Speciale

Progetto Jazzi / Che cos’è il paesaggio fragile?

27 Novembre 2016

 

Paesaggio perduto, paesaggio fragile. I villaggi travolti dalle cascate d’acqua delle dighe o dai fiumi di parole di tanti romanzi che li raccontano (il più celebre, La pioggia gialla dello spagnolo Julio Llamazares) disegnano emblematicamente le figure limite del paesaggio fragile, quando non perduto appunto, come orizzonte estremo di un’esperienza contemporanea dello spazio colto nel suo spingersi sempre faustianamente oltre: in un al di là, apparentemente senza fine. Lasciando indietro, nella fuga, i paesaggi del tempo, con le loro forme esplose sotto la pressione di acque di dighe incontinenti, o più prosaicamente, spopolati, sfatti, invasi dai labirinti vegetali dei tanti borghi che si van perdendo. Quasi a ricalcare i giochi fantasmagorici del Marcovaldo di Italo Calvino.

 

[...] il caseggiato davanti al quale passava tutti i giorni gli si rivelava essere in realtà una pietraia di grigia arenaria porosa: la staccionata d’un cantiere era d’assi di pino ancora fresco con nodi che parevano gemme; sull’insegna del grande negozio di tessuti riposava una schiera di farfalline, di tarme addormentate. Si sarebbe detto che appena disertata dagli uomini, la città fosse caduta in balia d’abitatori fino a ieri nascosti […] Ciò che mancava per colmare gli spazi vuoti e incurvare le superfici squadrate era magari un’alluvione per lo scoppio delle condutture dell’acqua, o un’invasione di radici degli alberi del viale che spaccassero la pavimentazione.

 

Visibile e invisibile. Ciò che colpisce in tanti borghi dimenticati, sospesi quasi lungo i tracciati inerti dei valichi alpini o delle antiche vie del sale, sono proprio i volumi di una vita persa nel tempo: irrigidita come se nei suoi contorni imperfetti qualcosa non tornasse del tutto. In bilico tra natura e memoria (in cui però le distanze tra loro sembrano sporadicamente annullarsi), il paesaggio fragile, smarrito nelle sue forme, diviene così l’emblema di un abitare spaesato che ha consumato fino in fondo, nella nostra società non a caso definita "liquida", una crisi radicale nella pratica dei luoghi. Nelle immagini vulnerate e insieme gravate da un di più accumulato nel tempo che ci sfugge – piene di spessore inespresso e insieme di iati – il paesaggio fragile, caduto ai margini, si fa tensione tra lontano e vicino, tra passato e presente, riattivando inaspettatamente le rispettive trame di influenza. Denuncia, quel paesaggio leso, una ferita e insieme invita però a tentarne una sutura, un rammendo plausibile.

 

Un po’ come se al di sotto della sua visione ibrida agisse (meglio retroagisse) l’idea evocata da Georg Simmel del paesaggio in sé come esperienza di conciliazione, quasi magica, dentro le maglie di un mondo – la modernità – ipertrofico e tutto scompensato in senso artificiale: scisso fra astrazione e materia. Così da farci sentire, il paesaggio, almeno negli incanti del grande visionario, anche solo per la durata di uno sguardo, "tutti interi". Magie remote però che escono dal cilindro di un uomo del primo Novecento mentre il nostro paesaggio vulnerato – troppo vuoto o troppo pieno – sembra affondare via via al di sotto del disordine (più che dell’ordine) naturale, storico, simbolico. In un aspro vis-à-vis con i nuovi caotici sommovimenti che ci rendono, a un secolo dalle riflessioni dolceamare di Simmel, forse ormai irreversibilmente fratti davanti a ogni paesaggio (quanto poi ulteriormente scardinato, scompensato, violato).

Eppure è anche vero, lo sostiene il geografo Jean-Marc Besse, che il paesaggio non ha smesso del tutto – neanche nei nostri tempi di rovine e soprattutto di macerie – di svolgere una funzione di mediazione che consente comunque alla natura di sussistere ancora come "mondo" per l’uomo. Quel paesaggio che si disegna allora all’interno di una interrogazione di segno prevalentemente antropologico, è sempre proiezione, costruzione culturale, storico-memoriale (lo è per geografi eclettici come Eugenio Turri o per filosofi come François Jullien). Più prosaicamente, sfera dell’incrocio tra sguardi diversi. In una parola, "relazione" attiva nel tempo e nello spazio.

