Andar per festival

29 Giugno 2022

I festival sono tantissimi; li conosciamo come manifestazioni versatili e adatte ad ogni tipo di palato e di territorio. Sappiamo che si sono inseriti sornioni in una tradizione di sagre, ricorrenze religiose, carnevali, rievocazioni storiche, contaminando e arricchendo i calendari. Festival è un termine molto generale, forse troppo. Un festival è un evento che ricomprende le biennali o le triennali, iniziative “storicizzate” come Sanremo o Spoleto ed espressioni della contemporaneità (dall’arte digitale, all’animazione), che lega i luoghi a specifiche persone che li hanno abitati (Verdi, Puccini, Rossini) o a specifici progettisti culturali che – come archistar del pensiero – sanno proporre temi complessi (la filosofia, la religione, la politica, l’economia) a pubblici non specialistici, nella difficile mediazione di rendere accessibili – ma non banalizzate – conoscenze specialistiche. 

Rispetto alle manifestazioni tradizionali, spesso fanno leva sulla geografia più che sulla storia, valorizzando le molte bellezze che il nostro paese offre, dai paesaggi agli spazi, stimolando la costruzione di edifici ad hoc (terrazze sul mare, auditorium, sale polifunzionali), o viceversa offrendo la possibilità di vivificare architetture pubbliche e private dormienti per una buona parte dell’anno (chiese, spazi civici, piazze, cortili, sale di varia suggestione). 

In alcuni casi sono nati già di dimensioni imponenti (numero di giorni, numero di eventi all’interno della stessa manifestazione, budget, capacità di attrazione), in altri sono cresciuti per via organica, “gemmando” altri eventi, prima, durante, dopo l’evento principale, segmentando i pubblici, modificando il sistema di prezzo, distribuendo le iniziative in quartieri, località, fasce orarie. In moltissimi casi sono rimasti più o meno orgogliosamente – o di necessità – piccoli, specializzati, per pochi. Talvolta nascono “dal basso”, su iniziativa di associazioni e gruppi di residenti, talvolta “dall’alto”, per stimolo di istituzioni pubbliche o private che coinvolgono curatori esterni. 

È proprio a causa di questa estrema versatilità che troviamo festival in centri di ogni dimensione e in ogni mese dell’anno; presi tutti insieme, costituiscono un vero e proprio settore dell’effimero. Il confronto con gli eventi della tradizione aiuta a metterne a fuoco, da un punto di vista economico, la progressiva industrializzazione; curatori, relatori, uffici stampa, fundraiser rappresentano sempre di più categorie professionali con diversa visibilità e reputazione, e portatrici di competenze di filiera specifiche e codificate, legate alla progettazione, alla gestione e alla promozione dei festival. Questa progressiva “istituzionalizzazione”, la crescita della professionalità media lungo tutta la filiera, la inevitabile costruzione di palinsesti e di format (qualche manifestazione per i bambini, una combinazione di incontri e visite a cantine e agriturismi, ripartizione fra iniziative mattutine e serali…) è al contempo causa ed effetto della crescita del fenomeno.  

A partire dalla loro esperienza pluriennale, Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino ci mettono a disposizione – con “In giro per festival” Altraeconomia 2022 – una sintesi ragionata ai festival culturali, mostrandoci con garbo e sintesi le infinite opportunità di svago e di stimolo intellettuale che il nostro paese offre attraverso questa tipologia di eventi.

Nel marasma di iniziative, il libro ha il pregio di segmentare i festival, orientando lo sguardo del lettore. Per quanto i festival censiti nella guida siano molti (direi poco meno di 200), si tratta di un campione piccolo ma ben costruito rispetto ai festival segnalati da trovafestival.it. È un campione che privilegia le organizzazioni indipendenti rispetto ai festival organizzati dalle istituzioni culturali e soprattutto che suggerisce intriganti chiavi di lettura del fenomeno. 

