Annie Ernaux al supermercato

5 Luglio 2022

La discussione intorno all’universo dei supermercati e dei mall vive all’interno di una bolla ideologica molto marcata, fatta di visioni polarizzate e per lo più non comunicanti. Gli argomenti su cui si arrovella, davvero raramente prendono in considerazione questi spazi come dispositivi urbani produttori di socialità, preferendo piuttosto pensarli come irrilevanti e, in definitiva, insignificanti. Con il paradosso che pur essendo protagonisti della vita quotidiana di ognuno, fuori dal rumore di chi gli strepita contro e di chi invece ne canta acriticamente le lodi, i supermercati vengono degradati a mera trivialità. Vi si va a fare la spesa perché bisogna farlo, ma il tempo trascorso al loro interno è destinato a essere cancellato, rimosso da qualsiasi resoconto di vita, da qualsiasi racconto. 

Stante un siffatto quadro generale, come scrivevo qualche tempo fa su queste pagine, di tanto in tanto, spunta qualche intellettuale o qualche artista che, affascinato dall’idea di ritrovare il tempo perduto fra le sue gondole, provi a metterlo in forma in qualche modo. 

Guarda le luci, amore mio di Annie Ernaux, uscito in Francia nel 2014 e appena pubblicato in traduzione italiana (di Lorenzo Flabbi, che ha tradotto anche tutti gli altri libri della scrittrice francese editi da L’orma) per i tipi di L’orma (pp. 107, € 13), chiede innanzitutto di essere riconosciuto per quello che è, un’impresa letteraria esito di una poetica e di una visione del mondo peculiare, che merita quindi di essere ricostruita. Annie Ernaux è una scrittrice molto nota, a cui Doppiozero ha dedicato un bell’ebook di Alice Figini. Attiva nei movimenti di liberazione femminista, esordisce negli anni 70 come giornalista e scrittrice (il suo primo romanzo è Gli armadi vuoti del 1974).

Già dalla sua prima produzione si può riconoscere un tratto fondamentale della sua scrittura: Ernaux vuole parlare di sé, eleggendo a suo tema prediletto i dilemmi e le contraddizioni che derivano dal ritrovarsi individualmente toccati da una condizione politica svantaggiata. Il problema dell’aborto (affrontato in in Gli armadi vuoti, Rizzoli, 1996, e soprattutto in L’évenement, trad. it. L’evento, L’orma, 2019; vedi recensione su doppiozero), quello dello straniamento adolescenziale (Ce qu'ils disent ou rien, 1977) o ancora dell’alienazione di una vita da casalinga (La Femme gelée, 1981, trad. it. La donna gelata, L’orma, 2021; vedi recensione su doppiozero), discussi in ambito femminista, vengono ancorati alla propria biografia, raccontati come testimonianze di vita, in modo che il lettore sia portato a fare un percorso all’indietro, geneaologico si potrebbe dire, che dal politico si rivolge al vissuto, per ritrovarne le ragioni. 

Perché un tale itinerario risulti efficace, però, bisogna assumere un atteggiamento critico innanzitutto rispetto alla propria posizione individuale. È a questo proposito che si può riconoscere un’altra peculiarità della scrittura di Ernaux, ovvero quella di costituirsi a cavallo fra i generi: autobiografia, politica, resoconto, osservazione etnografica, analisi sociale e sociologica si affastellano senza soluzione di continuità, in modo che sia davvero difficile ascrivere i suoi lavori univocamente a un qualche genere.

