Antonio Tabucchi in viva voce

5 Luglio 2022

Tra le carte manoscritte di Antonio Tabucchi, ora in gran parte conservate a Parigi alla Bibliothèque Nationale de France, si trovano anche i quaderni contenenti la prima versione manoscritta del suo romanzo più famoso, Sostiene Pereira (1994). Questa stesura non presenta vistose differenze con la versione definitiva, ma numerose piccole varianti che danno un’idea del modus operandi di Tabucchi, e del lavoro di rifinitura e condensazione che dedicava ai suoi racconti e romanzi. Tra queste, un piccolo ripensamento può colpire.

Quando Pereira ritorna a casa dopo un viaggio più breve del previsto alle terme del Buçaco (dove illusoriamente pensava di trovare un po’ di pace insieme all’amico Silva) e non trova nessuno ad accoglierlo – non la moglie, ormai defunta, e nemmeno Piedade, la donna di servizio, partita per le ferie d’agosto – il narratore, parafrasando come in tutto il libro le parole che Pereira gli sta raccontando, commenta: ‘Questo fatto in fondo lo sconfortò. Non gli piaceva essere solo, completamente solo, senza nessuno che si occupasse di lui’.

Questa solitaria e triste versione di Pereira, del tutto congruente con l’immagine del personaggio fissata nella memoria del lettore è, tuttavia, frutto di un rovesciamento attuato da Tabucchi nella versione finale. Nella prima versione manoscritta, infatti, la reazione di Pereira e il commento del narratore erano esattamente opposti: ‘Questo fatto in fondo lo confortò. Gli piaceva essere solo, completamente solo, senza nessuno che si occupasse di lui.’ Più che su Pereira, forse, questo contraddittorio ripensamento rivela qualcosa sulla personalità dell’autore.

Questa ambivalenza tra desiderio e mal sopportazione della solitudine, tra isolamento e estroversione sembra, in effetti, riflettere il carattere di Tabucchi pronto a lasciare tutto e tutti per rinchiudersi in completa solitudine in una casa in Maremma (declamando a voce alta il monologo di Il tempo stringe) o a Vecchiano (per scrivere, nel giro di un mese, Sostiene Pereira) e allo stesso tempo disponibilissimo alla conversazione, alla convivialità come dimostrano una volta di più le lunghe interviste concesse a due traduttori e profondi conoscitori della sua opera che ora vengono per la prima volta integralmente tradotte e pubblicate in Italia da Feltrinelli nel volume Zig zag. Conversazioni con Carlos Gumpert e Anteos Chrysostomidis, per le cure di Clelia Bettini e Maurizio De Rosa, e con un’introduzione di Anna Dolfi.

A Carlos Gumpert Tabucchi, infatti, esplicitamente confessa: ‘Credo di essere una persona piena di contraddizioni, tra cui quella di essere un solitario che detesta la solitudine’ (p.121). 

Se si insiste – indebitamente? – su queste assonanze tra vita e scrittura è perché è lo stesso Tabucchi a sottolineare a più riprese l’importanza di questo binomio nel corso di queste interviste. La scrittura di Tabucchi non è mai apertamente autobiografica, ma questo non vuol dire, come da lui stesso più volte ricordato, che non ci siano elementi autobiografici trasposti e filtrati nella sua prosa: la letteratura è, infatti, sempre ‘una forma obliqua di confessione’ (p. 196).

In controtendenza rispetto a certi approcci critici, conoscere la vita di un autore diventa secondo Tabucchi indispensabile per capirne l’opera. Come dimostrano anche le note biografiche alla fine di Sogni di sogni (1992), o i vari coccodrilli e ‘ricorrenze’ pubblicati da Pereira nel suo “Lisboa”, ‘la biografia degli autori … è inscindibile dalle loro opere’ (p. 198). Sta qui, innanzitutto, l’importanza di Zig zag: nel ricostruire, grazie alle domande poste dai due intervistatori, il percorso umano e artistico di Tabucchi. Ripercorrendone l’infanzia, i primi viaggi a Parigi e in Portogallo, gli esordi nella scrittura, il volume traccia un vero e proprio ritratto della figura di Tabucchi, non nella fredda forma di una cronologia, ma attraverso le parole dell’autore.

