La cultura non è un'isola

7 Agosto 2013

La crisi economica in corso sta mettendo in luce i limiti delle politiche culturali perseguite sino ad oggi, un modello economico e ideologico che ha dirottato la maggior parte delle risorse, comunque storicamente esigue, verso la pura conservazione, al di fuori di circuiti virtuosi di messa in rete e di produzione culturale. L’eredità di tale impostazione è stata la prevedibile difficoltà per il settore di fronteggiare quella riduzione di finanziamenti esterni che oggi è più che mai preoccupante.
La presentazione della Relazione annuale 2011-2012 dell’Osservatorio Culturale del Piemonte lo scorso 5 luglio è stata un’occasione per riflettere su questo tema e individuare possibili scenari per il futuro, fondandosi su quei dati che restituiscono dell’economia. È infatti impossibile affrontare la questione considerando la cultura come momento autonomo e separato da ogni altra dinamica sociale, un’isola appunto, ed è per questo che sono stati invitati a contribuire al dibattito anche Annalisa Cicerchia di ISTAT e Maurizio Maggi di Ires Piemonte.

 

Il quadro economico

 

Il 50% dei piemontesi dichiara che la propria condizione economica è peggiorata nell’ultimo anno. Oltre alla naturale contrazione dei consumi, sono ormai in molti a trovarsi in difficoltà nella gestione del bilancio famigliare, tanto che il 29,7% ha problemi a pagare l’affitto e il 13,7% a fronteggiare le spese alimentari. In questo panorama, le difficoltà riscontrate a livello individuale si palesano anche a livello di sistema e non lasciano escluso alcun settore, in particolar modo le risorse destinate alla cultura attraversano un momento di estrema sofferenza e segnano una flessione del 22% in cinque anni. Si allarga oltretutto lo scarto temporale fra l’assegnazione dei fondi e la loro effettiva erogazione: le conseguenti criticità nella gestione dei flussi di cassa limitano la capacità di programmazione da parte degli enti e causano un accumulo di interessi passivi.

 

La cultura, d’altra parte, gioca un ruolo non marginale in termini di valore aggiunto e di occupazione. Secondo l’ultimo rapporto Symbola-Unioncamere, il comparto genera 6,4 miliardi di euro di valore aggiunto all’economia piemontese (5,8% del totale) e conta circa 121.000 occupati (6% del totale). Bisogna però precisare che si tratta di un dato aggregato che comprende anche le industrie culturali e le industri creative: performing arts e patrimonio contribuiscono marginalmente a questo risultato.
La cultura interessa ancora?

 

Come si pongono i cittadini di fronte a questa situazione? Quanto è radicato il bisogno di cultura?
L’indagine realizzata sul clima di opinione dei cittadini piemontesi realizzata da IRES Piemonte nel 2012 ha permesso di individuare quattro atteggiamenti dei piemontesi verso la cultura. La categoria dei sostenitori comprende il 58% del campione - dato assolutamente interessante – e vorrebbe un potenziamento dell’offerta culturale, ritiene la cultura un elemento strategico e importante per la definizione dell’economia del futuro e ritiene che debbano rimanere invariate le risorse pubbliche dedicate al settore; viceversa, poco più di un piemontese su 10 può essere considerato come vero e proprio antagonista che non riconosce interesse e valore alla dimensione culturale.

 

I dati ISTAT relativi ai consumi culturali in Italia mostrano tassi di non partecipazione molto alti, con un picco del 90% nel caso dei concerti di musica classica; anche i musei vengono visitati annualmente solo da poco meno del 30% dei cittadini. Confrontato con il dato nazionale il Piemonte non fa eccezione, anche se mostra performance leggermente migliori. Tuttavia, rileggendo le serie storiche e confrontando tra loro domanda (cioè il numero di ingressi e/o biglietti venduti per attività culturali) e partecipazione (ovvero il numero di persone che dichiara di aver avuto un consumo culturale specifico), notiamo un fenomeno interessante: se la partecipazione è rimasta pressoché invariata, la domanda è aumentata in modo significativo. Nel 1993, ad esempio, i musei piemontesi contavano 669.000 ingressi e il tasso di partecipazione dei cittadini era del 29,4%: venti anni dopo gli ingressi hanno raggiunto i 3,8 milioni con un tasso di partecipazione che è cresciuto solo di 6 punti in percentuale (35,6%). Questo fenomeno è dovuto ad una forte capacità di attrarre turismo culturale ma anche ad una maggiore propensione al consumo da parte del pubblico abituale, sempre più fidelizzato. In generale si sottolinea come la domanda culturale abbia tenuto nonostante la crisi; mentre sono stati poco efficaci  i tentativi di raggiungere nuovi pubblici.

