Italia 1982: l’estate incredibile

11 Luglio 2022

Il 29 giugno del 1982 entrò in casa nostra il primo televisore a colori, un Saba. Lo portarono mio padre e mio zio: ricordo lo scatolone che pareva immenso, e i due fratelli che – doveva essere più o meno l’ora di pranzo – si industriavano per metterlo in funzione prima che arrivasse il pomeriggio. L’antenna da collegare, il telecomando con quei grossi tasti, il primo che vedessimo da così vicino. Passare da Rai 1 a Rai 2 senza doversi alzare a girare la manopola del Telefunken precedente, oggetto luminoso, che avevamo amato, ma da quelle ore condannato al riposo perenne, forse relegato per qualche tempo in una stanza minore e poi abbandonato per sempre.

Mio zio, abile elettricista fu nominato esperto della cosa tecnica e perciò eventuale responsabile di ogni malfunzionamento. Osservavo lui e mio padre con sguardo (temo) ansioso e trepidante, ma tutto andò per il verso giusto. Nel pomeriggio si sarebbe giocata Italia-Argentina, sarebbe finita 2-1 per noi (sì, quando hai undici anni puoi ancora dire cose come “per noi”) e il bianco e nero avrebbe lasciato l’estate e, apparentemente, anche le nostre vite. Per paradosso, quel pomeriggio, alle 17.15, né mio padre né mio zio poterono guardare la partita, la ascoltarono alla radio. Italia-Argentina la vidi da solo, a colori, mi sembrava di essere grande, di crescere di minuto in minuto, a ogni fallo che gli italiani facevano a Maradona; non si trattò di una questione tra lui e Gentile, ma tra lui e chiunque.

Diego era già il più forte di tutti, ma non lo sapevamo, forse al tempo lo sapeva solo lui, e comunque non mi riguardava, non era ancora il mio Diego, quello che sarebbe venuto a Napoli due anni dopo, era solo un argentino troppo forte perché gli fosse concesso di arrivare vivo al pallone. Crescevo e impazzivo al gol di Tardelli, diventavo enorme al tiro di Rossi (Paolo ma segnerai prima o poi?) respinto da Fillol, e poi davanti a Bruno Conti che recuperava palla e sulla linea di fondo metteva a sedere il portiere argentino, prima di appoggiare all’indietro a Cabrini, che avrebbe calciato in maniera perfetta di sinistro, segnando il secondo gol. Quei due gol (per l’Argentina segnò, inutilmente, Passarella a pochi minuti dalla fine), i primi a colori della mia vita, trasformavano lo sconforto delle prime tre partite in qualcosa che somigliava alla speranza; questo valeva per gli adulti, non per me.

A undici anni speri anche quando la tua squadra gioca in maniera orrenda con Camerun, Perù e Polonia. Ora, a distanza di pochi giorni, quei tre pareggi insulsi – che fecero gridare allo scandalo, e a levare un coro pressoché unanime di disprezzo nei confronti della squadra e, soprattutto del Commissario Tecnico Enzo Bearzot – sfumavano nel bianco e nero del televisore precedente, appartenevano al passato, termine quest’ultimo che qualche volta può assumere significati meravigliosi. Il girone di qualificazione era il bianco e nero, una roba da anni Settanta, da terrorismo, da crisi petrolifera, la partita con l’Argentina e quella con il Brasile che si sarebbe giocata qualche giorno dopo – il 5 luglio – erano l’estate a colori, gli anni Ottanta che sembravano pieni di promesse, di nuove illusioni (che sarebbero crollate più avanti, ma non in quei giorni caldi e luminosi).

Che squadra era la nostra? Che settimane erano? Ricordiamo la testardaggine di Bearzot e la sua capacità di vedere le cose, squarci di futuro. Enzo Bearzot che aspetta Rossi a dispetto di tutti, lo aspetta prima del mondiale e dopo le prime tre disastrose partite: un centravanti fermo da due anni, sotto peso, che appare spento. Bearzot che lascia a casa Pruzzo e Beccalossi, che litiga, ricordiamo la storia dello schiaffo alla ragazza, quello che forse non tutti sanno e che anni dopo Bearzot fu invitato dalla stessa ragazza al proprio matrimonio. Bearzot caparbio che aspetta Bettega fino alla fine e poi porta Selvaggi, che sa che non si muoverà dalla panchina. Bearzot e la Nazionale che hanno tutti contro, i tifosi, gli osservatori, ma soprattutto la carta stampata. Marco Tardelli, in Italia 1982 – Una storia azzurra (documentario diretto da Coralla Ciccolini, in sala da oggi fino al 13 luglio), afferma «Eravamo noi, soli, eravamo contenti di stare insieme».

