Un teatro sempre in bilico / Cuocolo-Bosetti: morire o ricordare

10 Marzo 2016

Forse che sì forse che no. Il motto, ripreso da una canzone d’amore, una ‘frottola amorosa’ del Cinquecento, percorre tutte le strade (prive di biforcazioni e quindi obbligate) del labirinto che decora il soffitto dell’omonima sala nell’Appartamento di Vincenzo I Gonzaga nel Palazzo Ducale di Mantova. Roberta cade in trappola – The Space Between è lassù, tra l’incertezza dell’amante appeso al filo di Arianna delle risposte dell’amato, in questo caso il tempo passato, e la tragica indagine sul resistere alla più banale e rassegnata quotidianità. Lo spettacolo di e con Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, tredicesima parte in sedici anni dell’Interior Sites Project, è il nuovo passo fermo di un fare teatro sempre in bilico, che vale secondo che può essere o credersi vero: un affresco intimo in cui sguardo e ascolto indugiano in enigmi e inciampi che la finzione tende continuamente all’autobiografia, e viceversa. “Mi chiamo Roberta Bosetti, sono un’attrice e recito me stessa. Questa è la mia voce. Ho un teatro nella testa”.

 

Il soffitto della sala del Labirinto, Antonio Maria Viani, Palazzo Ducale, Mantova.

 

Al debutto nazionale a fine febbraio scorso al Funaro di Pistoia, coproduttore con i Cuocolo/Bosetti, il ‘labirinto gonzaghiano’ di Roberta cade in trappola si dipana su una scrivania di legno con sopra alcuni quaderni rossi, un microfono, un bicchiere d’acqua, un registratore magnetico a transistori modello G 570 prodotto in Italia dalla Geloso a partire dal 1967, un leggìo con sopra un grande libro che riporta in copertina il titolo dello spettacolo, una luce da tavolo. Roberta Bosetti è seduta di fronte al microfono e al pubblico, mentre Renato Cuocolo è di spalle e con una videocamera compatta riprende ciò che sta sulla scrivania, soprattutto l’interno del librone, che sfoglia con cura e riserbo: le immagini live sono proiettate a grandezza quasi cinematografica sulla parete in fondo. L’impianto ricorda il loro lavoro precedente, MM&M – Movies, Monstrosities and Masks, ma con due cambi significativi: l’ascolto degli spettatori non passa per delle cuffie, la compagnia italo-australiana deve aver capito che sono adatte a radio-walkshow come The Walk, in cui il racconto è un ritaglio tra i rumori della città, ma non a uno spettacolo in una sala, già di per sé protetta, che anzi invita a condividere l’evento come gruppo in quanto gruppo e non somma di singoli, da soli a sola con l’attrice; le situazioni e i personaggi raccontati da Roberta Bosetti sono resi paesaggi animati, vivi e presenti, non attraverso i fermi immagine dei suoi film preferiti, ma con le ‘statue di vita’ di Duane Hanson. Quello sul leggìo, infatti, è un catalogo di una sua mostra vista dai due anni fa, “diventato un’opera esso stesso – scrivono nel foglio di sala – una specie di diario in cui si sono accumulate foto, ricami, disegni”. Teatro della realtà calato nella realtà del teatro, come erompe nel ‘quartetto’ sui sentimenti, la crisi, la Storia, il Novecento, la poesia, di Prova di Pascal Rambert, un alveo della ricerca definito reality trend, dove anche un ricordo personale è ricostruito ad arte, è un “ricordo impossibile”, direbbe Borges, più vero del vero perché sottratto alla confusione e distrazione del reale, e portato qui, sulla scena, nella luce univoca della voce e della ripetizione. Come del resto faceva Hanson, che trasformava la realtà della vita nel realismo dell’arte: il suo mondo reale artificiale diventa più quotidiano del quotidiano nella realtà del museo, ciò che dichiara, è, e non è in altro modo alcuno.

 

Housewife, Duane Hanson, 1970, ph. drollgirl.

