Il Giubileo in Logo

1 Agosto 2022

È estate, tuffiamoci in un fatto di cronaca. Il 28 giugno scorso è stato presentato il logo del Giubileo 2025. Durante la conferenza stampa, ambientata nella Sala Regia del Palazzo Apostolico a Città del Vaticano, Monsignor Rino Fisichella ha definito la realizzazione di questo simbolo una “attività primaria che richiede di essere realizzata come premessa per introdurre a tutte le altre”. Una simile priorità non è casuale: l’arcivescovo è anche presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, laddove gli strumenti della comunicazione non possono certo essere considerati accessori.

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Ma il tuffo diventa immersione quando si apprende qualche altro dettaglio. L’opera è stata selezionata con un concorso internazionale aperto a tutti, “senza distinzione alcuna”, ovvero non invitando a una gara professionale dei professionisti e nemmeno riservandola alla libera partecipazione di studi grafici con adeguato portfolio ma limitandosi ad aprire le porte a chiunque volesse prendervi parte. Questo spiega come mai il vincitore del concorso, Giacomo Trevisani, sia in realtà non un designer ma un massaggiatore professionista. Però non è questa una perorazione a difesa delle prerogative di un mestiere.

Quella è una tesi corretta ma per la quale ci sono argomenti disponibili anche in superficie, nel senso pacifico che nessuno di noi è disposto a sdraiarsi in mutande su un lettino da massaggi senza sapere di affidarsi a mani competenti, dunque non si vede perché al contrario per un logo eccetera eccetera. Infine, non si può certo escludere a priori che da autori non professionali arrivino proposte interessanti e credibili. Come sottolinea Andrea Rauch, oggi l’autorialità della grafica è in piena discussione. 

Ciò che in questa notizia attira l’attenzione è piuttosto il processo produttivo dell’idea. Occupiamoci di questo aspetto quindi ed eliminiamo dall’analisi non solo il giudizio qualitativo ma anche il tema castale, la difesa dell’albo (che non c’è) e ogni lamentazione che contenga la parola “ormai”. In fondo si può persino vedere, nell’ideazione di un concorso così allargato da parte del Vaticano, una forma di evangelizzazione che, in questo caso, ha raggiunto ben 48 paesi diversi, per un totale di 294 proposte arrivate da 213 città. Dati riportati con compiacimento dalla curia, com’è ovvio molto attenta alla propagazione in tutte le sue forme del messaggio evangelico, il che per inciso ci riporta all’origine del termine propaganda, contenuto nel nome seicentesco della Congregazione per l’evangelizzazione dei Popoli, più nota come Propaganda Fide.

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D’altra parte non è neanche preciso vedere nella Chiesa Romana l’antitesi tout court della comunicazione moderna. Non solo per le avanzate consapevolezze di Bergoglio, né per le sue pratiche a dir poco innovative, ma per la storia stessa dell’istituzione che è semmai alla radice di moltissima della comunicazione contemporanea. Una rivisitazione per esempio dell’avventura culturale di San Bernardino da Siena richiederebbe troppo spazio ma basti ricordare che la sua opera di predicazione in volgare fu fondamentale per rispondere all’assedio dei movimenti ereticali tra tre e quattrocento. Vero grande comunicatore dell’epoca, il francescano è però oggi santo patrono dei pubblicitari soprattutto per merito di un’invenzione che ci riporta al motivo del tuffo: Bernardino ideò il – diciamo così – logo di Gesù, oggi diffuso in tutta la cristianità, recuperando l’antico trigramma IHS e circondandolo con dodici raggi del sole. Tanti quanti gli apostoli. 

Non gli sfuggiva la ragione di fondo dell’esistenza di un logo, così come codificata da Michael Evamy in Logotype (Ed. Laurence King), il quale scrive “Le parole sui libri vogliono essere lette. Quelle nei loghi vogliono essere riconosciute”. Il punto è dunque farsi ricordare e risultare inconfondibili tanto più se, in un mondo affollato di culti, si vuol diffondere la propria fede. È anche merito di Bernardino insomma se quello del cattolicesimo è un autentico magistero comunicativo, del quale si può non condividere il messaggio o l’idea di pubblico, ma non disconoscere il contributo. 

Ciò che però al coltissimo predicatore fu più chiaro era il posto nella storia, anzi il rapporto che con la storia doveva avere questo segno grafico. Si trattava di affermare una presenza stabile e duratura, di qualità ben diversa da quella delle altre parole che volano, che si affollano, che si cambiano di posto. No, la parola di Cristo doveva invece stamparsi in quella e nelle successive epoche, abbandonando tutte le rivali a un effimero destino. Del resto l’altro ambito del passato dal quale provengono i loghi attuali è l’araldica, ossia i segni delle casate nobiliari che ne accompagnavano le gesta e gli affari con timbri, scudi e insegne. Il rapporto tra logo e storia quindi non è disgiunto da quello tra logo e potere. Basti pensare a un segno araldico oggi ancora in vita come il Giglio di Firenze, contrassegno di una potenza militare ed economica che per secoli ha segnato l’Occidente.