Nello stesso documentario Collovati e Bruno Conti parlano di Bearzot come un padre, l’uomo che li aveva cambiati. Anche i migliori giornalisti come Gianni Brera e Giorgio Tosatti, anche scrittori grandiosi come Giovanni Arpino attaccavano e non avrebbero scommesso una lira sulla sorte di Bearzot e dei suoi calciatori e nessuno lo fece. All’allenatore e ai calciatori fu detto di tutto, cose tremende, ci furono insulti, accuse gravissime, offese pesanti e personali che nulla hanno a che fare con lo sport. La nazionale si chiuse nel silenzio stampa più famoso della storia del calcio. Nella quiete del ritiro, sull’autobus prima delle partite girava la cassetta con La voce del padrone di Battiato, che Conti rubò a Cabrini, Cuccurucucù diventò la canzone della squadra.

Tardelli e Gentile

Mio padre aveva previsto che perdessimo sia con l’Argentina che con il Brasile, non me lo diceva apertamente, sapeva che io volevo solo la prossima partita, godermi quel primo Mondiale in piena libertà, con la scuola finita, guardarmi tutti gli incontri, completare l’album di figurine che mi aveva regalato e aspettare che Paolo Rossi (che adoravo, nonostante non avesse voluto – si diceva – giocare nel Napoli) segnasse. Quattro anni prima avevo sette anni e avevo visto qualche spezzone di partita, data anche la differenza di fuso orario con l’Argentina, nazione dove si giocava quel campionato manomesso dalla dittatura di Videla. Ricordavo un gol di Bettega, uno di Rossi, la forza di Mario Kempes e poco altro. Adesso, a colori, era il mio Mondiale, e nessuno mi avrebbe impedito di sognare, e, perché no, di pensare che lo si potesse vincere, in qualche modo.

In qualunque modo. Dopo la partita con l’Argentina, Bearzot – appassionato di jazz, lettore di classici, uomo arguto e paziente – intuì che il vento stava cambiando, così Gianni Brera, che era più intelligente di altri, a un certo punto fiutò qualcosa, Tosatti invece perseguì con il suo errore di valutazione fino alla fine. 

Spagna ’82 è un torneo letterario sia per come si svolse, sia per come andò a finire, e poi perché (cosa che forse oggi non sarebbe ripetibile) al seguito della Nazionale italiana c’erano scrittori come Giovanni Arpino, Oreste Del Buono, Mario Soldati e giravano molti libri: Claudio Gentile leggeva Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, regalatogli dal giornalista Darwin Pastorin. Marco Tardelli, la notte prima di Italia-Brasile leggeva La suora giovane di Arpino (ironia della sorte).

La letteratura poi era destinata a prendere possesso del Sarria di Barcellona e a trasformare una partita di calcio, che – a detta di quasi tutti – sarebbe stata un massacro per gli italiani e un trionfo per i brasiliani, in un racconto meraviglioso che fece impazzire un ragazzino di undici anni e due suoi amici Gregorio e Gianguido. Comparve quel 5 luglio nelle nostre vite, in tutta la sua magnificenza e transitorietà, la parola felicità. Eravamo felici e forse ci abbiamo fatto caso.

In quella seconda fase si erano formati gironi da tre squadre (regola poi cambiata dal 1986 in avanti), il classico girone all’italiana, che proprio per gli azzurri doveva essere quello della morte. Il Brasile sconfisse l’Argentina per 3-1, perciò tutto si sarebbe deciso nella partita tra i carioca e gli azzurri. Alla squadra più forte del mondo – una delle più forti di tutti i tempi – sarebbe bastato un pareggio per via della differenza reti, l’Italia era obbligata a vincere. 

Passavamo le ore in cui non c’erano partite in tv a replicarle noi, giù in strada, e ricordo la mia fissazione per due calciatori Marco Tardelli e Bruno Conti, forse i migliori di tutto il torneo, e poi una diversa ossessione, minore e nascosta, per Paolo Rossi. Romanticamente ero d’accordo con Bearzot: Rossi era Rossi, ma capivo mio padre che non si spiegava l’assenza di Pruzzo, uno che la metteva dentro sempre. Mio padre che diceva «almeno metti Altobelli, cambia qualcosa», niente da fare io e Bearzot eravamo testardi, Rossi doveva restare in campo, avrebbe segnato.