 

Ed è questa idea di paesaggio che orienta la mia indagine, al confine tra il suo ordine "visibile" (il gioco sedimentato degli spazi) e quello "invisibile" (la memoria profonda dei gruppi nel tempo). Lì, nel solco tracciato fin dal secolo scorso dai teorici della geografia umana (da Paul Vidal de la Blache fino al nostro pioniere Lucio Gambi), dove leggere il paesaggio significa liberare forme disegnate nel tempo, flussi, tensioni (tra distanza e contiguità), direzioni inaspettate, vuoti e accumuli… E dove, in conclusione, lo spettacolo, visibile, del presente (o l’incubo) mentre mostra in superficie le sconnessioni astratte del disegno cartografico nasconde in parallelo i segni remoti dell’intervento umano: l’impronta dell’abitare nei secoli e del lavorare (spesso indistinguibili) con la loro memoria entrata in un cono d’ombra.

Fragile ma non solo: è un’esperienza insieme labile e tenace (alcuni direbbero resiliente) quel paesaggio incerto, finito ai margini come le tante civiltà che l’hanno prodotto – lo vedremo nella montagna povera, lungo le mulattiere dell’Appennino o nelle aree interne delle case di terra cruda – di fronte al quale si è tentati costantemente di connettere fili spezzati, trattenerli in un disegno della mente. Come ci suggerisce del resto il significato, qui e là affiorante, delle forme degli edifici spesso in rovina o gli enigmi della toponomastica: ciò che, in una parola, è caduto fuori, il relitto, gli scarti del tempo sempre meno facilmente integrabili nel nostro spaesato mondo ("l’im-mondo", come è stato definito, sempre più simile alla Leonia ancora di Italo Calvino, capace di procedere nel nuovo solo producendo rifiuti, rovine).

 

Ma che cosa succede dei paesaggi vulnerati del passato – mi chiedo – quando è anche il Nuovo che ci circonda a essere diventato vecchio? In fondo, si può considerare, forse è la loro stessa fragilità a tenerli al riparo: a preservare quella trama sottotraccia "di progetti, di sguardi, di gesti, di saperi, di memorie" (nelle parole di Salvatore Settis). E ciò in una sfida pienamente contemporanea – nell’apparente non contemporaneità – lanciata dai paesaggi residuali al Mondo del Nuovo e dell’artificiale che ci è consueto ma che dolorosamente risulta a sua volta invecchiato, intriso com’è delle utopie declinanti del Novecento. Perché quel paesaggio che chiamiamo "moderno" (col suo ingombro pesante, all’opposto del paesaggio fragile), e che ha scardinato gli ordini geografici e le relative gerarchie economiche, oggi si va

drammaticamente a sua volta spegnendo: gli edifici ferrosi orfani del lavoro, le voragini dei vuoti industriali che un tempo hanno attirato come calamite gli abitanti dei margini, le palazzine non finite che aggrediscono le coste, ci parlano ormai con la lingua indecifrabile (quasi un’età del ferro) delle macerie.

Allora, nello scarto violento che viviamo, con il globale che ridisegna lo spazio e i paesaggi desueti del Nuovo che invecchia, gli antichi margini, fragili ma emersi, per così dire, al nostro sguardo, possono riaprirsi un varco nelle geografie mobili del contemporaneo.

 

Come? Anzitutto con un movimento mentale, una torsione dello sguardo: un cambio di leggenda, suggerisce Gilles Clément, l’inventore del "terzo paesaggio", quello indeciso, dimenticato, che reclama il suo ordine, necessariamente ripensato, nel disordine del mondo. Cambiare leggenda significa però ri-raccontarlo quel paesaggio, impiegando parametri accorti. Dispiegando, in via preliminare, la potenza che il linguaggio ha di rinominare ogni volta le cose in tal modo da prefigurare, per successivi scarti, nuovi orizzonti.

Spetta anzitutto alle parole, corrette dalla memoria profonda dell’abitare, il compito di riparare il paesaggio fragile, guasto. Oltre lo sguardo, questo sì opaco (e troppo corto) del presente, con il suo lessico infranto, per poterlo riguardare, quel paesaggio, e insieme averne riguardo. Oltre il disegno dispotico ma ormai disattivato nel globale (lo vedremo nelle prossime pagine) tracciato dalla cartografia nei secoli trionfanti della formazione degli Stati nazionali.

 

Questo testo è estratto da Antonella Tarpino, Il paesaggio fragile, Einaudi, 2016, p.200, € 17,50.

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