Civiltà Appennino / Appunti per un’estetica (e un’economia) delle aree interne

24 Marzo 2020

Capita poche volte che un libro, anzi una collana di libri, nasca anche come progetto civile, dunque con un proposito più ampio della condivisione delle parole, delle emozioni, delle idee, insomma di tutto ciò che di vivo si origina dalle pagine dei libri. 

Eppure Civiltà Appennino. l’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni vuole essere anche questo. A cominciare dalla bella presentazione di Piero e Gianni Lacorazza dove la progettualità e la portata culturale dell’iniziativa viene lucidamente raffigurata. Una progettualità che ha come orizzonte tutto ciò che rende peculiare la montagna appenninica e la civiltà che a lungo vi ha trovato dimora e che, per quanto è stato possibile, ha modellato nel corso dei secoli quella montagna.

Tutto peraltro avrebbe origine dal presente e da una domanda urgente, una questione in grado di unire analisi razionale e afflato emotivo, una domanda per far “dialogare” esigenza culturale e spirito civile.

Qual è oggi la cifra degli Appennini? Qual è il loro destino sociale, economico, culturale? 

Può il nostro paese, come ha fatto negli ultimi quaranta-cinquant’anni permettersi di fare a meno degli Appennini?

Più che una domanda credo sia una esigenza culturale, economica. Etica. Una domanda per possibili risposte quanto mai urgenti, prima che tutto quello che è stato e quello che è diventi un deserto.

 

È più o meno questa la domanda che devono essersi posti in Donzelli ed è in questo solco che il libro di Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo prova a tracciare le prime certezze, ad indicare le peculiarità e le eccellenze, le bellezze, le rarità, insomma i possibili o sicuri attrattori per flussi turistici probabilmente ancora di là a venire, o anche solo per individuare motivi di permanenza, le ragioni per la “restanza” come direbbe Vito Teti.

Due i focus sostanziali dichiarati in questo primo volume: la bellezza naturale, paesaggistica della montagna appenninica e la scelta e insieme la necessità di vivere un “mondo verticale”, e poi il fatto che queste montagne sono state – da nord a sud – la spina dorsale della regione mediterranea, sorta di “fulcro”, di centro di gravità come lo è il mare, un centro di gravità per quello che è stato tutto il Mediterraneo e le sue genti. E ancora la consapevolezza di tradizioni agroalimentari come grande riserva di tipicità e poi una bellezza d’insieme contraria ad ogni esibizione e fatta di raccoglimento, rarità, religiosità diffusa. 

 

 

Occorrono tuttavia occhi educati per percepire la bellezza d’insieme degli Appennini.

E sono occhi educati quelli che Giuseppe Lupo evoca attraverso gli scrittori rappresentativi della “letteratura appenninica”, da Ignazio Silone a Raffaele Crovi, da Paolo Volponi a Raffaele Nigro, a Carmine Abate, Mario Pomilio. Un insieme di autori che secondo l’ipotesi di Lupo avrebbero in comune un’inavvertita “utopia della ricostruzione”, vale a dire un segno e una sensibilità aggrappata alla fragilità di un territorio e alla necessità di ricostruirla diversamente, almeno con le parole, con le emozioni, la passione, l’impegno...

Un libro, quello della casa editrice Donzelli, che pur nelle premesse di un progetto civile di lungo respiro delinea anche inevitabilmente un’estetica d’Appennino tra bellezze naturalistiche, paesaggi dell’anima, tesori sconosciuti della tradizione alimentare e di terre sospese tra continente e Mediterraneo. Ecco, quello dell’estetica con cui si racconta oggi l’Appennino credo sia un fattore forse decisivo nel tentativo di definire autentiche possibilità di “restanza” e di sviluppo, quasi al pari di ogni nuova attività produttiva o di ogni possibile – questa sì ahimè utopistica – nuova infrastruttura.

Ma può un’estetica della bellezza naturalistica, della rarità e dell’eccezione, della tradizione nascosta essere l’unica utile alla valorizzazione della cultura appenninica? O il rischio è quello di rivolgersi a occhi “troppo educati”, avvezzi a quelle bellezze e rarità? E se è questo il quadro prescelto, il rischio non è quello di un’estetica per certi versi in qualche modo e almeno in parte “scontata”? 

Il rischio sembrerebbe essere più di una possibilità.