La volontà di emergere, di farsi riconoscere, è allora legata anche alla volontà di durare, di resistere, anzi di permanere oltre le minacce del proprio tempo e le trasformazioni epocali. Nella nostra tradizione il logo istituisce, consolida, nasce con la vocazione di eternare. È interessante perciò notare la sproporzione tra la sua potenza, tra la solidità del suo radicamento, e l’approccio aereo, casuale, ostinatamente non progettuale che viene proposto dalle forme di creazione “aperta” come quella recentemente proposta dal Vaticano. Perché in verità i casi non sono pochi. Limitandoci a una genealogia illustre, una decina di anni fa per esempio l'allora sindaco di Firenze promosse un concorso pubblico per l'ideazione di un nuovo simbolo grafico della sua città. Lo scopo era proprio sostituire il Giglio. Si pensò, anche in quel caso, non a una gara tra professionisti ma a modalità molto aperte, per nulla formalizzate. Il processo fu affidato a Zooppa, piattaforma web collettiva alla quale partecipa chiunque desideri. Dall'esordiente in poi.

Lanciato nel nome di "I love New York", il celebre logo firmato nel 1977 dal leggendario Milton Glaser con l'agenzia di Mary Wells, il concorso raccolse ben 5000 proposte da far vagliare a una commissione. Un caleidoscopio inafferrabile, un numero così elevato da rendere impraticabile una corretta valutazione. Interpellato a riguardo, lo stesso Glaser confermò: "una gara di questo tipo si fa tra pochi partecipanti (...) se hai 500 piatti da assaggiare, come fai a dire qual è il piatto più buono?". Figurarsi cinquemila. Che ne fu di quelle proposte? Servì un cestino bello grande. Alla fine non vinse neanche il vincitore, un po’ perché da più parti indicato come troppo simile a quello di Praga, e poi perché anche il subentrante nuovo sindaco Nardella dichiarò di preferirgli il tradizionale giglio, che aveva atteso in silenzio la conclusione di quella piccola gazzarra e ancora oggi campeggia sulla sua città. Di lui ci si continua a ricordare, di quel concorso si è persa la memoria.

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Ma non l’esempio. Al contrario, bisogna riconoscere quanto quel flop abbia preparato il terreno a una vera e propria pratica della nostra classe dirigente, impegnata oggi a promuovere una sorta di incessante demagogia grafica di volta in volta giustificata in modo differente. Se il Vaticano ha inteso realizzare, l’abbiamo visto, opera di evangelizzazione, nel caso “Zoopa vs. Giglio” venivano omaggiate le nuove pratiche digitali della disintermediazione. La sostanza però non cambia e ci aiuta a cogliere la vera natura del fenomeno. Ecco, altro esempio, il logo delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026. In questo caso la modalità di selezione è addirittura senza precedenti, visto che, per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, il logo è stato approvato al termine di un contest presentato durante il Festival di Sanremo e poi scelto on line dal pubblico. Due i finalisti: l’opera scelta presenta un 26 tracciato idealmente su una superfice innevata, mentre il secondo, quello sconfitto, proponeva una convivenza tra il Duomo di Milano e una pista di sci che può richiamare Cortina. Anche senza attardarsi nel commento di merito non si può non notare come entrambi i loghi siano poco significativi, sottintendendo il poco da comunicare, forse anche l’incongrua fusione simbolica tra le due sedi olimpiche (Milano/Cortina).

Un’identità fragile che, proprio perché sottoposta a un iter così diffuso, sembra quasi implicare un bisogno di approvazione invece di un messaggio da rivolgere. Ma l’occasione olimpica ci consente di confrontare la nostra attività nazionale con quella degli altri paesi alle prese con eventi simili. Guardiamo allora il logo olimpico di Parigi 2024. Ideato dall’agenzia parigina Royalties, unisce il formato rotondo della medaglia, simbolo della competizione, alla fiamma, emblema delle olimpiadi, e alla figura della Marianna, il personaggio della mitologia rivoluzionaria francese, icona della nazione e della sua identità democratica. Può suscitare diverse reazioni, può non piacere, ma esprime un paese che parla, scegliendo i suoi elementi significativi e proponendoli al pubblico con chiarezza. 

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Ancora. Il logo di Los Angeles 2028, creato dal designer di Los Angeles Jeremy Mickel. In questo caso non c’è un simbolo fisso ma una continua alternanza, con il suo sistematico cambiamento di significati legati alla A. Si tratta di un logo dinamico, che ogni volta si presenta a noi con forme diverse e potenzialmente infinite. In sostanza questo simbolo consiste della sua stessa variazione, così da descrivere una manifestazione ricca di risvolti ed eventi, mentre l’impaginazione “a pacchetto” accentua l’aspetto progettuale e non casuale di questa dinamicità. C’è in LA28 un’idea di metropoli multiforme, polifonica, che ha molto da raccontare. Caratteristica del progetto è anche la possibilità di personalizzarlo modificando la A secondo gusto e piacere. Il che volendo ci suggerisce come l’apertura popolare in questo caso non sia stata inscenata con plebisciti ma prevista e accolta entro un spazio espressivo concepito dal designer.