 

Lo scultore statunitense, morto vent’anni fa, è considerato fra gli esponenti più rappresentativi dell’iperrealismo. Nelle sue opere, realizzate in scala naturale attraverso calchi, per lo più in resina di poliestere e fibra di vetro, ma anche bronzo, poi dipinte e completate da accessori autentici, Hanson fissa americani ‘tipici’ che conducono esistenze del tutto normali, un poliziotto, una casalinga, un operaio, una donna delle pulizie, un turista. “Per me, la rassegnazione, il vuoto e la solitudine della loro esistenza – diceva – colgono la vera realtà di queste persone. Ambisco a raggiungere un crudo realismo che parli delle affascinanti idiosincrasie dei nostri tempi”. La solitudine è la chiave con cui aprire le porte della percezione di Roberta cade in trappola. “Noi siamo soli” sono le Lettere a un giovane poeta di Rilke che Bosetti ha in tasca fin da ragazza. Ma i ricordi sono una Alice che si perde dietro un coniglio confuso e impaurito che la rincorsa, la caccia, valgano più di lui come preda.

 

Quindi stasera, e altre sere che verranno o ci sono state già state, lei è qui davanti a noi a parlare: se qualcuno la ascolta la sua voce è ancora viva e il tempo non è passato del tutto. Il cuore è un battito di dita sul microfono per strappare ritagli di luce, di comprensione, di compassione. Roberta Bosetti racconta che la madre è morta lo scorso giugno e così è caduta in depressione. Renato Cuocolo riprende sul catalogo di Hanson la figura di un uomo in giacca e cravatta, un tipo da cinema dei telefoni bianchi o di spie nella Guerra Fredda, e sotto una scatola di Tolafen aperta come una foglia lasciata a essiccare. È uno psicofarmaco con un effetto sedativo, che a volte può far sentire come involucri vuoti al di fuori completamente dalla realtà. L’uomo, nella narrazione, è il dottor Spera, colui che le ha diagnosticato un “terribile e incessante dolore emotivo”. L’antidepressivo è delineato dall’attrice con brevi cenni delle mani, una preghiera esplosa nelle vene, dal cuore e al cervello. Le giornate si trascinano in “un enorme buco nero senza fondo”. Cita David Foster Wallace: è la “Cosa Brutta”. Lo scrittore e saggista americano morto suicida nel 2008, definito dal New York Times “la mente migliore della sua generazione”, la circoscrive nel racconto Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, uscito in Italia per Einaudi nella raccolta postuma Questa è l’acqua: “la Cosa Brutta attacca non solo te facendoti sentire male e mettendoti fuori uso, ma attacca in special modo, fa sentire male e mette fuori uso proprio le cose che ti servono a combattere la Cosa Brutta, a sentirti magari meglio, a restare vivo”.

 

Tourists II, Duane Hanson, 1988, ph. drollgirl.

 

Alla terapia farmacologica il dottor Spera affianca così il consiglio di tenere un diario della malattia – i quaderni rossi sul tavolo – per descrivere la costellazione del suo ‘gruppo di sostegno’, amici, familiari, avvenimenti, idee, ma anche preoccupazioni, fantasie e sogni. Ecco allora la madre, evocata dalla casalinga di Hanson (Housewife, 1970), una signora abbandonata in poltrona, la vestaglia a fiori, la sigaretta, i bigodini, le pantofole e una gamba sul bracciolo. Ecco le vacanze tra Abbronzatissima di Vianello, i turisti in infradito, calzini bianchi e aria stranita (Tourists II, 1988), e la donna in bikini nero, altezzosa e sensuale, che prende il sole sul lettino (Sunbather with Black Bikini, 1989). Ecco la festa di compleanno e l’amico “ve lo spiego io”, l’uomo grasso sulla falciatrice perso nel vuoto e nella sua bibita in lattina (Man on Mower, 1995). L’incontro tra memoria e riprese video aggiunge tempo al tempo, riporta il presente, al presente, e sembra risvegliare le statue dal torpore delle loro pose plastiche: scongelate nel movimento, nell’energia, nell’espressività, tornano alla vita, dall’attimo che l’artista ha scolpito in poi.

