Una vita / Julian Barnes, L’unica storia

16 Gennaio 2019

L’unica storia è un romanzo strano. Un romanzo che per certi versi crea delle aspettative e le disattende. Il concetto centrale del racconto è chiaro sin dalla prima pagina. Nella vita abbiamo tutti una sola storia da raccontare. Tra i tanti avvenimenti che attraversano un’esistenza spicca però una sola narrazione, l’unica che conti davvero, l’unica che, in qualche modo, meriti di essere raccontata. La storia di Paul è dettagliata e puntuale. Il suo racconto è realistico, approfondito in ogni aspetto. Il dolore non è temuto, la mistificazione, bandita. Siamo agli antipodi della Trilogia della città di K, in cui la Kristof definisce la finzione letteraria l’unico modo per proteggersi dall’inevitabile dramma dell’esistenza. Barnes il dolore lo prende a testate, lo guarda negli occhi. Fermo, dignitoso, mai scomposto. Veritiero in ogni dettaglio. 

 

L’unica storia è quella di Paul, studente diciannovenne. Borghese, annoiato, irriverentemente intelligente. Sono arrivate le vacanze estive ed esasperato dal tedio umidiccio e masturbatorio del suo far niente in un ipocrita sobborgo londinese degli anni ’60 – villette, siepi curate, partite di cricket e circoli del tennis – decide, sotto consiglio della madre (ansiosa di vederlo fidanzato con una brava ragazza), di iscriversi a un torneo di doppio. Fino a questo punto le suggestioni cinematografiche nella mente del lettore si sprecano, da Il laureato o al più recente Call me by your name, è immediatamente chiaro dove il racconto andrà a parare. Qui avviene il primo depistaggio perché il lettore si prepara a una succulenta e perché no, piccante, iniziazione sessuale. La compagna che gli è riservata non è infatti una graziosa studentessa, ma Susan Macleod, che ha circa l’età di sua madre. Una donna intelligente, ironica, di una vitalità contagiosa. 

 

Allora, a quale termine ricorrereste, oggi come oggi, per definire il rapporto fra un ragazzo, un quasi uomo di diciannove anni, e una donna di quarantotto? Magari a una di quelle espressioni da rotocalco, tipo la pantera con il suo toy boy? Ma al tempo appellativi simili non circolavano ancora, sebbene la gente anticipasse nella pratica l’invenzione del nome. O forse potreste pensare: roba da romanzo francese, la donna più grande che rende il giovane edotto in materia di arte amatoria, uh là là. Invece non c’era niente di francese nella nostra relazione, né in noi due. Eravamo due inglesi e disponevamo perciò soltanto di parole inglesi grondanti moralismo, parole come donna di facili costumi o adultera. 

 

Opera di Ron Hicks.


Nessuno dei consueti stereotipi che il lettore si aspetterebbe si concretizza. Paul e Susan sono entrambi figli di un’Inghilterra conservatrice. La loro è sì, un’iniziazione sessuale, ma non a senso unico. Entrambi si scoprono e si svelano all’altro e a se stessi attraverso l’amore. Forse sarebbe meglio definirla un’iniziazione sentimentale, se non addirittura esistenziale.

In un racconto così ricco di dettagli, di sensazioni eccellentemente descritte nella profondità di ogni sfumatura, stranisce la totale (voluta) mancanza di certi passaggi. 

 

Non ricordo il nostro primo bacio. Strano no? Ricordo i punteggi 6-2; 7-5; 2-6. Ricordo in ogni schifoso dettaglio le orecchie del vecchio automobilista. Ma non riesco a ricordare dove o quando ci baciammo la prima volta, chi dei due fece la prima mossa, né se fu un’iniziativa di entrambi.

 

La narrazione è scandita dal ritmo soggettivo dei ricordi, a volte nitidi, a volte lacunosi e carenti. Stilisticamente colpisce la tripartizione della storia. Nell’iniziale “presa diretta” dell’adolescenza, trionfa la prima persona. La scrittura si fa metafora dello straripante “io” adolescenziale, di una vitalità incontenibile, eccitata, commoventemente confusa. La seconda parte è connotata dallo sguardo esterno di un tu ideale. La terza sezione da una terza persona più oggettiva e impassibile; il narratore della maturità.

 

Paul e Susan fuggiranno a Londra. Attorno a loro vorticheranno le presenze del marito violento di Susan, delle sue due figlie coetanee di Paul, dell’eccentrica ma saggia amica Joan. Ancora una volta a dispetto delle aspettative, nella coppia, sarà Susan a rivelarsi più fragile, a scomparire gradualmente nel vizio dell’alcol, a invecchiare tristemente divorata dalla demenza, perdendo giorno per giorno tutto il suo perturbante dinamismo.

Ma questo amore è l’unica storia da raccontare, l’unica esperienza capace di dare vita a un processo ordinatorio poiché la vita di Paul ha senso dal momento che per una parte è stata accompagnata da quella di Susan. Per Paul, questo amore, è una missione.

 

Perfino adesso, in questa fase avanzata e senza speranza del rapporto, conservi la certezza che la tua vita sia più interessante a livello emotivo di quella dei tuoi amici […] per il momento incassano giusto le pallide gioie, i sogni assennati e le vaghe frustrazioni di giovani uomini sulla ventina che si accompagnano a giovani donne della stessa età. E tu invece? Eccoti qui, nella sala d’attesa di un ospedale, circondato da un branco di matti e innamorato di una donna potenzialmente definibile matta a sua volta. E la cosa veramente strana è che una parte di te trova tutto ciò esaltante. Ti dici: non solo ami Susan più di quanto quelli amino le proprie ragazze e deve essere così per forza, altrimenti non saresti seduto in mezzo a tutti ‘sti matti ma fai proprio una vita più interessante.

 

Ma allora, a cosa serve questa narrazione che non accontenta il lettore nel racconto degli snodi più ovvi e voyeuristici dell’amore, ma che perde tempo nel descriverci le bellissime orecchie di Susan o i trucchetti che la donna utilizza per nascondere il suo eccessivo uso di alcol? Narrare non serve a evitare il dolore ma a riviverlo, forse a capirlo. Narrazione come espiazione? Come catarsi? Credo nulla di tutto questo. All’inizio del romanzo l’autore interroga direttamente i lettori chiedendo: “che cosa preferireste, amare di più e soffrire di più; o amare di meno e soffrire di meno?”. Ed è proprio qui il punto della questione; perché nell’opera di Barnes la storia d’amore è la storia attorno alla quale si sviluppa una vita, in tutta la sua drammaticità e in tutti i suoi entusiasmi; una vita che verrà poi riscritta e rivissuta con gli occhi di un ragazzo, poi di un uomo, poi di un vecchio. Una vita che è strettamente connessa con il racconto che si fa di essa, con il mestiere di scrivere. Barnes infatti lavora molto sulle parole, trovare quelle giuste, come quando nell’estratto citato un po’ di righe fa, non riesce a definire (con il gergo corrente dell’epoca) il rapporto tra i due amanti. Scrittura come ricerca di senso, come definizione, messa a fuoco. Raccontare una storia perché l’unica possibile, riprendere in mano l’esistenza e capovolgerla, riannodarla, sviscerarla, o a volte semplicemente cullarcisi in preda alla malinconia. 

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