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La sintesi grafica e progettuale presente in questi lavori ci riconduce a un utile confronto con il logo del Giubileo 2025: non per sottolinearne il dislivello formale ma per evidenziare l’autentica origine visiva della sua complessità, che non appartiene propriamente alla storia della grafica e la cui spiegazione irta di simbologie ha impegnato i suoi promotori in una vera e propria esegesi semantica. Di seguito il testo riportato sul sito del Giubileo.

 

Il Logo rappresenta quattro figure stilizzate per indicare l’umanità proveniente dai quattro angoli della terra. Sono una abbracciata all’altra, per indicare la solidarietà e fratellanza che deve accomunare i popoli. Si noterà che l’apri-fila è aggrappato alla croce. È il segno non solo della fede che abbraccia, ma della speranza che non può mai essere abbandonata perché ne abbiamo bisogno sempre e soprattutto nei momenti di maggiore necessità. È utile osservare le onde che sono sottostanti e che sono mosse per indicare che il pellegrinaggio della vita non sempre si muove in acque tranquille. Spesso le vicende personali e gli eventi del mondo impongono con maggiore intensità il richiamo alla speranza. È per questo che si dovrà sottolineare la parte inferiore della Croce che si prolunga trasformandosi in un’ancora, che si impone sul moto ondoso. Come si sa l’ancora è stata spesso utilizzata come metafora della speranza. L’ancora di speranza, infatti, è il nome che in gergo marinaresco viene dato all’ancora di riserva, usata dalle imbarcazioni per compiere manovre di emergenza per stabilizzare la nave durante le tempeste. Non si trascuri il fatto che l’immagine mostra quanto il cammino del pellegrino non sia un fatto individuale, ma comunitario con l’impronta di un dinamismo crescente che tende sempre più verso la Croce. La Croce non è affatto statica, ma anch’essa dinamica, si curva verso l’umanità come per andarle incontro e non lasciarla sola, ma offrendo la certezza della presenza e la sicurezza della speranza. È ben visibile, infine, con il colore verde, il Motto del Giubileo 2025, Peregrinantes in Spem.

 

Non di grafica si tratta dunque ma di un ritorno del tableau vivant, per quanto qui in versione vettoriale e digitale, ossia di una forma di intrattenimento popolare che, ben prima di cinema e tv, proponeva dal vivo attori in pose statiche per imitare opere d’arte o episodi sacri. Qualcosa di simile a un presepe vivente, dove non una né due e neanche tre ma una gran quantità di cose «indicano» la presenza di altrettanti concetti ai quali sono associate e l’interpretazione viene veicolata moralmente da una spiegazione verbale che attiva e indirizza la visione. Nelle acque profonde di questo logo del Giubileo troviamo dunque memoria inconscia di un linguaggio popolaresco, antitetico alla sintesi moderna e forse persino espressione – involontaria ma non per questo meno concreta – di uno spirito pauperistico che attraversa la chiesa di Francesco.

Se il logo di Bernardino cercava di imprimersi in forza dei suoi pochi elementi, il tableau vivant è saturo di significazioni: in esso ogni attore, ogni posa, ogni oggetto, ha uno scopo dimostrativo e veicola un livello di lettura. E non solo tutto significa, ma tutto è presente, nulla è trasposto o sottinteso. La speranza ma anche la sua sicurezza, le onde così come la croce e l’ancora… non è un caso allora se il clamore sollevato dalla presentazione del logo del Giubileo è consistito anche in un’ulteriore interpretazione, quella diffusa sui social da Mario Adinolfi, il quale nei diversi colori dei pellegrini stilizzati ha visto un’allusione al Gay Pride con relativa polemica di giornata. E perché no? Quando parte il bastimento carico di significati, ognuno porta il suo. Per quanto la lettura gay friendly abbia del paranoide, il gioco di “vederci” qualcosa è difficile da vincolare a interpretazioni autentiche.

Proviamo noi piuttosto, fuori dalle vicende del singolo logo, a osservare la mutazione del processo decisionale che riguarda i simboli grafici delle istituzioni nostrane, e ricercare in essa – come da canone bernardiniano – una relazione con la storia, un’interpretazione del potere. Cosa vuol dire che i simboli perdano consistenza, che si facciano creta nelle mani dell’audience? Sembra forse inconcepibile, alla nostra attuale classe dirigente, imprimere il suo segno sulla storia, e questo non sorprende. In questa evaporazione della propria riconoscibilità, che si stinge nelle meccaniche della comunicazione – nell’online, nel diteci voi – emerge non solo una concezione provvisoria di sé e della propria responsabilità ma allo stesso tempo anche un sotterraneo timore della cittadinanza percepita come presenza latamente ostile, minacciosa, in fin dei conti imperscrutabile. Da un lato viene raffigurata con sondaggi e fattoidi culturali – da adoperare per legittimare le decisioni conservative – dall’altro viene blandita da un simulacro di partecipazione. Il logo mio è colpa vostra. 

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