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Qualche settimana prima l’allenatore del Brasile, Santana, rivolto a Cerezo, Falcao, Sócrates e Zico, disse: «Voi quattro da ora vivrete insieme a centrocampo», e raramente si sono visti quattro giocatori di tale talento giocare insieme lungo la linea mediana, giocare in quel modo, accarezzare la palla col pallone, ballarci sopra, ruotare, fintare, inventare, di nuovo ballare. Tutto molto bello, ma non bastò, non quel giorno, in cui come ebbe a dire Zico, più avanti, nulla sarebbe bastato. Il numero dieci brasiliano disse che se il Brasile avesse segnato 5 gol l’Italia ne avrebbe fatti sei. Era scritto nel destino, negli spogliatoi, sull’erba del Sarria, nei piedi di Paolo Rossi.

Le scelte di Bearzot sono fatte, le scelte di Santana pure. L’Italia non marca a uomo, fa una prima zona mista, l’Italia vuole vincere. Dopo cinque minuti segna Paolo Rossi su cross di Cabrini, dopo che Conti dall’altra parte ha dribblato chiunque. Eccolo Rossi, eccolo, il ragazzino e l’allenatore lo sapevano. Da quel momento Pablito non si ferma più. La partita è bella e equilibrata, Zico fa un gran numero e mette Sócrates davanti a Zoff, palla sul primo palo, è pareggio. Il momento che ho sempre ritenuto decisivo della partita è quello del secondo gol di Rossi, Tutti parlarono e parlano di Cerezo che sbagliò l’appoggio, ma tutti dimenticano Paolo Rossi che stava tornando verso la metà campo e che a un certo punto si volta, come se sentisse qualcosa nell’aria – una sorta di richiamo, un soffio di vento, o vai a sapere cosa – così come tutti dimenticano gli altri brasiliani che si addormentarono e di Rossi che arriva sul pallone, si beve Júnior e segna dal limite dell’area.

La partita credo che si sia vinta lì. Cerezo immagino non si sia mai perdonato quel passaggio, che non glielo abbia perdonato nessuno, è sempre bene trovare un colpevole. Il Brasile era la squadra più forte del mondo e alla fine di quel pomeriggio sarebbe stata rimandata a casa, nonostante il pareggio bellissimo di Falcao, prima che arrivasse il terzo gol di Paolo Rossi che fece diventare matti tutti noi e urlare di gioia il telecronista Nando Martellini, prima che Zoff – all’ultimo minuto – parasse sulla linea di porta un colpo di testa di Oscar. Tanti piccoli miracoli in un miracolo più grande.

Gianguido e Gregorio ballavano davanti al televisore e intorno al tavolo, io forse rimasi seduto impietrito dalla gioia che ci avevi colti all’improvviso. Ero andato oltre la mia capacità di sognare e non sapevo come prenderla. Sono uscito sul balcone, il mio vicino – caro amico di famiglia – Pasquale fumava e piangeva a dirotto, non riusciva a smettere e ripeteva come un mantra “Nun ce credo”. E invece era tutto vero, da quel pomeriggio nessuno avrebbe più potuto impedire all’Italia di vincere i Mondiali. I caroselli con le auto partirono e non si fermarono più, sfilavamo tutti, perfino mia madre che a stento distingueva l’Italia “i nostri” dalle altre squadre. Sarebbero venuti tempi migliori, ci stavamo credendo, ci stavamo sbagliando.

In Brasile non hanno mai dimenticato quella sconfitta perché ha posto fine a una filosofia di gioco spensierata, a un modo di intendere il calcio e la vita. Dopo quel giorno i brasiliani hanno dovuto imparare a difendere, ed è stato un peccato, è stato triste, per tutti.

Nel 2013 ero a San Paolo, in vacanza, sono andato a visitare il Museu do Futebol, posto all’interno dello stadio del Palmeiras. Si entra prendendo una scala mobile, Pelé in giacca e cravatta, a grandezza naturale, da uno schermo, ripete ininterrottamente, in tre lingue: «Benvenuti al Museo del Futebol». La prima parte della navata è fatta di riproduzioni tridimensionali di Pelé, Falcão, Sócrates, Zico, Jair, Garrincha e altri. Luci bassissime, cori da stadio in sottofondo. Si prosegue e si arriva alla stanza dei confessionali. Puoi scegliere il tuo confessore tra registi, giornalisti, attori, cronisti, cantanti.

Ognuno di questi ti racconta il gol che non può dimenticare. Il più bello, il più triste, l’incredibile, il più strano. Ne faccio passare diversi, becco un calciatore sconosciuto che negli anni Settanta scartò tutta la squadra avversaria prima di segnare. Un gol di Sócrates ai tempi del Corinthias, uno di Pelé, uno di Jairzinho ai Mondiali del 1970. Arriva il turno di un giornalista di circa sessant’anni che racconta il gol più triste della sua vita. Caso vuole che il più triste per lui sia uno dei più felici per me. Il terzo gol di Paolo Rossi al Brasile ai Mondiali del 1982. Racconta la partita, parla di quel Brasile, sottolinea come quella squadra fosse una delle più forti nazionali di tutti tempi (e come dargli torto). Forte come quella del ’58, come quella del ’70.