Un tale atteggiamento viene mantenuto anche nella produzione successiva, che sceglie di estendere (senza ovviamente cancellarla) la riflessione sull’esclusione delle donne all’interno di un quadro più generale di esclusione sociale. Questo problema viene ancora una volta preso in carico attraverso una prospettiva personale, interessata a fare emergere le contraddizioni esistenziali determinate dalle dinamiche politiche. In un altro romanzo (Il posto, 1983, trad. it. L’orma 2014), il suo progressivo distacco dalla famiglia di origine, di estrazione proletaria, viene raccontato come una dolorosa metamorfosi. Il fatto che una ragazza figlia di operai si rivolga agli studi, frequentando il liceo e l’università ha, infatti, la conseguenza imprevista di segnare una sorta di reciproco allontanamento dai suoi cari sulla base dell’inconciliabilità di ritmi e orari, di stile di vita, interessi, frequentazioni e amicizie. Il rimorso e il dolore per una tale separazione è una tragedia individuale che risponde, nota Ernaux, a logiche politiche, è conseguenza di rapporti di potere. 

La veloce ricostruzione di un tale itinerario intellettuale è fondamentale per capire come la proposta di intervenire in una nuova collana dell’editore Seuil consacrata a “raccontare la vita” sia potuta sembrare a Ernaux un’occasione da cogliere al volo. A questa chiamata Ernaux risponde immediatamente, proponendo di scrivere sui supermercati. Questi spazi della contemporaneità rientrano infatti perfettamente nello schema appena descritto.

Sono, come si diceva in apertura, un argomento strombazzato nel dibattito politico che, però, paradossalmente appare sganciato dalla vita vera dei mille consumatori che giorno dopo giorno, silenziosamente, per i loro affari, lo attraversano. È, allora, ancora una volta assumendo questa contraddizione su di sé che l’autrice sceglie di procedere, non prima di aver rilevato come anche il racconto della sua vita fosse pieno di omissis, il tanto tempo trascorso al supermercato munita di carrello a barcamenarsi fra un’offerta e l’altra nel bagliore delle sue luci. 

Può bastare munirsi di taccuino per recuperare. Non è necessario andarci apposta, ci si va già spessissimo per le proprie incombenze. Non serve nemmeno “liberarsi” dalle proprie convinzioni e/o delle proprie idiosincrasie. Né, invero, essere di buon umore. Basta tenere un diario ed essere sinceri, resistendo alla tentazione di sciogliere anzitempo la contraddizione di essere un’intellettuale ideologicamente ostile al mondo che questi spazi rappresentano e, contemporaneamente, una consumatrice docile. 

I supermercati sono familiari, perché li si comincia a frequentare fin da piccoli, sono sentimentalmente sensibili, perché in essi si comprano oggetti e alimenti per le persone care e per gli eventi speciali (compleanni e ricorrenze). Per chi li attraversa sono, al contrario di quanto sostenuto da Augé che li classifica come non-luoghi senza identità, luoghi a tutti gli effetti, con un grande valore simbolico e affettivo. A ben vedere, però, riconoscere loro un’esistenza simbolica non significa, per forza, assumere nei loro confronti un atteggiamento “integrato”, disposto a far loro sconti.

Anzi, un tale attaccamento emotivo, se si vuole, complica le cose, rendendo più arduo comprendere cosa ci sia in essi che non vada. Frequentarli con il taccuino in mano permetterà, forse, di capirlo e, per questo tramite, di ricostruire il filo spezzato che connette critica sociale e vissuti concreti dei suoi tanti visitatori. Ritrovare le ragioni di questa stessa critica sociale negli sguardi alienati dei suoi visitatori fornirà, inoltre, una ricostruzione per così dire “aggiornata” della macchina politica del consumo. I supermercati, come i mall cambiano continuamente, così come cambia la società: tenere aggiornata la mappa delle loro metamorfosi è un passo fondamentale per ogni analisi efficace. Anche a questa esigenza risponde l’esplorazione dell’autrice. 

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Ma andiamo al sodo. Annie Ernaux riporta il resoconto delle sue visite al supermercato Auchan di Cergy nei pressi di Parigi da giovedì 8 novembre 2012 a martedì 22 ottobre 2013. Una cosa che nota fin dal primo giorno è che i supermercati sono ossessivamente concentrati sul futuro e aspirano a scandire il tempo sociale, anticipando – con un’attitudine più che pelosa se si considerano gli aspetti evidentemente commerciali della cosa – quanto più possibile anniversari e festività, in modo che già l’otto novembre, nemmeno una settimana da Halloween, il supermercato sia agghindato di tutto punto con le offerte di Natale.