In queste interviste è, infatti, la voce di Tabucchi che ritorna in primo piano dieci anni dopo la sua scomparsa, occasione che ha portato a una grande messe di eventi in tutto il mondo, a riedizioni, nuove traduzioni e pubblicazioni (tra l’altro, in Francia, Seuil ha pubblicato un altro ‘dialogo’, quello tra Tabucchi e Bernard Comment, Écrire à l’écoute. Dialogues avec Bernard Comment).

Nella sua sentita e acuta introduzione, Anna Dolfi, seguendo le riflessioni di Tabucchi, si domanda se in questa voce trascritta sia possibile ritrovare tracce riconoscibili della sua ‘vera voce’, se lo iato tra la voce e la scrittura possa essere in qualche modo conciliato. È vero che la voce è viva, è materia ‘biologica’, mentre la scrittura è ‘minerale’ – dice Tabucchi, parafrasando il suo Tristano – ma la scrittura resta necessaria (p. 244). È proprio grazie alla scrittura che le parole possono essere in qualche modo trattenute, salvate dalla dissoluzione, a beneficio di chi quella voce non l’ha sentita in prima persona, e può provare ad ascoltarla ora attraverso chi lo ha conosciuto. 

Già pubblicata in Spagna nel 1995 per i tipi di Anagrama, l’intervista che apre il volume, intitolata ‘Sabati d’inverno’ rielabora e riporta le lunghe conversazioni che Tabucchi e Gumpert intrattennero tra il 1991 e il 1992, ampliata con i materiali (anche inediti) raccolti in seguito, in occasione dell’uscita di nuove opere di Tabucchi. La stesura finale dell’intervista, molto rielaborata ma che tenta di conservare il carattere orale di quegli incontri, si articola in due parti: la prima affronta i temi della scrittura tabucchiana e il contesto il cui si è sviluppata (‘infanzia e vocazione’; ‘la biblioteca di uno scrittore’, ‘la penisola iberica’: questi alcuni dei titoli delle sottosezioni); la seconda, invece, si concentra più analiticamente sulle singole opere di Tabucchi in ordine cronologico di pubblicazione, dall’esordio con Piazza d’Italia (1975) fino a Tristano muore (2004).

Nella seconda parte del volume, invece, si trova ‘Una camicia piena di macchie’, la conversazione con Anteos Chrysostomidis, già pubblicata in Grecia nel 1999 (da Agra). Più compatta e più erratica – da Vecchiano a Delfi ogni sezione è accompagnata dal riferimento al luogo e all’occasione in cui la conversazione è avvenuta, a ricordare anche il cosmopolitismo dell’autore – questa intervista ripercorre sempre con occhio attento i temi e le questioni che hanno contraddistinto la scrittura di Tabucchi. Proprio per il momento particolare in cui è stata raccolta, l’intervista fa emergere meglio che altrove i temi e le riflessioni che animano l’ultima, stratificata e complessa, produzione tabucchiana. 

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È un genere strano, quello dell’intervista letteraria, che sta acquisendo sempre più spazio e rilevanza all’interno del campo letterario (per fare un solo esempio recente: si pensi al monumentale terzo volume delle Opere complete di Primo Levi, tutto costituito da conversazioni e interviste). Tuttavia, pone delle domande a cui non è sempre immediato rispondere: a chi va attribuita la paternità dell’opera, all’intervistato o all’intervistatore? O è una forma di autorialità condivisa? Molto dipende se si vuole considerare l’intervista come una sorta di saggio critico che si nutre della voce dell’autore oggetto di studio, oppure come un’opera letteraria a tutti gli effetti, da far rientrare all’interno della produzione dell’autore.

Leggendo le introduzioni di Gumpert e Chrysostomidis alle rispettive interviste, sembra che in questo caso sia la forma del saggio critico a prevalere. Gumpert è esplicito: la sua lunga e minuziosa conversazione si propone come ‘una proposta di lettura organica dell’opera di Tabucchi, sottoposta all’attenzione dell’autore prima di essere sottoposta al lettore’ (p. 34). Chrysostomidis è più sfumato, sottolinea la forma più casuale e ‘divertita’ dell’intervista raccolta, ma rivela comunque il desiderio o l’intento di fornire un’introduzione all’opera di Tabucchi, fruibile anche da chi non conoscesse l’autore. 

