Donatello. Il Rinascimento a Firenze

25 Giugno 2022

La prima volta che andai a visitarla fu durante una di quelle preview mattutine nelle quali ti distrai volentieri a salutare questo e quello, con un sorriso, una stretta di mani, oppure ti soffermi ad abbracciare gli amici che erano secoli che non vedevi. In quelle occasioni riesci a farti un’idea vaga della mostra, di come è stata composta, del suo allestimento; se poi sei fortunato, raccogli pure qualche brillante impressione volante. Poco altro di più, almeno per me.

Quella sera, però, tornato a casa, non potevo togliermi dagli occhi le opere che avevo visto. Merito loro, ovviamente: loro avevano acceso le giuste scintille, la persistenza emotiva, il flusso prodigioso di suggestioni che continuava a vivere in me. Ma la maggior parte di esse avevo avuto modo di osservarle mille volte, studiarle, indagarle avendo ben in mente i problemi che ponevano, fossero essi di natura cronologica, di autografia, di lettura formale o iconologica. Doveva esserci qualcosa di più. Qualcosa che già sospettavo, ma di cui ebbi la conferma quando, pochi giorni più tardi, riuscii a tornare a Palazzo Strozzi con meno distrazioni. Fu allora chiaro che era stata l’impaginazione del racconto ad aver contribuito a quella mia persistenza, l’incalzante sequenza narrativa che si svolgeva in quelle sale attorno all’eccezionale vicenda artistica di Donatello; e come in un romanzo russo di fine Ottocento, anche a seguire quella vicenda, per come veniva raccontata, si aveva la netta sensazione di entrare in un mondo complesso, ricco di sorprese, in cui ripercorrere un’esistenza voleva dire affacciarsi verso la multiforme articolazione della storia. 

Farlo con Donatello significa avere a che fare con buona parte della storia figurativa del XV secolo, lo sappiamo. Proprio per questo, per una mostra monografica su di lui, diventa necessario condurre il visitatore per mano, attraverso sequenze cronologiche, attraverso soluzioni formali inedite, attraverso rapporti con gli altri artisti, fiorentini e no, che maturarono nei suoi confronti debiti fortissimi. È quanto è stato fatto a Palazzo Strozzi: accompagnare il visitatore da una sala all’altra rendendo il passaggio ogni volta fonte di sorpresa, grazie alle opere, sempre perfettamente calzanti, e grazie alle idee figurative che stanno alla loro base, alla potenza sorprendente della capacità immaginativa dell’artista, alla disposizione a sperimentare tecniche diverse che portano sempre a soluzioni inconsuete e prodigiose. 

Magistrale è la lucidità con la quale tutto ciò viene offerto al visitatore, anche a considerare certe difficoltà con le quali ogni mostra deve fare i conti, specialmente quando si tratta di opere di scultura e quindi di opere non facilmente trasportabili. La maggiore di queste difficoltà crediamo sia stata l’impossibilità di esporre qualcuno dei marmi realizzati da Donatello per la cattedrale di Santa Maria del Fiore, sia quelli per il campanile, sia quelli per la facciata (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo). In tal modo sono venute a mancare non solo le opere fondamentali per intendere l’evoluzione dello scultore negli anni della sua prima maturità, ma anche la possibilità di avere in mostra ogni riferimento al cantiere intorno al quale si era compiuta tale evoluzione. Una mancanza obbligata, che costringe quasi a sorvolare su quel decisivo capitolo giovanile (del resto, lucidamente ripercorso da Francesco Caglioti nel saggio introduttivo del catalogo), e che si è potuto solamente evocare nella sezione iniziale con il David marmoreo e con due Crocifissi, quello per Santa Croce, e quello di Brunelleschi proveniente da Santa Maria Novella. 

È intorno a queste opere che inizia il racconto, e inizia con un’assenza che crediamo voluta, quella di Lorenzo Ghiberti: come a marcare da subito il territorio creativo di Donatello, cioè di un artista che pure era cresciuto nel cantiere della Porta nord del Battistero, che aveva guardato alle preziosità, alle eleganze, alle pose ostentate di cui è traccia nel David, damerino sinuoso e atteggiato; che non poteva rinunciare alle falcature insistite delle pieghe, a cui ancora ricorre nel perizoma del Cristo di Santa Croce.