Ma, nota a un certo punto Ernaux, il supermercato fa così con ogni credo e/o gruppo etnico demograficamente rilevante nella zona di consumo di sua pertinenza: festività musulmane, ebraiche sono altrettanto pelosamente evocate in modo che la ragione commerciale (fondata sul denaro, per dirla con Simmel, significante universale) possa apparire massimamente inclusiva. Il supermercato mette in atto un sottile sistema di adattamento alle credenze dei consumatori in modo che le loro convinzioni più radicate non vengano di regola confutate. Se nel caso delle credenze religiose e dei calendari festivi un tale atteggiamento finisce per avere un esito progressivo, lo stesso non si può dire delle aspettative di genere.

I giocattoli, per esempio, sono fortemente genderizzati, in modo che quelli rivolti al pubblico maschile (guerrieri, astronavi, dinosauri) siano distinti e distanti da quelli rivolti al pubblico femminile (bambole, cuccioli e quant’altro). È a questo proposito che si può forse prendere atto dell’attitudine di ricostruzione ideologica portata avanti da Ernaux. Svariate decine di anni dopo il famoso articolo di Barthes sul ruolo prescrittivo e omologante dei giocattoli nella cultura borghese (contenuto in Miti d’oggi, 1957), e, soprattutto, dopo che nel merito se ne sono dette di cotte e di crude, che intorno alla “de-genderizzazione” dei giocattoli si muovono gruppi di attivisti e si discute alacremente, Ernaux è ancora interessata a sollevare la questione, riconoscendo il supermercato come luogo di propagazione di una retorica fatale, che le persone come lei, la sua comunità, da sempre combattono. Anche per questo si può essere ostili ai supermercati. E ribadirlo può essere utile a riconquistare una prossimità fra discorso politico e dimensione esistenziale.

Un altro aspetto del supermercato oggetto di riflessione è il fatto che, a dispetto dell’inclusività naturalmente propugnata sulla dimensione simbolico/etnico/religiosa, le differenze di potere d’acquisto siano pesantemente marcate. Ernaux rileva come il supermercato Auchan che si ritrova a battere, abbia allo scopo costituito una vera e propria area hard-discount con prodotti sfusi e anonimi destinata ai consumatori con limitato potere d’acquisto. Percorrendo questa area nota come cambi il tono della comunicazione: si dismettono i toni adulatori comunemente tenuti e aumentano i cartelli intimidatori contro il taccheggio.

Si associano, insomma, tanto arbitrariamente quanto meccanicamente reddito e devianza, dando luogo a una sorta di presupposizione di colpevolezza per i clienti che dovessero prediligere per ragioni meramente economiche (dato che si tratta di un’area assai trascurata dal punto di vista estetico) questa zona. Anche qui: a dispetto della retorica conciliante liberal che vorrebbe superati i conflitti di classe, Ernaux li ritrova al supermercato, ancora una volta confermando la propria posizione politica e riannodando i fili che legano la sua traiettoria, come la traiettoria di qualsiasi altro cliente, al collettivo. 

Intriganti sono anche le considerazioni intorno al reparto libri. Reparto di regola deserto di cui Ernaux, peraltro, assiste alla progressiva ghettizzazione (nella misura in cui viene spostato alla fine del percorso di attraversamento), come se il supermercato facesse di tutto per scoraggiare la lettura. Se poi si guardano i libri esposti va anche peggio. Bestseller, instant book e manuali la fanno da padroni restituendo un’idea di cultura ridotta a merce d’incanto. 

