L'elezione di papa Francesco / Cosa c’è in un nome?

14 Marzo 2013

Non c’è probabilmente nessun’altra figura della Chiesa cristiana occidentale che abbia esercitato una forza di attrazione sulla modernità comparabile a quella di Francesco di Assisi, il poverello, il pazzo d’amore per Dio che avrebbe lasciato scritto nel suo Cantico, il più antico componimento poetico della lingua italiana, “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengono infirmitate et tribulatione”. Nel Canto XI del Paradiso, Dante faceva pronunciare a un altro celebre personaggio medioevale, Tommaso d’Aquino, un suo complesso elogio sul cui sfondo, come del resto in tutta la Commedia, si stagliava il tema della decadenza e della corruzione morale della Chiesa. Ecco dunque Francesco, nuovo Sole sorto per illuminare la cattolicità e ricondurla alla purezza originaria del messaggio di Cristo: carità e povertà. Santo popolare e ispiratore essenziale della rinascita europea, mistico e sovversivo, uomo pratico e pensatore profondamente originale che contestò il tradizionale comptemptus mundi, il disprezzo per la realtà terrena, Francesco ha seminato la sua eredità ben oltre i confini del culto cattolico e della religione in genere, sino a trapiantare, nel XX secolo del sangue e dell’acciaio, un messaggio semplice e sempre rivoluzionario – l’amore per l’altro, la giustizia sulla Terra, la dignità del lavoro umano, la sacralità della Natura, lo “scandalo” della povertà come scelta, l’accettazione di “sora nostra morte corporale” – che fu raccolto da personaggi e sensibilità diverse, da Simone Weil a Pier Paolo Pasolini, ben oltre i limiti ormai angusti della tradizione religiosa.

 

È certamente a questa eredità tanto straordinaria quanto esigente che ha pensato, assumendo il nome di Francesco, il nuovo papa, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, un gesuita dal profilo austero e moderato, del quale il giornale La Nacion ricorda in tempi recenti tanto l’impegno a favore dei poveri e le critiche alla corruzione della vita pubblica quanto l’aspra opposizione ai matrimoni omosessuali e alla legalizzazione dell’aborto, sullo sfondo di lontani sospetti di collusione con la dittatura militare. La religione cattolica e, nonostante i fondamentalismi, le religioni in genere, hanno da tempo perso la loro antica posizione di privilegio, oggi spodestate – in una tipica e raffinatamente perversa astuzia della ragione che non avrebbe probabilmente sorpreso il vecchio Hegel – non già dalle ideologie “atee” del Novecento, dai totalitarismi onnipotenti, ma da una “fine della Storia” che anziché sancire il compimento delle grandi promesse moderne – libertà, fratellanza, uguaglianza – le ha trascese in una proiezione consumista e spettacolare, in una fantasmagoria ipnotica popolata di presenze seducenti e irresistibili, gli oggetti-merce, in un presente immutabile e sempre nuovo, dove concetti vetusti come “realtà” e “senso” si ripresentano in forma di spettri e “la trasvalutazione di tutti i valori” non avviene, come aveva profetizzato Nietzsche, attraverso una sovversiva e liberatoria esaltazione della vita, ma più prosaicamente sostitendo il valore finanziario a tutti gli altri, e, in ultima analisi, a Dio. Il nulla, pur restando nulla, finisce per produrre effetti reali.

 

Poco sembrano aver da dire su tutto questo le religioni istituzionali e pochissimo certamente la Chiesa cattolica, squassata com’è dai vergognosi scandali che ne hanno distrutto la credibilità in anni recenti, dalla contiguità con le formazioni politiche più oscurantiste e antipopolari, dalle opache operazioni finanziarie sino alle distruttive rivelazioni degli abusi sessuali compiuti sui più deboli tra quanti le erano affidati, bambini e donne. L’incapacità di fare piena luce su questi mali, di denunciare responsabilità e connivenze, di trovare rimedi alla tragica alienazione dell’istituzione ecclesiastica da un mondo radicalmente mutato, di sottrarsi alle servitù oscene del potere e del denaro, sono state additate tra l’altro come motivi ultimi delle dimissioni di Benedetto XVI, sul cui regno si erano addensate negli ultimi anni ombre di oscuri complotti.

 

 

 

What’s in a name? La struggente domanda di Giulietta risuona più attuale che mai dal momento in cui il nome di Francesco è stato pronunciato dalla Loggia delle Benedizioni di San Pietro come quello assunto dal nuovo papa. È un nome difficile. È un manifesto: riformerò, farò pulizia, diraderò la tenebra, puntellerò la chiesa che crolla, come Francesco fa nel celebre affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi. Può essere uno slogan, una riuscita operazione di marketing o peggio uno di quei beffardi rovesciamenti cui ci ha abituato il newspeak contemporaneo: la Casa delle Libertà, il Ministero dell’Armonia. Ma Francesco non è comunque un nome che si possa portare in modo indifferente. È un pegno. Una promessa. In quelle poche sillabe parla un’idea che è stata centrale per la cultura di questo paese e per quella dell’intero Occidente: l’idea che il mondo, la vita umana, la pace, la giustizia sociale, sono doni straordinari che siamo chiamati tutti a custodire, a difendere, a diffondere. È una responsabilità umana e storica, non solo religiosa. Ed è questo radicamento nella vicenda terrena, questa celebrazione della vita pienamente e giustamente vissuta ciò che essenzialmente c’è nel nome Francesco. E in questo nome, da oggi, dovremo necessariamente misurare i passi del nuovo capo della Chiesa cattolica.

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