 

Quali prospettive?

 

Il futuro dipenderà dalla scelta di nuove strategie di sviluppo durature e sostenibili, condivise a livello internazionale. Il modello di Europa 2020, secondo Maurizio Maggi, costituisce un ottimo punto di partenza, perché rivolto ad una crescita inclusiva e sostenibile, in cui la ricerca e la scolarizzazione sono assolutamente fondamentali. Il Piemonte ha iniziato ad adottare politiche di questo tipo, soprattutto con l’introduzione di un’agenda digitale che dovrebbe coinvolgere la pubblica amministrazione così come l’imprenditoria innovativa delle start-up. L’altro cardine è costituito dalla green society e ruota attorno al tema delle smart cities.

 

La cultura potrebbe chiaramente giocare un ruolo non secondario all’interno di un simile modello di sviluppo, a patto di abbandonare alcune posizioni di retroguardia e di seguire politiche strutturate. Il momento non è tuttavia dei migliori, poiché – come rilevato da Annalisa Cicerchia – mancano proprio i decisori, non esistono committenze che siano interessate a dirigere politiche culturali. Da dove partire, allora?

 

È evidente, innanzitutto, che la politica della conservazione perseguita negli ultimi decenni non è solo economicamente insostenibile ma talvolta ha trovato difficoltà a proteggere il patrimonio. Bisogna immettere i beni culturali all’interno di un circuito più ambio di fruizione e di gestione territoriale, un sistema che possa garantire la gestione economica, senza d’altra parte snaturare la loro vocazione o peggio ancora lasciare spazio alle speculazioni. Nuove forme di governance inclusive, aperte a partenariati strategici, devono coinvolgere differenti soggetti all’interno delle politiche gestionali (enti locali, amministrazioni centrali, imprenditoria, fondazioni bancarie…) senza limitarsi, come oggi, ad intercettare fondi. È necessario più che mai individuare obiettivi guida a partire dalla reale domanda del pubblico – che spesso eccede la semplice fruizione del bene -, dal welfare, dall’occupazione e dalle politiche di sviluppo locali. La cultura non può vivere al di fuori della società: in quest’ottica va letta la strategia dell’Unione Europea, che ormai sempre più di rado eroga fondi ad attività culturali stricto sensu. La cultura può essere – e deve imporsi – come uno dei motori dello sviluppo e della rigenerazione urbana, creando economie e occupazione. Soprattutto non può fare a meno di aprirsi realmente alle industrie creative e culturali, tema tanto dibattuto ma che in Italia non si è mai concretamente realizzato; pensiamo, ad esempio, a quanto i servizi multimediali dei musei potrebbero trarre dall’industria del gaming. La sostenibilità economica è dunque il primo obiettivo, che non può prescindere da una profonda revisione delle policies tradizionali.

 

L’altro tema scottante è quello del pubblico: purtroppo, nonostante tutti gli sforzi messi in opera fino a ad oggi, la maggior parte della popolazione non partecipa. La democratizzazione della cultura su base quantitativa, come spesa pubblica riversata nel settore, si è dimostrata inadeguata. I programmi di audience development devono partire dall’ascolto del pubblico, anche attraverso le nuove tecnologie, e soprattutto superare quella barriera che separa cultura alta e cultura bassa. Dal web provengono infatti contenuti e prodotti culturali che coinvolgono un numero sempre maggiore di persone, fruitori di cultura anche se al di fuori delle forme canoniche. Non includere questo pubblico significa perdere quella spinta all’innovazione e alla creatività che da sempre caratterizza la cultura, se riconosciuta come qualcosa di differente da un mero lascito del passato. Creative Europe propone infatti interventi per lo sviluppo di imprese creative, che sappiano proporsi come incubatori di contenuti e commercializzarli con un decisivo impatto sul pubblico.
La sfida per la cultura è quella di riuscire ad inserirsi all’interno delle dinamiche di uno sviluppo sostenibile, orientandosi ad una progettualità che sia economicamente virtuosa e in grado di rispondere ai bisogni sociali.

 

Simone Seregni per Osservatorio Culturale del Piemonte

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