È con la presa d’atto di come anche l’ultima riserva di umanità del supermercato, rappresentata dalla presenza quotidiana, personale e fisica delle cassiere, possa essere sostituita da “pistole” per il self-scanning della merce man mano prelevata dagli scaffali che la misura può ritenersi colma. Questa è, infatti, la goccia che fa traboccare il vaso, realizzando l’apice di una sorta di climax costruita lungo tutto il corso della narrazione diaristica. Adesso questa narrazione può rivelarsi come un vero e proprio processo di acquisizione di coscienza politica: si comincia guardando le luci del supermercato con languore e, man mano che la consapevolezza cresce, si capisce come queste stesse luci funzionino a tutti gli effetti come esche di una trappola. Strappare la tessera-clienti è il gesto che Ernaux si intesta con la volontà di indicare la via del riscatto, la possibilità di emancipazione dalla sua gabbia. 

Ed è allora, alla fine di un tale resoconto, che vale la pena tentare di ponderare nel merito le considerazioni proposte da Ernaux e dalla sua visione “apocalittica” del supermercato, domandandosi se l’osservazione etnografica proposta sia sufficiente a sostanziare i “capi di imputazione” proposti. Proviamo a ritornare sugli esempi appena riportati, arbitrariamente estratti dalle considerazioni progressivamente inanellate da Ernaux lungo la sua esplorazione. Si può notare come un primo bias del ragionamento proposto sia legato all’ambiguità con cui si riferisce al supermercato.

Non è chiaro quanto il supermercato sia imputabile in quanto meccanismo specifico degli effetti deleteri che si segnalano o piuttosto esso ne sia più o meno consapevolmente specchio. È il supermercato in quanto tale a marcare una genderizzazione forzata dei giocattoli in vendita o il problema è più ampio? Se si entra, in un negozio di giocattoli qualsiasi, fuori dal mall, siamo sicuri che le cose cambino? Del resto, posto che nessuno contesta che i giocattoli abbiano una valenza ideologica, quanto l’idea che i giocattoli debbano dismettere un tale ruolo ideologico presentandosi come post-gender o color-blind è davvero condivisa dai un numero sensibile di consumatori? Sono anche queste domande politiche. 

Se si guarda poi alla zona hard-discount, non sarebbe stato utile verificare se il format di Auchan corrisponde alla norma? In un altro contesto, quello italiano, un tale layout è stato effettivamente utilizzato dalla catena francese ma, allo stesso tempo, si può rilevare come quasi nessuna delle altre concorrenti l’abbia seguita in questa scelta. È allora corretto imputare una tale volontà di “ghettizzazione” ai supermercati tout-court o sarebbe stato meglio evidenziare come un tale effetto sia frutto di una particolare scelta (peraltro, non premiata dal successo) di una catena in un dato momento del suo percorso storico?  

Ancora, si può rilevare come del supermercato si dia una visione monadica che mal si attaglia a spiegare alcune dinamiche descritte. Che il reparto libri sia vissuto come del tutto secondario, una “zavorra” all’interno di un punto vendita che nasce per commerciare cibo e beni di prima necessità è il segno di una volontà di marginalizzazione della cultura e del suo ruolo o piuttosto un processo coerente con la vocazione del supermercato stesso?

Chi davvero considererebbe il supermercato come luogo di elezione per comprare un qualsiasi libro? Non è perfettamente razionale, se solo si considerasse il supermercato all’interno di un più ampio tessuto urbano, che un cliente possa fare la spesa al supermercato e una volta uscito passare in libreria e prendere il romanzo che gli interessa? E, ancora, come non prendere in considerazione il fatto che le librerie fisiche hanno ormai ceduto il passo a giganteschi store digitali, in cui si può trovare gran parte della produzione editoriale internazionale disponibile e recapitata posto casa, con un notevole risparmio di tempo e di denaro? Guardata in questa luce, è davvero una “colpa” quella di tenere un reparto libri “povero” con qualche best-seller, laddove chi dovesse mostrare velleità più sofisticate possa comunque accedervi attraverso altri canali? 

Di fronte a questo tipo di obiezioni, si può forse, allora, scegliere di rinviare la rivoluzione, in attesa di un avvenire non troppo lontano in cui le ragioni per strappare la tessera del supermercato vengano più solidamente articolate. 

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