzo da pagare per quella precondizione, mettendo in scena il triste paradosso che, quando si costituisce la propria soggettività individuale come un campo autosufficiente e chiuso, ci si esclude da tutto il resto e ci si costringe alla cieca solitudine della monade, sepolta viva e condannata a una prigione senza uscita.

 

Probabilmente il postmodernismo segna la fine di questo dilemma, a cui ne sostituisce uno nuovo. La fine dell’ego borghese, della monade, comporta certamente anche la fine delle proprie psicopatologie, cioè quello che ho chiamato declino degli affetti. Ma ciò significa la fine di molte più cose: per esempio la fine dello stile, nel senso di uno stile unico e personale, la fine di un tocco individuale distintivo (simbolizzata dall’incipiente primato della riproduzione meccanica). Quanto all’espressione, ai sentimenti o alle emozioni, la liberazione, nella società contemporanea, dalla precedente anomia del soggetto centrato potrebbe implicare non solo una semplice liberazione dall’angoscia, ma anche una liberazione da ogni altro tipo di sentimento, dal momento che non si dà più un io che possa provarlo. Questo non vuol dire che i prodotti culturali dell’era postmoderna siano del tutto privi di sentimento, ma piuttosto che tali sentimenti – che sarebbe meglio chiamare più precisamente “intensità”, seguendo Jean-François Lyotard – fluttuano liberamente, sono impersonali e tendono a essere dominati da un particolare tipo di euforia su cui vorrei tornare alla fine di questo saggio.

 

Il declino dell’affetto potrebbe essere anche caratterizzato, nel contesto più ristretto della critica letteraria, come il declino delle grandi tematiche proprie del modernismo avanzato, vale a dire il tempo e la temporalità, i misteri elegiaci della durée e della memoria (che vanno intese pienamente come categorie della critica letteraria legate sia al modernismo avanzato che alle opere stesse). Si è detto spesso che noi viviamo oggi in una dimensione sincronica piuttosto che diacronica, e credo che almeno empiricamente sia possibile sostenere che la nostra vita quotidiana, la nostra esperienza psichica, i nostri linguaggi culturali sono dominati oggi da categorie spaziali più che temporali, a differenza di quanto accadeva invece nel periodo precedente del modernismo avanzato propriamente detto.

 

Traduzione dei Stefano Velotti (da Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo (1989), Garzanti, Milano 1989)

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