Tuttavia, è proprio guardando quest’ultimo, una volta ancora vicino a quello di Brunelleschi, che entriamo in contatto con l’urgenza della ricerca di Donatello, con l’ansia del giovane di imboccare nuove strade tutte insieme, avidamente, consapevole del proprio talento, e consapevole della necessità di sperimentare. È qui che si introduce quel rapporto con Brunelleschi che segnerà la storia dell’arte fiorentina nella prima metà del Quattrocento. Ma è un rapporto su cui avremo ancora bisogno di informazioni, ora che si è complicato di nuove suggestioni documentarie: quando è iniziato? quando sono andati insieme a Roma?

Erano amici, poi diventarono soci, poi più soci che amici, o forse no; fatto sta, che nel 1412 il più anziano arrivò addirittura a denunciare l’altro per debiti. Ma tornando ai due Crocifissi, difficile è cogliere la relazione tra l’uno e l’altro, ovvero il modo secondo il quale quello di Brunelleschi avrebbe agito su Donatello: in fondo, si tratta di due opere molto diverse tra loro, acerba e potente quella dell’artista più giovane, tutta passione, coinvolgimento emotivo, carica espressiva, emergenze plastiche; e invece, miracolosamente calibrata quella di Brunelleschi, studiata nelle sue proporzioni, nella sua precisione anatomica, immagine ripulita di perfezione umana, dove non c’è posto per la sofferenza, né per accenti patetici o forzature formali. Ho l’impressione che l’unica altra opera idealmente accostabile al Crocifisso di Santa Maria Novella possa essere il San Giorgio per Orsanmichele, esposto al Bargello, dove è possibile osservare lo stesso rigore, la stessa adesione verso una composizione costruita attorno a un’idea di misura formale; e come a ribadire un’adesione culturale, c’è la predella con la lotta del santo contro il drago, prima realizzazione figurata delle regole della prospettiva brunelleschiana. 

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Quello con Brunelleschi è un rapporto con cui dobbiamo fare i conti anche in altre sezioni della mostra. Già in quella successiva, dedicata a una serie di Madonne di terracotta. La riscoperta di questa tecnica, ricordata da Plinio, è da mettere in relazione alla serie di Profeti con cui si volevano decorare le sommità dei contrafforti della cupola di Santa Maria del Fiore. Si trattava di statue che sarebbero dovute andare molto in alto, e ci si rese presto conto che quanto era stato fatto per questo ciclo, cioè il David marmoreo esposto nella prima sala, e l’Isaia di Nanni di Banco, avevano dimensioni insufficienti per tali altezze.

Fu allora che Donatello realizzò un Giosuè in terracotta che garantiva proporzioni adeguate, un peso ridotto e un impegno economico assai minore. Come spiega bene Caglioti, il coinvolgimento di Brunelleschi in questa impresa si deduce dal fatto che i due sono ricordati pochi anni dopo intenti a elaborare una protezione che consentisse a queste statue di durare. Purtroppo, non fu possibile arrivare a un risultato e il colosso non è sopravvissuto alle intemperie. Erede diretta fu, però, l’eccezionale fioritura di opere in terracotta destinate a una capillare committenza privata, di cui una preziosa selezione è esposta in questa sezione. Sono opere soprattutto riconducibili alla mano di Donatello, come le due splendide Madonne sedute di Londra e di Detroit, ma anche ad artisti come Nanni di Banco o Jacopo della Quercia, per suggerire la rapida fortuna del genere e per affermare quanto l’astro di Donatello, da qui in avanti, illuminerà gran parte del secolo. 

È alle sue nuove orchestrazioni dei panneggi che guarderanno pittori come Masaccio, Filippo Lippi, Andrea del Castagno; è alla forte carica espressiva dei suoi santi, corrucciati, pensosi, meravigliosamente austeri, che dovremo fare riferimento per trovare l’origine di tante figure analoghe; è all’estro creativo che caratterizzerà le sue invenzioni, in termini di pose, di impaginazione narrativa, di continua sperimentazione dei materiali e delle tecniche che andrà ricondotta l’originalità della lezione di Donatello. Tutto ciò non ci si stanca di mettere in luce a Palazzo Strozzi. Come nella parete della quarta sezione in cui il rilievo in bronzo con il Festino di Erode, proveniente dal Fonte battesimale di Siena, è collocato fra una formella dell’Angelico e una di Domenico Veneziano. È una parete che ci parla della conquista di uno spazio figurato.