Il titolo è molto rassicurante e ci ricorda che i festival sono innanzitutto occasioni gioiose di scoperta. E, in effetti, l’intento dichiarato nel titolo e nel primo sottotitolo è di far venir voglia di mettersi in viaggio e scoprire l’Italia. La lettrice è indotta ad acquistare quello che pensa essere una agile guida turistica di prossimità, utile per organizzare una gita fuori porta, rigorosamente con annessa soddisfazione enogastronomica, o un fine settimana con pernottamento. Il bonario invito ad andare in giro, con una guida nomade, suggerisce occasioni di svago intelligente, per carità, ma che “fanno fine e non impegnano”. Alcune delle iniziative censite sono contenitori ampi, ricchi ed articolati, che di fatto invitano a scoprire piazze, palazzi, giardini, luoghi suggestivi.

Paiono quasi una scusa per inventare un motivo per visitare un luogo più o meno noto in un dato periodo dell’anno. Punto. Detta in altro modo, molti festival sono scuse per muoversi da un lato e per attirare pubblici generici dall’altro, non necessariamente colti, anche se incuriositi. Per una ricercatrice come me, un pregio della guida da questo punto di vista è il fatto di mettere in risalto la versatilità del festival come strumento di politica e di marketing territoriale dal lato dell’offerta, come momento di svago e di fruizione pubblica di spazi dal lato della domanda.

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La guida nomade allarga l’idea di possibile, mette allegrezza primaverile, tranquillizza rispetto alle motivazioni e suggerisce che ci sono un sacco di posti in Italia dove vale la pena andare a buttare un occhio. Secondo questa chiave di lettura, il festival democratizza la cultura, non solo perché porta varietà culturale in tante città grandi e piccole, ma perché crea un contesto di fruizione che potenzialmente mescola e allarga i pubblici potenziali. La guida nomade suggerisce a chi legge di vincere la pigrizia, godersi la giornata e scoprire e farsi suggestionare da luoghi e da persone. Il criterio di segmentazione è la domanda “perché no?”. Il pubblico della guida nomade è necessariamente ampio, perchè a tutti piace bighellonare; la promessa della guida è che ci sarà un posto o un’occasione che attirerà un po’ tutti. 

Il sottotitolo “di secondo livello” cambia il piano di lettura: stiamo parlando di “festival di pensiero, letteratura, musica, cinema, arte”. Mi piace molto la scelta dell’espressione “di pensiero”, perché è un criterio di segmentazione molto più preciso rispetto alle forme espressive. La guida nomade parla anche a pubblici più attenti, più di nicchia, pesca fra gli argomenti e le destinazioni, costruendo itinerari che non lasciano indifferenti viaggiatori potenziali più attenti e curiosi. Visti con questa lente, i festival di cui parliamo rivelano l’inventiva, la capacità progettuale e le reti di relazioni di curatori intelligenti e la fiducia di amministratori evidentemente illuminati. In questo caso, l’elemento distintivo del festival è la specializzazione; e mi piace molto che la guida peschi gruppetti di festival “affini” (per tema, per forma espressiva, per destinatari) e ci proponga dei percorsi, suggerendo di seguire una traccia e approfondire via via, guidati da una serendipity geografica. Il sottotitolo ci ricorda che se le feste della tradizione e i festival hanno la comune capacità di attirare il nomade viandante, i secondi sono anche occasioni per presentare nuove produzioni, per avvicinare linguaggi, per sperimentare. In questo caso, alcuni festival sono imperdibili appuntamenti per gli addetti ai lavori, che trovano insieme le nuove proposte del loro ambito di attività e gli operatori di riferimento. 