Intervista come saggio critico, dunque? La forte mediazione dell’intervistatore, anche linguistica (sono ‘interviste al quadrato’, dice Dolfi, tradotte due volte: dall’italiano allo spagnolo e al greco, e poi riportate all’italiano dai curatori) rende difficile considerarle come tradizionali opere letterarie d’autore. E però, si potrebbe osservare che il ricorso frequente (e ripetuto tra un’intervista e l’altra) di determinate metafore e concetti, potrebbe suggerire anche una lettura più sottile e un bisogno di un intervento ermeneutico non banale. ‘La letteratura richiede … una lunga esegesi, che può risultare alquanto difficile, come un’operazione chirurgica’ (p. 184) osserva Tabucchi in dialogo con Gumpert, facendo ricorso a una similitudine medica che ricorre spesso anche nei suoi testi narrativi, dove è il narratore a essere paragonato a un chirurgo (per esempio, in ‘Voci portate da qualcosa impossibile dire cosa’ in L’angelo nero (1991), o in ‘Forbidden Games’ in Si sta facendo sempre più tardi (2001)).

O ancora la ricorrente riflessione sull’alloglossia, descritta (sotto il nome tutelare del citatissimo Beckett) come viaggio tra due rive di un fiume, poli linguistici, geografici e esistenziali tra i quali è difficile navigare. Oppure ancora l’atteggiamento spesso ironico, un po’ reticente, tipico tanto della prosa tabucchiana, quanto di certe sue risposte a tratti elusive che richiedono al lettore di trovare una delle possibili chiavi di lettura. 

Rielaborando e rovesciando quell’‘assioma perfetto’ di origine cechoviana per cui ‘se all’inizio di una storia il protagonista pianta un chiodo nel muro, finirà per appendere un quadro’, Tabucchi con programmatica ironia afferma, infatti, che nei suoi libri (si riferisce in particolare a Si sta facendo sempre più tardi) ‘non ha fatto altro che martellare chiodi senza mettere alcun quadro. Il mio libro è un muro pieno di chiodi, saranno gli altri che dovranno appenderci i quadri’ (pp. 231-232). Più che avallare questa o quella teoria critica, Tabucchi cerca in tutti i modi di sottolineare come la letteratura (e la critica) sia solo una parte della vita. E la vita – come la voce – non può essere fissata o catturata in alcun modo in un testo.

Certo, viene ripetuto spesso, ‘la letteratura è una forma di conoscenza’, ma è per natura limitata e incapace di fornire qualsiasi idea di totalità, se non per indizi (à la Carlo Ginzburg), interstizi o crepe: ‘Credo che la letteratura – dice ancora Tabucchi – a volte offra la chiave, non dico per penetrare in questo mondo, cosa che sarebbe fin troppo importante, ma almeno per avvicinare l’occhio a questa crepa e cercare di guardarvi dentro. Del resto, sai, la realtà è come un muro di cemento, un muro incredibilmente compatto’ (p. 290). Dichiarazioni, queste, in cui si può ritrovare, in nuce, anche il senso più profondo dell’impegno politico e intellettuale di Tabucchi. 

Al netto di un certo (autodiagnosticato) ‘apocalitticismo’ verso i media e la tecnologia di alcune affermazioni, forse troppo semplicistiche e datate (anche se poi spesso contraddette dalla sua narrativa), in queste interviste Tabucchi mostra una grande lucidità critica e un grande intuito nel cogliere i mutamenti storici e letterari. L’insofferenza per i tentativi di ingabbiare e fissare la materialità e la molteplicità della vita si riflette, per esempio, anche in un’insofferenza di Tabucchi verso etichette e categorie critiche (‘Nel postmoderno, no, non ci credo!’, sbotta a p. 331) e verso gli atteggiamenti di critici troppo rigidi, ‘eugenetici’ come li definisce (p. 232), affannati come sono a rintracciare la purezza (inesistente) delle forme e dei generi.

In realtà, viviamo in un mondo ‘incline alla miscegenazione’ (ibid.), popolato da forme ibride e contaminazioni. Per questo, la letteratura deve saper sporcarsi con la vita, mettere insieme l’immaginario con il materiale – per citare Remo Ceserani, con il quale Tabucchi ha a lungo conversato di questioni letterarie. Come riassume Tabucchi alla fine del dialogo con Chrysostomidis, ‘la pagina letteraria ha spesso bisogno di macchie, di macchie di sugo, di grasso, di sangue – come la vita. Non dev’essere sterilizzata. Dev’essere come siamo noi esseri umani, con i nostri difetti, che è meglio non nascondere’ (p. 333).

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