Artpod / Anselm Kiefer, “Ohne Titel”, 1984

3 Marzo 2022
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Senza titolo è un nome neutro. A differenza di quelli di molte altre opere di Kiefer, tratte da versi di poeti amati, da mitologie e leggende di ogni cultura e latitudine, e perciò ricchi di suggestioni e risonanze liriche ed epiche, questo non offre alcun appiglio. Non spiega, non allude, non orienta. Lascia che sia lo spettatore a inoltrarsi nel groviglio di segni e vi rintracci il senso nascosto. 

Il formato è verticale, ma la larghezza misura quasi due terzi dell’altezza, dunque la dimensione non ricorda quella di una finestra né di una porta. È piuttosto essa stessa una parete: un “luogo”. Ohne titel fa parte di un progetto più vasto, perché la serialità è uno degli elementi distintivi della produzione di Kiefer, che declina fino all’estinzione il tema cui di volta in volta si dedica. Ma lo sguardo del visitatore che di ciò sia ignaro impatta subito con la superficie – ruvida, crostosa, a rilievo: Kiefer ha del resto affermato di non considerarsi un pittore, ma “uno che lavora con la materia”. Manipola, amalgama e contamina colore, metallo, residui organici. Qui: paglia, gommalacca e piombo, trasformato e plasmato attraverso il fuoco. 

 

Il crogiolo materico delle sue opere rimanda al processo alchemico, al quale Kiefer si ispira, ma trasmette piuttosto la vertigine della devastazione: uso deliberatamente il termine Vertigine del poema autobiografico di Sebald, il grande scrittore tedesco quasi coetaneo, il cui percorso è stato parallelo al suo. Allora la devastazione diventa una sorta di memoria ancestrale del paesaggio tedesco sul quale Kiefer ha aperto gli occhi nel marzo del 1945, due mesi prima della fine di Hitler e del Terzo Reich, quando la Germania era un caos di macerie fumanti, e pietra, terra, carne e metallo fusi in un’immane distruzione – preludio però di rinascita e resurrezione. 

Tuttavia Kiefer è un artista che non lavora solo su ciò che in letteratura chiamiamo “significante”. Simbolo, mito, religione, storia, il “significato”, costituiscono per lui materiali di costruzione altrettanto strutturali della materia con cui li esprime e li stravolge. E quindi tentiamo di decifrare le immagini che affiorano su questo spazio desolato e radiante. 

 

Distinguiamo subito il serpente, il cui corpo arrotolato in triplici spire si snoda poco sopra il limite inferiore dell’opera; quindi una scala che dal suolo si slancia verso il cielo; esili filamenti paralleli a essa e infine quella che sembra una nuvola, in espansione, in avanzamento, come quando spenti i fuochi artificiali i fumi ancora luminosi si disperdono nell’aria e ricadono su di noi.

 

Ora una scala piantata nella terra, senza appoggiarsi a nulla, non è solo un insieme di linee, o un oggetto qualunque. Nella pittura occidentale è la metonimia di una delle storie bibliche più esoteriche, La scala di Giacobbe (Genesi, 28, 10-19). Il figlio di Isacco, partito da Beer-Sheba, è in viaggio verso oriente, diretto al paese di Labano, dove dovrà prendere moglie. La notte lo coglie a Bethel ed è costretto a fermarsi a dormire là dove si trova: si corica sulla terra, con una pietra come capezzale. “E sognò: ed ecco una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, ed ecco gli angeli di Dio che salivano e scendevano per la scala”. In cima alla scala gli appare l’Eterno, che gli annuncia la benedizione della sua progenie (sarà come “la polvere della terra”), la propria protezione e permanente presenza in quel luogo, che in realtà è la casa di Dio. Al risveglio, Giacobbe pone la pietra come monumento e fa voto al Signore che se realizzerà quanto promesso crederà in lui.  

 

La scala è dunque la strada del cielo, e – come in altre opere di Kiefer la colonna o l’albero – l’immagine del collegamento fra l’uomo e Dio, il mortale e l’eterno, il particolare e l’infinito. Perché in Kiefer sempre un flusso vitale unisce corpo e universo, spirito e materia. Ma gli Angeli “che salivano e scendevano”? Sono loro a garantire la dinamica fra cielo e terra. Giacobbe non viene invitato a salire sulla scala: sono gli angeli ad assicurare che il passaggio fra i due mondi è aperto. 

 

La serie di Ohne Titel – realizzata negli anni Ottanta, dopo la conclusione del controverso progetto sulle Occupazioni e la Germania Eroica; dopo la serie degli Engels, 1977, e contemporaneamente a quella dei Seraphim, gli angeli che si purificano attraverso il fuoco, 1983-84 – è dedicata proprio “al tema degli angeli”. Qui angeli non se ne vedono: a meno che non siano loro quelle righe filanti di colore che ripetono le stanghe verticali della scala. C’è un serpente, invece, e di dimensioni esagerate, irreali: e nell’esegesi biblica il serpente è immagine dell’angelo – ambigua creatura non umana né divina, insieme messaggero di redenzione e ribelle scacciato dal cielo. 

 

Nel luogo che sarà la casa di Dio non c’è nessun Giacobbe eletto da Dio con la sua progenie. Noi vediamo il suo sogno: in una terra cupa l’unico angelo può essere un aiutante (la testa del rettile punta verso destra, il lungo corpo sembra in atto di srotolarsi) oppure un tentatore che facendo cadere la scala ci sbarrerà la strada della redenzione. Eppure la scala resiste: inclinata, appoggiata su un solo montante, non cade. La paglia combusta è ormai cenere grigia ma il chiarore celestino là in alto annuncia che la notte sta per finire. Il sognatore è prossimo al risveglio. In quell’istante ancora onirico ma già abitato da una labile coscienza e memoria, ha avuto la visione di una possibilità. Questa è un’opera sulla salvezza. 

 

Legge Roberto Magnani del Teatro delle Albe.

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