I festival rappresentano dunque un interessante “cortocircuito” fra spazi, sistemi di relazione e produzioni culturali; le amministrazioni culturali li guardano di buon occhio per la possibilità che offrono di caratterizzare la destinazione, di valorizzarne la specificità, di diventare strumento di marketing territoriale. La pandemia ha temporaneamente bloccato la crescita del fenomeno per evidenti necessità di distanziamento, ma ha ulteriormente contribuito alla crescita del fenomeno e alla sua articolazione, perché – attraverso la forzata “transumanza online” di eventi, relatori, pubblici – ha stimolato progettisti, organizzatori e promotori a confrontarsi con il rapporto online-offline, non solo per quanto riguarda le attività di comunicazione, ma anche quelle di progettazione e di produzione.

L’economia dei festival, e in alcuni casi anche il senso, ne è risultata modificata; la ripartenza in presenza mostra un contesto sempre vivacissimo in cui da una parte i festival si trovano ad avere a disposizione materiale per avviare un archivio online e potenzialmente estendere il loro effetto su periodi dell’anno più lunghi, dall’altra hanno la possibilità di accedere a relatori internazionali con una facilità maggiore che in passato, ma devono fare i conti con la difficoltà di attirare e trattenere online pubblici distratti. Immaginare e gestire un festival che rispecchi il nostro comportamento quotidiano – simultaneamente connesso alla rete e costruito su relazioni in presenza – non è cosa da poco. La disponibilità di un archivio online offre – almeno in linea teorica – la possibilità di allungare il periodo di efficacia del festival oltre alle giornate della manifestazione e quindi di “istituzionalizzarlo”, rendendolo parte stabile dell’offerta culturale di un territorio. 

In un contesto competitivo sempre più agguerrito, l’idea che la cultura possa essere motore di sviluppo è talmente radicata che le amministrazioni locali fanno sempre più fatica a sviluppare modelli distintivi di marketing territoriale basati sulla cultura. Capita di frequente di trovare tre o quattro città del libro a distanza di pochi chilometri, di avere tre o quattro candidature a capitale italiana della cultura in una stessa regione. Per chi progetta e gestisce festival, la concorrenza si manifesta in termini di numero crescente di manifestazioni nei dintorni, competizione nell’attrazione di risorse umane di qualità ed economico finanziarie, costi di promozione.

Da questo punto di vista, mi ha colpito nel libro la elevata incidenza di festival longevi: dei 169 festival recensiti nel libro di cui è segnata la data della prima edizione, 29 sono stati inaugurati oltre 50 anni fa, 49 negli anni 80 e 90, 89 sono stati inaugurati negli anni 2000. Se anche la Biennale di Venezia o il festival di Spoleto sembrano giovinetti rispetto ai Carnevali, ai Palii, alle celebrazioni della Settimana Santa, penso sia utile riflettere ad una profonda differenza che caratterizza i due tipi di manifestazioni: da una parte abbiamo una tradizione che si rinnova, ma che ha le sue radici e la sua ragion d’essere nella storia, dall’altra una manifestazione che per definizione è, o dovrebbe essere, contemporanea. Se è vero che ogni generazione ha i suoi eroi, non è facile per un festival mantenere negli anni il ruolo di scout delle novità e non solo di celebratore di chi è già famoso. 

Il libro è destinato ai frequentatori di festival (attuali e potenziali) e li invita a scegliere con leggerezza fra offerte intellettualmente stimolanti. Mi sento di consigliarne la lettura anche agli amministratori pubblici, cui spetta autorizzare, mettere a disposizione spazi pubblici, e spesso finanziare un numero crescente di manifestazioni, bilanciando le risorse disponibili fra chi propone iniziative effimere e chi propone una offerta culturae permanente. Il libro compie un prezioso sforzo di classificazione e costruisce percorsi di senso a partire da iniziative che già ci sono. Agli amministratori pubblici spetta avere un po’ di lungimiranza: trovare incentivi perché i festival collaborino fra loro, per allargare il raggio d’azione degli sforzi di comunicazione, per condividere calendari e proposte. Non si tratta solo di definire le politiche, ma di elaborare procedure che rendano più facile la collaborazione e più efficiente l’uso delle risorse. 

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