 

Credo ci siano ancora almeno due sensibilità che possano dare nuova luce e interesse alla cultura appenninica. La prima è la consapevolezza che in un mondo fatto ormai solo di consumatori – giù a valle, giù nelle città che hanno vinto sull’orizzonte della storia – la più grande risorsa economica degli Appennini sia la riserva di prodotti agroalimentari e di cucina tradizionale che oggi è appunto appenninica e appenninica mediterranea. Raccontarla, saperla raccontare e condividere nelle molte forme che consente la modernità, potrebbe aprire spazi nuovi alla cultura dei territori come al costituirsi di nuove filiere produttive e di consumo.

 

L’altra, più che al “vivere un mondo verticale”, come elemento caratteristico della cultura appenninica (quella alpina non ha forse la stessa necessità e vocazione?) è relativa a un tratto forse ancora più essenziale, vale a dire l’irrequietezza e il pendolarismo esistenziale delle sue popolazioni, che era per loro sorta di necessaria e atavica “costituzione fisica e morale”. Non era solo la perenne e periodica transumanza di genti e di greggi, ma era tutta un’umanità nomade (pastori, mulattieri, artigiani, operai, contrabbandieri, mercanti, musicanti, persino venditori di libri) che nei secoli hanno oscillato tra monti e piano, monti e coste, inseguendo il lavoro, la bella stagione e sempre un’altra vita.

 

 

Una transumanza di umanità periodica e perenne, almeno fino agli anni 50, 60 e 70 del secolo scorso quando gran parte di quell’umanità si è definitivamente fermata nelle città, sulle coste e sul piano. In quegli anni, quelli del boom economico, gli Appennini e le sue genti sono precipitati a valle, risucchiati da trasformazioni economiche epocali e contribuendo con questa ultima gigantesca transumanza a rendere l’Italia il paese che è oggi. Ecco, questi Appennini precipitati a valle e la loro azione sulla società italiana credo possano essere un punto di vista difficilmente eludibile per raccontare compiutamente quella che è ed è stata la cultura appenninica. Quella “calata a valle” è stata insieme un’epopea ma anche l’atto finale della loro transumanza irrequieta ed esistenziale. Ancora oggi i borghi deserti quanto accuratamente restaurati – che tanto affascinano occhi educati e stranieri – sono parte di quell’estetica che può sì sedurre, ma che si dimentica che è stata anche etica, anche nel momento in cui quella civiltà veniva scossa alle fondamenta economiche. È l’insieme di questa storia, di questa etica ed estetica intrise di nomadismo mediterraneo e pendolarismo esistenziale, mescolate tra loro, che si avverte ancora su muri di pietra capaci di riflettere la bellezza, il silenzio, l’irrequietezza che resta...

Che poi molto di tutto questo possa essere ritrovato anche in cibi e in tradizioni nascoste quanto antiche, è forse l’ultimo possibile lascito in grado di far dialogare i monti con il piano, in grado di unire le aree sconfitte dalla modernità e le nostre città brulicanti di noi consumatori, nostro malgrado avidi di storie, di bellezza e rarità. 

Questo lascito è forse un paradosso, è una conseguenza accessoria e necessaria del nostro presente.

 

Ben dentro a tutto questo, l’idea di un’estetica che possa raccontare l’Appennino oggi, nelle sue concretezze e attualità è qualcosa che dalla Val Borbera deve peraltro esserselo chiesto – tra terra, parole e semenze antiche, tra arte e agricoltura, note e trattori – il gruppo che sta lavorando alla realizzazione del documentario AppenninoPop. Maurizio Carucci (frontman degli Ex Otago), Cosimo Bruzzese, Elisa Brivio, Eugenio Soliani) da Cascina Barban (un progetto agricolo ampio, collettivo, che si basa sul recupero e la coltivazione naturale di vecchie varietà vegetali) hanno scelto un nome che sembra essere una dichiarazione d’intenti. Sarà una delle possibilità con cui si può raccontare l’Appennino oggi. Vuole essere un tentativo per nuovi racconti, nuovi sguardi, nuove possibilità – anche economiche e reali – oltre ogni malinconia, oltre ogni paesologia, dentro e fuori ogni estetica fatta di sguardi troppo educati.

Quanto questo tentativo sarà riuscito lo vedremo presto... questo intanto il teaser:

 

https://youtu.be/dfiTOVHbu18

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