Ma dove, in quest’ultime, esso è reso attraverso la lineare esattezza geometrica della prospettiva brunelleschiana, in Donatello stordisce quasi la forza con la quale ci fa immergere in uno spazio incredibilmente complesso, un mondo labirintico, fatto di colonne e pilastri che si rincorrono, di teste che sbucano improvvise, di murature che scandiscono una profondità senza fine; e le figure che inorridiscono davanti al macabro vassoio fuggono, e cadono, e si disperano, e finiscono addirittura per oltrepassare i limiti fisici del rilievo: l’obbedienza matematica dello spazio brunelleschiano è come stravolta dall’interno, per forza di racconto, per urgenza narrativa, e diventa quasi una scacchiera irregolare e affascinante dove le emozioni trovano una loro dimensione inaspettata.  

Si potrebbe andare avanti così, sezione per sezione, con quell’incanto di cui dicevamo all’inizio; seguire l’incalzante percorso della mostra attraverso il cosiddetto Attis del Bargello, la rutilante esperienza del pulpito di Prato, le porte bronzee della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, l’incredulo e dolcissimo San Giovanni Battista per la famiglia Martelli, ultimo marmo lavorato dall’artista. E si potrebbe, poi, lasciarsi condurre, attraverso le sezioni 8 e 9, all’interno del soggiorno padovano, nel quale la dimensione di Donatello come maestro imprescindibile emerge nella maniera più chiara, talmente numerose e talmente varie sono le opere dell’Italia settentrionale che dipendono dalla conoscenza delle sue sculture, anche se ci saremmo aspettati un maggior risalto dato ad Andrea Mantegna, cioè a colui che, più di tutti, rimase folgorato da quel soggiorno, e che invece è presente in mostra con un’opera tarda, ancorché deliziosa, come la Madonna del Poldi Pezzoli. 

Anche le ultime due sale hanno qualcosa di memorabile: è il Donatello tardo, circondato di fama, assistito da aiuti e da allievi, un artista che nonostante sia sulla settantina non sa rinunciare al fuoco di una creatività che continua a riscaldare le sue opere. Come il Battista bronzeo, che Donatello porta con sé quando decide improvvisamente di trasferirsi a Siena, dove gli promettono ponti d’oro e dove rimane per quasi quattro anni, o come la spettacolare testa di cavallo allestita nell’ultima sezione, a fianco del suo modello antico, frammento realizzato del monumento equestre per il re di Napoli e ultima testimonianza della sua inventiva senza fine. 

Usciamo da Palazzo Strozzi con il fiatone. Recuperiamo. Lasciamo che quello sforzo emotivo continui a vivere in noi. La mostra non è finita; restano le sezioni allestite al Museo del Bargello. Poco spazio ci rimane per dire che anche qui è una meraviglia, che anche qui Donatello è presentato come un gigante di soluzioni creative. Nel salone del primo piano, l’infilata visiva del Marzocco, del David bronzeo, del San Giorgio, viene arricchita dal dialogo con altri artisti, con gli Uomini illustri di Andrea del Castagno, con Raffaello, con Pontormo, per citarne solo alcuni. Ma è un finale, questo, che caratterizza anche le due sale a piano terra, splendide nella concentrazione di opere che reagiscono alle sollecitazioni donatelliane, e dove diventa addirittura indimenticabile l’uscita da un mondo da cui pensiamo sia impossibile uscire: è attraverso l’ultima suggestione di un cannocchiale prospettico che la piccola e miracolosa Madonna Dudley lascia la scena alla Madonna della scala di Michelangelo. 

La mostra Donatello. Il Rinascimento, a Palazzo Strozzi e al Museo del Bargello di Firenze è aperta fino a 30 luglio 2022. Il catalogo, a cura di Francesco Caglioti, è edito da Marsilio Arte, Venezia 2022.

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