 

Spesso, infatti, il medico le ha chiesto: “perché lei racconta di qualcosa che sparisce, di gente che se ne va?” È un intercalare, un ritornello che si ripresenta ciclicamente tra le frasi pronunciate da Roberta Bosetti, quasi che Roberta cade in trappola sia l’ultimo, estremo tentativo di dare una risposta possibile. Una domanda che, peraltro, si radica in profondità nello sguardo stesso di Cucolo/Bosetti sul teatro: immaginare il reale, come la volta che a tre anni la madre le allestì una festa di compleanno, con il padre morto da poco. Renato Cuocolo, durante questa ulteriore scalata del dolore, riprende la foto in bianco e nero di lei bambina con il cucchiaio con la torta in bocca, il grande piatto, il grande tavolo, e lei da sola. La piccola sul tappeto con il grembiule e il puzzle ancora in pezzi (Child with Puzzle, 1978) serve a rendere visibile la sua infanzia solitaria. La trappola, per noi, è ritrovarci a rimettere insieme i nostri pezzi, a cercare somiglianze e differenze come nella “Settimana enigmistica”, a unire tutti i puntini e scoprire ciascuno il suo profilo.

 

Roberta cade in trappola, ph. Antonella Carrara.

 

Quella bambina, alla fine, parla dal registratore a bobine della Geloso, modello G 570, un gioco della e con la memoria che ritroviamo in un’altra produzione del Funaro, Jessica and me di e con Cristiana Morganti, la danza-intervista con se stessa sulla propria formazione artistica da allieva di Pina Bausch, e, ad esempio, ne L’ultimo nastro di Krapp di Beckett, su un vecchio scrittore fallito, inesorabile mangiatore di banane e instancabile ascoltatore della sua voce registrata “in questo buio che mi circonda”, rimesso recentemente in scena da Giancarlo Cauteruccio nel decennale del suo storico Trittico beckettiano. Renato Cuocolo riprende la bobina, eco di riproduzione di qualcosa già finito, che gira, gira, gira alla ricerca di Roberta, perché e percome continua a essere qui, anche se gli occhi non sono più gli stessi di allora, cambiati al passare di ciò che ha visto, come varia la voce a seconda di chi si ha di fronte. Dal pianeta G 570, dove si inventava una solitudine magnetica tutta per sé, ora è ridiscesa sulla Terra e si è adeguata allo scacco della riconosciuta finzione, pur sotto i riflettori di una qualche magia (più detta che realizzata), aprendosi al mondo o almeno a quello che si vede dall’oblò di una nave in tempesta.

 

Sul soffitto della Sala del Labirinto dell’Appartamento Ducale di Vincenzo I Gonzaga, nell’ultimo rettangolo del percorso, si trova la scritta Dedalee industrie et Teseie virtutis (Opera dell’arte di Dedalo e del valore di Teseo), accerchiato da lacci che si stringono a due cuori: l’intreccio tortuoso starebbe a simboleggiare il difficile cammino verso la Salvezza. Al cuore di Roberta cade in trappola pare esserci ciò che David Foster Wallace diceva ai neolaureati nel suo discorso al Kenyon College il 21 maggio 2005 (Kenyon College and me è pubblicato in chiusura di Questa è l’acqua, online su Nazione Indiana): “nella trincea quotidiana in cui si svolge l’esistenza degli adulti, i banali luoghi comuni possono essere questioni di vita o di morte”.

 

Una volta fuori dal teatro, Roberta Bosetti mi stringe forte la mano e mi sorride. 

Le dico: “Non si sa mai come uscire dai vostri spettacoli”. 

Mi dice: “A me restano addosso per un po’, sempre. Questo in particolare”.

 

Forse che sì, c’è luce in fondo al tunnel. Forse che no, è una lampadina dello specchio del camerino.

 

Roberta cade in trappola

The Space Between

tredicesima parte di Interior Sites Project

di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti

con Roberta Bosetti

regia Renato Cuocolo

produzione Iraa Theatre coproduzione il Funaro – Pistoia

Visto sabato 27 febbraio.

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