La Capria, lo scrittore del senso comune

28 Giugno 2022

Raffaele La Capria avrebbe amato essere definito come lo scrittore del senso comune. Avrebbe preferito che si fosse detto “common sense”, nella versione inglese, la lingua con cui conversava in gioventù con l’amico americano William Fense Weaver, sbarcato a Salerno da militare nel 1943, presto arruolato nella vivacissima redazione della rivista napoletana “Sud” accanto a Pasquale Prunas, Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Gianni Scognamiglio, Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio e quindi innamoratosi dell’Italia stabilendo intensi rapporti con Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Patroni Griffi. “Riferirsi al senso comune – ha spiegato La Capria – significa sforzarsi di ristabilire un certo equilibrio tra la cosa e il senso che la percepisce, in modo da non sentirsi da essa separato, separato da quella sensibilità che appartiene a tutti fondamentalmente, e anche se distribuita in dosi diversi, è da tutti condivisa”. 

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Per elaborare questa convinzione aveva recuperato l’affermazione di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, pubblicate postume nel 1953: “La filosofia a questo deve servire, ad aiutare la mosca ad uscire dalla bottiglia”. Di suo Raffaele La Capria aveva aggiunto alla riflessione dell’autore del Tractatus logico- philosophicus che “a me sembra che una mosca per uscire dalla bottiglia debba sapere come è fatta la bottiglia. Solo così potrà imboccare il collo della bottiglia e volarsene via, libera nell’aria”. Avvertendo inoltre che “sapere com’è fatta la bottiglia quando uno ci sta dentro è una scienza molto complessa e richiede innanzitutto la consapevolezza di essere prigionieri nella bottiglia – cosa che tutti riconoscono. E poi richiede immaginazione, molta immaginazione”. Un piccolo, importante, raffinato ed eloquente brano fondante di una sorta di tractatus logico-letterario: che se formalmente non esiste, nella sostanza di può ritrovare nell’intera opera di La Capria. Una summa che avrebbe meritato il titolo.

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Perché ora che lo scrittore con la cui fine termina una stagione della letteratura italiana, il grande ed eterno ragazzo incontrato da Enzo Golino, l’autore di False partenze, di Un giorno d’impazienza, di L’armonia perduta e, tra i tanti altri titoli, appunto de La mosca nella bottiglia che se è andato alla vigilia del suo centesimo compleanno – sarebbe caduto il prossimo tre ottobre e nei pressi del secondo anniversario della morte della sua amatissima Ilaria Occhini, il 20 luglio del 2019 – si può dire che l’intero suo percorso intellettuale sia stato segnato da questo tentativo. Cioè che – lo dice bene Raffaele Manica nell’accompagnare il prezioso volumetto dello scrittore napoletano Introduzione a me stesso – abbia voluto affermarsi come “un esploratore delle sue intenzioni” riposte in romanzi, racconti, saggi e articoli da considerare nella dimensione di pagine di un densissimo taccuino di viaggio: per delineare il significato dei suoi testi e parallelamente compiere una ricognizione del destino di colui che li ha scritti. 

  Un procedimento mosso da due forze convergenti nello spazio in cui la letteratura riesce a recuperare il suo valore di autentica impresa cognitiva, stabilendo – ancora con Manica – “un punto di vista conoscitivo che si attua attraverso il ricorso a quella che Goffredo Parise chiamava alla logica elementare, opponendola alla pratica dell’astrazione concettuale, la logica ideologica”. Per arrivare ad affermare che il mondo e la realtà non costituiscono la questione di sostanza: al contrario, il tema è “la consapevolezza che ne abbiamo, o meno”. E per raggiungerla occorre stabilire la misura e il limite, vestire l’abito della laicità e ricostruire la naturalezza del gesto, la semplicità e la chiarezza che si fa cifra, la ricerca dell’artificio ben riuscito che è quello prodotto da “l’artificio di chi non vuole esibire l’artificio”: da Lo stile dell’anatra – ulteriore titolo sulla sua linea saggistica – che si affanna a muovere le zampe sott’acqua per acquisire la postura dell’ineffabile immobilità quasi zen in superficie e così dirigersi alla sorgente dove l’acqua è più chiara e meno turbata.  

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Dove potersi tuffare. Nell’eleganza ginnica dei leoni al sole, la meglio giovinezza fissata dal film di Vittorio Caprioli del 1961 tra Napoli, Positano e Capri, la perfezione dello slancio e la nettezza dell’impatto in mare come nel Tuffatore della tomba decorata di Paestum, una delle immagini mentali in cui si sarebbe ben riconosciuto. Il mare di Palazzo Donn’Anna, l’edificio di pescatori, fantasmi e inquilini della buona borghesia napoletana dove era nato, l’universo favolistico di Colapesce, il mondo come acqua, come spiega Silvio Perrella nel saggio che introduttivo al Meridiano Mondadori a lui dedicato nel 2003: la scena che apre Ferito a morte, dove le ansie di Un giorno d’impazienza esplodono nel tentativo di Massimo di catturare la spigola, “Quell’ombra grigia profilata nell’azzurro”, la Grande Occasione che presto si rileva la Grande Occasione Mancata, consegnando una straordinaria metafora non soltanto nelle rincorse all’amore ma anche – se non soprattutto – alla tensione sconfitta di un cambiamento: individuale e collettivo, con le maiuscole che staranno a indicare una condizione quasi metafisica del vivere a Napoli.