Dice che su quel maledetto calcio d’angolo tutto sembrava finito quando Sócrates respinse di testa fuori area, ma fuori area c’era Tardelli, il seguito lo conosciamo. Il giornalista aggiunge che ogni volta che pensa a quel gol gli viene da piangere e, in effetti, piange. Io penso a quanto bene abbiamo voluto a Paolo Rossi e poi che vorrei abbracciare quell’uomo che soffre ancora dopo tanti anni. E abbracciandolo sussurrargli in un orecchio: «Guarda che il quarto gol di Antognoni era regolare, coraggio». La sera stessa ho conosciuto Luiz, lui non parlava l’italiano, io non conoscevo il portoghese. La partita del 1982 diventò il territorio nel quale raccontarsi e fare amicizia, anche lui mi disse del cambio di filosofia e aggiunse in un portoghese perfettamente comprensibile: «Siamo diventati tristi, siamo diventati europei».

Tre giorni dopo il match con il Brasile, ci sarà la semifinale con la Polonia, squadra solida, con giocatori di ottima tecnica come Lato. Si gioca al Camp Nou di Barcellona, nuovo e colmo di pubblico e bellezza. Lo scenario è cambiato, ora tutti sono ai piedi di Bearzot, di Paolo Rossi e dell’Italia, noi undicenni abbiamo paura che qualcosa possa intaccare i nostri sogni. Non accadrà. Segna ancora Rossi, due volte, di rapina nel primo tempo e con un colpo di testa su cross perfetto di Bruno Conti. A fine partita, Rossi disse qualcosa che suonava più o meno così: sulla palla che ha messo Bruno c’era scritto Basta spingere. Erano grandi giocatori, persone serie che sbagliavano pochi congiuntivi, erano ragazzi e stavano per vincere il mondiale.

Ed eccoci, è l’undici luglio come oggi di quarant’anni fa. La forma della felicità è l’urlo di Marco Tardelli dopo il secondo gol, è Sandro Pertini in tribuna, è la coppa alzata da Dino Zoff, è il sorriso appena accennato di Gaetano Scirea, è l’incredulità del giovanissimo Bergomi (lo zio). Prima un’altra felicità, un ricordo abbastanza pazzesco, ma nitido e importante come tutti gli altri. Nel primo tempo della finalissima di Madrid contro la Germania, Antonio Cabrini calcia fuori un rigore, un amico di mio padre – eravamo in tanti quella sera davanti al Saba (ancora abbastanza nuovo ma già pieno di memorie) – dà un pugno sul tavolo e colpisce una forchetta, questa vola verso il soffitto e resta lassù conficcata per qualche secondo.

Guardiamo tutti in alto, i nasi all’insù, sono istanti eterni, poi la gravità fa sì che la forchetta cada (senza colpire nessuno), è il segnale: l’Italia fa tre gol. Rossi, di nuovo (sei in totale, capocannoniere e futuro Pallone d’Oro), Marco Tardelli – quel tiro straordinario seguito da quella corsa urlata di gioia che nessuno potrà mai dimenticare –, e Altobelli, glaciale, un gol di classe straordinaria, l’esultanza più tranquilla ma altrettanto simbolica. Mancavano nove minuti alla fine, nessuno poteva toglierci la Coppa, nessuno, nemmeno Paul Breitner col suo gol della bandiera. Nessuno.

Abbiamo festeggiato per giorni, per tutta l’estate e chissà quell’estate quanti anni è durata. Mi chiedo se la vita in generale si dipani tra l’attesa che quella forchetta ritorni giù e l’inizio della corsa di Marco Tardelli, in quale dei due istanti abbiamo passato più tempo. Molto spesso, quando penso alla gioia, rivado all’esultanza di Tardelli, così mi sento quando le cose vanno bene, quando tutto sembra girare per il verso giusto e questi quarant’anni sono passati, è vero, siamo invecchiati, ma forse non invano.

Nota: 

Si consiglia la lettura di La partita di Pietro Trellini, Mondadori 2019

Qualche breve passaggio di questo articolo è rielaborato da un mio testo apparso su Rivista Undici nel luglio del 2019.

Da vedere:

Al cinema: Italia 1982 – Una storia azzurra, documentario diretto da Coralla Ciccolini

Su Sky: Italia-Brasile 3-2, la partita

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Paolo Rossi - mundial 1982