Il ciclista Jiménez 

15 Giugno 2022

È tremendo, quasi una beffarda nemesi, per un grande ciclista morire in un incidente d’auto, schiantandosi contro un muro. Molti, soprattutto i dilettanti della domenica, crepano investiti come ricci dalle macchine che non li vedono o fanno finta di non vederli (è quello che purtroppo accadde, anni fa, anche al mio amico filosofo Franco Volpi che, appena poteva, andava a pedalare su e giù per le colline della sua Vicenza). Le automobili, secondo il mio babbo (che non aveva, come me del resto, la patente), erano una delle grandi disgrazie della modernità. Si sarebbe trovato d’accordo con il sociologo Ivan Illich, autore tra l’altro di un piccolo pamphlet: Elogio della bicicletta (Energie, vitesse et justice sociale, 1973; trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006). Un’appassionata apologia delle due ruote come fenomeno ecologico ed estremamente egualitario: chi pedala non ha privilegi rispetto agli altri; non ci sono differenze di censo, perché chiunque si può permettere una bicicletta. L’unica forza sulla quale si fa conto è quella delle proprie gambe. 

L’altro giorno è morto, per le gravi ferite di un incidente automobilistico, lo spagnolo Julio Jiménez Muñoz (1934), che è stato un potente ciclista. Come si usava allora era conosciuto col soprannome di “l’orologiaio di Ávila”: perché era nato nella cittadina medievale, capoluogo di provincia più alto della Spagna, che, nel XVI secolo, aveva dato i natali alla sua protettrice Teresa d'Avila (altrimenti detta Santa Teresa di Gesù), tanto che, per la sua fede scrupolosamente osservante, lo chiamavano anche "il Sacrestano"; e perché, lavorando in una bottega di orologi, era riuscito a racimolare i soldi per comprarsi la prima bici da corsa.

Jiménez è stato uno dei più grandi scalatori della storia del ciclismo: per tre anni consecutivi (dal 1963 al 1965) fu nominato miglior scalatore del Giro di Spagna (Vuelta a España) e per altrettanti tre anni consecutivi (dal 1965 al 1967) indossò la maglia a pois come miglior scalatore del Tour de France (detto anche Grande Boucle, “grande ricciolo”, dalla forma che il percorso assume girando attorno al paese fino a giungere a Parigi). Tra il 1959 e il 1969 vinse 23 gare, di cui 5 al Tour (tra cui, nel 1964, la mitica tappa del Puy de Dôme, un ripido vulcano alto 1464 metri) e 4 al Giro d’Italia. 

Grazie al ciclismo, e anche a Jiménez, ho imparato che nella vita si matura a tappe. Durante le vacanze al mare, al Lido di Camaiore, costruivamo delle piste sulla sabbia, scegliendo il bambino più piccolo, e leggero, e trascinandolo per le gambe, come fosse un aratro, su e giù per l'arenile fino a riportarlo al punto di partenza per chiudere il circuito. In quelle improvvisate piste facevamo correre, spinte da un secco colpo dell'indice che scivolava sul pollice, le biglie di plastica colorate, con le immagini dei corridori più famosi: le mie preferite erano quella blu con il faccione malinconico di Bahamontes (soprannominato “l’aquila di Toledo”) e quella rossa del sorridente e un po’ affaticato Julio Jiménez, vissuto a lungo come alter ego del grande Bahamontes. 

jimenez

La pallina di Jiménez me la comprò il babbo, dopo aver ravanato a lungo insoddisfatto nel secchiello del negoziante sulla Passeggiata che vendeva articoli per il mare. La scelse perché era uno dei suoi ciclisti favoriti, e quindi sarebbe stato anche il nostro. Il babbo spiegava che tifava per lui perché era uno che in salita faticava, come nella vita, essendo di origini umilissime: “Quando si trasferì a Madrid con la famiglia, nel 1953, per poter sostenere l'attività ciclistica, che era la sua passione e vocazione, fu costretto ad andare ad acquistare i pezzi, per lo bicicletta con la quale gareggiava, ai mercatini delle pulci”. Ma c’era anche un altro motivo di ammirazione: a un certo punto la squadra di Jiménez fu sponsorizzata dalla fabbrica della penna Bic, l’unico strumento che il babbo usasse per scrivere e che decantava come una grande invenzione ungherese. 

Il babbo ci portava a seguire le radiocronache al bar dei tranvieri (ATAF): un chioschetto, sormontato dalla bandiera viola, davanti al deposito degli autobus. Dentro ci sarebbero potute stare al massimo una ventina di persone, ma era sempre affollatissimo e la gente seguiva le gare anche dal marciapiede, grazie a un gracchiante altoparlante. Per noi due bambini c’era sempre posto a sedere, ognuno in precario equilibrio sulle ginocchia del babbo. Il ciclismo faceva parte di una triade (calcio, ciclismo e boxe) per la quale il babbo non soltanto alzava il naso dai libri, ma si appassionava come un bambino.

Ogni occasione era buona per dare quattro calci a un pallone o fare una gara in bicicletta. Allora, nonostante la grande differenza di età (ci aveva avuti tardi, a causa della lunga guerra, con una sua brillante ex studentessa di Scienze Politiche), tutto magicamente si accorciava tra noi. Gioivamo assieme, urlavamo pure e tornavamo a casa improvvisando bizzarre danze tribali, cadenzando i nomi dei nostri beniamini: Ji-mé-nez, Ji-mé-nez! Passato il momento del tifo irrazionale, naturalmente il babbo riprendeva poi in mano la situazione e non mancava di insegnarci luoghi, storie, annotazioni sul carattere degli uomini e delle nazioni.

Ci ha insegnato che il tifo sportivo, sempre rispettoso ed educato, è il necessario contraltare della vita intellettuale. Nel non detto di tutto questo entusiasmo c’era però una macchia, un’onta, che la mamma, ridendo, non mancava mai di ricordare. L’unica volta che il babbo aveva fatto a pugni, pare con un certo stile (da giovane fu un buon schermidore), era stato non proprio per ragioni politiche, o per difendere i più deboli, ma perché, sempre al bar, un acceso tifoso del “democristiano” Bartali (del quale ancora non si conoscevano i giusti meriti nel salvataggio degli ebrei) aveva insultato l’“immorale e sinistrorso” Fausto Coppi, che stava con una donna sposata (la “dama bianca”) e non era quindi ben visto dai preti. L’integerrimo professore, davanti all’inorridita mamma, si alzò di scatto e, senza proferir parola, stese con un pugno al mento il malcapitato. Sono sicuro che lo avrebbe fatto anche per Jiménez.

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