Per Raffaele La Capria, anche quella della città si imponeva come un’immagine mentale. Nel suo ultimo libro, tautologicamente titolato Napoli è Napoli – che cos’altro potrebbe essere? – e realizzato da Silvio Perrella e Lorenzo Capellini in omaggio al suo compleanno, lui rivela: “Per me Napoli, l’immagine mentale che ne ho, non è soltanto quella della città, ma è sempre inseparabile dalla sua cornice naturale. Non c’è città al mondo, tranne forse Rio de Janeiro, che contenga più natura di Napoli. E perciò le sue strade nere di folla e l’aggrovigliato gomitolo dei vicoli del suo centro storico sono stati sempre collegati nella mia immagine alla Napoli-marina, alla Sirena Partenope che si distende nel Golfo ai piedi del Vesuvio, tra le isole e le penisole azzurre. Sotto le amene apparenze Napoli è stata sempre, per me, Natura primordiale e indomabile in contrasto con una plurisecolare Storia irredimibile; e questo contrasto è assurto in me a valore di simbolo, è una chiave interpretativa per capire meglio la città, e il mio rapporto con essa”. 

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Un relazione di poetico litigio, di cui si colgono le ondulazioni nel complesso del suo catalogo, dall’esordio con Un giorno d’impazienza del 1952, poi con Ferito a morte che nel 1961 gli fece vincere il Premio Strega, quindi con le raccolte di racconti, i frammenti di una biografia letteraria in False partenze nel 1974, il fondamentale L’armonia perduta nel 1984 e La neve sul Vesuvio nel 1988, Letteratura e salti mortali nel 1990, Capri e non più Capri nel 1991, L’occhio di Napoli nel 1994, La mosca nella bottiglia nel 1996, Lo stile dell’anatra nel 2001, L’estro quotidiano nel 2005 – vincitore del premio Viareggio –, fino al Fallimento della consapevolezza nel 2018: il posto delle fragole alla Ingmar Bergman, il luogo delle origini, la città delle false partenze e della diaspora che coinvolse lui e tanti altri, l’osservatorio dove attraverso il salto mortale della letteratura arrivò a cogliere in autori come Jean-Paul Sartre, T.S. Eliot, Jean Cocteau,  Wystan Hugh Auden un orizzonte più ampio in cui collocarsi. Il romanzo europeo che nasce a Napoli. 

Comunque la Napoli dello scempio urbanistico laurino di Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi del 1963 che lui sceneggiò per rivoltarne l’autorappresentazione ammantata da colore locale, folclorismo, stereotipi, la cartolinesca napoletaneria che annienta la napoletanità: l’epica della Bella Giornata sfumata nella Grande Recita e smontata in L’armonia perduta. Quando La Capria si propone di descriverla ricorre ancora al paradigma della mosca dalla bottiglia e dichiara che “la mia bella giornata doveva essere una giornata qualunque, una di quelle lunghe tranquille giornate estive simili al trascorrere di una nuvola sull’azzurro indifferente del cielo, dove non accade proprio nulla di rilevante, ma nella mia descrizione doveva corrispondere a tutte le belle giornate qualunque, e dunque contenerle tutte, catturarne il tempo (che ne fa la qualità e le accomuna) e poi i suoni i colori le voci l’aria e “quel vento che ti sfiora, e mai, mai più ripasserà”, come ha scritto Ungaretti”. 

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È il senso comune che ha tolto le maiuscole alla caccia di Massimo, e il “certo ordine” che regola la percezione dell’immagine primaria, la vita che è ciò che accade mentre ci occupiamo d’altro. Raffale La Capria in Napoli è Napoli racconta che una mattina a Napoli si ritrovò in via Caracciolo a osservare il mare. “Il panorama che sto contemplando – pensai – è forse all’origine dell’idea che ho adottato di me stesso. Io mi penso così, all’interno di una cornice protettiva che mi difende dal mondo e mi solleva da ogni responsabilità che oltrepassi la mia vita personale. Anche se so benissimo che lì fuori, nel vasto mondo, ci sono tante cose che per quieto vivere preferisco ignorare”.

Tratteggiò così, in una immagine che non poteva non essere mentale e quindi dalle eccezionali capacità metaforiche di comprensione della realtà, la problematicità della condizione di chi a Napoli vive: trovarsi, cioè, in una sorta di acquario ed essere prigionieri dell’autoreferenzialità, del “moto incessante che non è un vero movimento ma un modo nevrotico per star fermi”, di una circolarità viziosa che ferma il tempo del mondo per assumere la cronologia propria come unica e fondamentale. Ci sarebbe voluta la mano possente di un Nume a rimuovere il profilo di quell’orizzonte protettivo, la linea di quell’infinito leopardiano: un dio che, tolta dal quadro visivo l’isola di Capri e spostato il braccio della penisola sorrentina, consentisse ai napoletani di osservare “il mare aprirsi sopra uno spazio interminabile affollato di popoli, lingue e nazioni, di cieli acque e terre diverse toccate però dallo stesso mare che tocca le loro rive. Uno spazio immenso dove essi sarebbero chiamati inevitabilmente dalla forza delle cose, l’immenso Sud del Mezzogiorno, il Sud di cui Napoli è il Nord”.

Lui non lo sapeva, ma in queste parole c’è la sua lezione, il suo lascito ereditario.

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